ROMA AL TEMPO DEL CONSOLATO DI MARCO TULLIO CICERONE

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ROMA AL TEMPO DEL CONSOLATO DI MARCO TULLIO CICERONE
ROMA AL TEMPO DEL CONSOLATO DI
MARCO TULLIO CICERONE
Dell'argomento si sono occupate migliaia di persone d'ogni tempo e d'ogni
parte del mondo, ma a noi non è parso inutile riassumere il meglio di quanto
esse hanno scritto, perché può interessare quanti oggi, con una vita così intensa
e tumultuosa, non hanno il tempo di leggere opere erudite e voluminose, ma si
contentano di sapere le notizie più essenziali e le azioni più straordinarie di personaggi vissuti in un periodo così procelloso della storia romana.
In primo luogo ricordiamo che a quel tempo Roma contava circa un milione di abitanti, ed era la città più popolosa del mondo antico. Era gente eterogenea, formata dai prischi abitanti del Lazio, a cui si erano aggiunti, man mano
Sanniti e Campani, Apuli e Bruzi, Siculi ed Etruschi, Piceni e Umbri, Greci ed
Allobrogi e Cisalpini, Macedoni e Traci, Cartaginesi e Mauritani. Per quanto Roma avesse promulgato sagge leggi per unificare tanti vari popoli, che avessero tradizioni, costumi, religioni assai diverse, pure non aveva raggiunto i risultati che si era proposti, e permanevano i motivi di discordia, che turbavano di
frequente la quiete pubblica ed erano causa di continui disordini e di fiere ribellioni. La Repubblica, un tempo solida e compatta, per cui aveva assoggettato
tanti popoli diversi, ora era agitata da furiose lotte civili, tormentata da ambiziosi
che per la brama del potere calpestavano ogni legge, commettevano ogni arbitrio,
fomentavano le sedizioni, e così aprivano la via alla tirannide.
La popolazione di Roma si componeva di tre classi, che erano in continuo
dissidio fra loro: gli aristocratici, i cavalieri e i plebei.
I primi erano discendenti dei prischi Romani, di quelli che avevano fieramente combattuto per creare la potenza dell'Urbe, e avevano adottato leggi e
istituzioni quasi sempre assennate per consolidare il suo dominio. Erano i pronipoti dei Fabi, dei Fabrizi, dei Cincinnati, degli Scipioni, dei Metelli, dei Valeri,
dei Catoni e di altri insigni casati che si erano coperti di glorie militari, ed erano
stati esempi di pregevoli virtù civili, di disinteressato patriottismo e d'incorruttibile moralità.
Per quanto avessero perduto gran parte dell'antico prestigio, e molti fossero
oberati di debiti, pure godevano di notevole influenza politica e sociale, facevano
sentire il loro peso nell'andamento della vita dello Stato, occupavano un posto
preminente nelle varie magistrature e nelle cariche militari. Essi formavano una
casta a sé, gelosa dei propri privilegi, riottosa ad aggregare i nuovi arrivati; alcuni
si distinguevano per meriti militari, altri per opere d'ingegno, ma i più vivevano
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nell'ozio, mirando più ai loro egoistici interessi che al bene della patria dimentichi delle virtù degli avi, tenaci conservatori dei loro privilegi.
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La seconda classe era costituita dai cavalieri, cupidi di onori e scialacquatori
di ricchezze, sfrenati nel godersi la bella vita, violenti nella sensualità, insolenti
nei litigi, e fomentatori di discordie, pronti ad accodarsi a chi li accarezzava.
Era la gente nuova, venuta su coi traffici e coi commerci, con gli appalti
governativi e coll'esercitare l'usura, facendo prestiti esosi, e accarezzando le plebi
affamate, cui talvolta placava la fame coll'elargire grano e danaro.
Veniva dalla provincia, e non aveva la cultura e la raffinatezza dell'aristocrazia,
ma la superava nel lusso, nelle elargizioni, nell'ambizione, per cui aveva un largo
seguito nel popolo minuto, coll'appoggio del quale aspirava al conseguimento delle
varie cariche della Repubblica, a farsi largo in quel labirinto di affaristi e d'intriganti, di faccendieri e di pervertiti.
La classe dei cavalieri si appoggiava a tutte le pedane per afferrare il governo,
oppure si gettava a capo fitto nella marmaglia per trovare l'espediente dello
scrocco e della truffa, insinuandosi nelle case e disseminando nelle famiglie la
dissoluzione e il ridicolo delle tradizioni. Essa era mandata nella capitale per
accrescere il censo familiare, per acquistare cariche e lustro, per procurarsi un
decoroso avvenire; colla sua condotta irrequieta e torbida sconvolgeva la solidarietà
dei patrizi, manometteva la loro posizione e affrontava tutti i rischi pur di dominare. Gente senza scrupoli e senza nobili ideali sapeva sfruttare ogni situazione
pur di salire e farsi rispettare.
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La terza classe era quella dei plebei, che era la più numerosa e irrequieta, e
formava il nerbo delle milizie. Il plebeo non era individuo spregevole, come comunemente si crede, ma era, secondo l'antica tradizione, chi non era discendente
del patriziato; perciò la classe dei plebei aveva notevoli benemerenze per aver
combattuto a formare la grandezza di Roma, per aver contribuito alle sue conquiste e promosso savie leggi, sostenuta dai suoi tribuni, che erano rigidi difensori
della libertà e tenaci custodi dei diritti popolari, frenando l'albagia dei patrizi,
che intendevano opporsi all'avanzata politica del popolo minuto.
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Al di sotto di queste tre classi c'era una grande moltitudine di schiavi che
proveniva da tutte le regioni conquistate. Erano italioti e greci, illiri e macedoni,
galli e ispani, lusitani e cartaginesi, traci e mauritani, che oppressi dai rapaci
padroni spesso si ammutinavano e si ribellavano costituendo un perenne pericolo
alla tranquillità pubblica.
Ogni aristocratico e cavaliere aveva i suoi schiavi, e non tutti li trattavano
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umanamente. I n generale vivevano nelle campagne per eseguire i vari lavori
agresti, bada re all'allevamento del bestiame, dissodare i terreni incolti, prosciugarli dalle acque malsane, ma molti vivevano in Roma presso i loro padroni,
per spalleggiarli nelle loro malefatte per difenderli dai nemici ed eseguire i
loro capricciosi desideri. Quando erano resi liberi per la loro fedeltà e devozione,
rimanevano presso i loro benefattori, e li seguivano in ogni loro impresa; i più
intelligenti erano adibiti a notevoli uffici, come pedagoghi, scrivani, segretari;
ma quanti mordevano il freno per la tirannica oppressione, divenivano una
minaccia pericolosa alla tranquillità dello Stato e alla pace pubblica.
Frequenti erano le loro ribellioni, che venivano represse nel sangue: la
più famosa fu quella diretta da Spartaco, che dette tanto filo da torcere e contro
cui Roma mandò valenti capitani tra i quali Licinio Gasso e Pompeo Magno.
***
La gioventù romana non brillava per peregrine virtù e per forte amor
di patria, ma era traviata dal lusso e trascinata dai piaceri sfrenati. Costretta
dall'ozio si abbandonava ai bagordi e alle taverne; soggetta ad ubbidire per tradizionale gravazione autoritaria di paternità, mordeva il freno, e voleva rompere
le briglie; incapace di emanciparsi, punta dalle strettezze della povertà sentiva
insoffribile il confronto con gli anziani, che si occupavano di uffici e di ricchezze.
Apriva gli occhi alle altrui fortune considerandole come angherie alla propria, e non intendeva aspettare la rotazione delle cariche con sistemazione legale.
Questi giovani scettici e buontemponi non accampavano alcun pregiudizio di
casta, e perciò ottenevano le compiacenze del popolo, che non dava peso alle
'loro stramberie, né frenava gli smisurati appetiti.
Nessuno può negare che il popolo romano avesse lodevoli qualità di dominatore, ma aveva anche gravi difetti. Era caparbio per allenamento di guerra.
e non dava tregua all'avversario; era volubile e pronto alle contese, alle vendette,
alle dissensioni che cessavano quando il nemico era alle porte, o quando un'impresa bellica prometteva sicuri guadagni. Facilmente corruttibile si accodava ai
potenti e a quelli che facevano prevedere largo bottino con le loro turpi azioni.
Vivendo quasi sempre nell'ozio affollava i giochi del circo, gli spettacoli dei gladiatori, le lotte tra gli schiavi e le belve. Il grido di « panem et circenses », era
la sintesi delle sue aspirazioni. I banchetti popolari si apparecchiavano con sontuosità tra luminarie e festoni fioriti, e chi più era prodigo di grano e di danaro,
aveva più numerosi seguaci cupidi di piaceri e avidi di godimenti, pronti ad
ogni ribalderia per appagare le proprie passioni.
Patrizi e plebei amavano e odiavano secondo le antiche usanze, dissentivano
e si accapigliavano su un comune possesso di nobiltà originaria. Ma la borghesia
mirava soltanto ad inserirsi fra essi, per conquistarsi le principali cariche pubbliche sconvolgendo la solidarietà patrizia, e manomettendo le posizioni del popolo.
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Poco lodevole era la condotta della maggior parte delle matrone romane.
Era passato il tempo delle Lucrezie e delle Clelie, delle Volunnie, delle Veturie,
delle Cornelie, donne di alta moralità ed esempio di eccellenti probità, che avevano lasciato luminosi ricordi di grande amor patrio, di austere virtù domestiche, di morigerati costumi. L'influsso della raffinata e decadente civiltà greca
si faceva sentire in Roma, dove s'era affievolita la tradizione degli avi, dove la
mollezza e il vizio imperavano largamente, e la castità, la fedeltà coniugale erano
un mito. Ora in molte matrone predominava la smania dei divertimenti, l'infrenabile tendenza al lusso, la capricciosa vanità muliebre, la civetteria, la volubiliià e la sfacciataggine. La corruzione dilagava specialmente nella classe dei ricchi, e ben pochi dei potenti contavano famiglie oneste e intemerate. Ogni tanto
un marito si accorgeva dell'inganno della moglie, e la ripudiava, ma la scostumatezza femminile non cessava. Cesare si divise dalla moglie Pompea quando seppe
della sua tresca con lo sfacciato Clodio. A sua volta Cesare giacque nel talamo
di Muzia moglie di Pompeo Magno per consolarla dell'assenza del marito, occupato nella guerra d'Oriente. Fulvia mescolava gli amorazzi con la politica e si
rivelò dinanzi al senato donna (li un partigiano di Catilina per accaparrarsi la
taglia promessa alle spie. Fausta, figlia di Silla e moglie di Milone, fu colta sul
fatto dal marito nelle braccia del giovane Sallustio, il quale fu punito prima
colla solenne bastonatura dei servi per ordine del coniuge tradito, poi col pagargli una forte somma ricavata dalla vendita della propria casa per non far
conoscere lo scandalo al pubblico. Clodia, moglie di Metello Celere, era famosa
come provetta etera, adescatrice dei giovani, cupida di piaceri, propensa a passare da uno ad un altro maschio, per cui era chiamata con termine spregevole e
volgare, disonorante per ogni donna, « Quadrantara », dalla moneta spiccia che
era il gettone dell'amorazzo mercenario. Servilia, sorella di Catone, divenne donna di Giulio Cesare, e la vestale Fabia non si peritò di darsi in braccio a Catilina,
pur sapendo che ceffo di libertino fosse costui.
Sono noti i versi di Catullo, che si era abbandonato ai vezzi amorosi di
Lesbia:
O Lesbia mia, viviamo all'amore;
il borbottare degli accigliati vecchi
tutto non vale il becco di un quattrino.
Precipitano i soli per risorgere;
noi caduta la luce del barlume,
ci sperderemo nell'eterna notte.
Donami mille baci e poi cent'altri,
ancora mille, e poi replica i cento;
quindi altri mille e di nuovo altri cento.
E nel conteggio dei mille baci
c'imbroglieremo sulla quantità,
perché nessun maligno entro si roda
ai tanti baci che ci siamo dati.
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Questi versi sono una delle tante prove che testimoniano la funesta corruzione che serpeggiava io mezzo alle matrone romane, tanto diverse dalle loro
a n lenate. A I la stessa amante, quando I i tigarono, e passò il periodo della libidine,
i l poeta rivolse le più violente frecciate, chiamandola « schifo », « saltimbanca »,
« sguaiata », « grugno di cagnetta gai I icana », « feten tona », « fecciume di bordello », « spregio dei pii:i lurid i ri fiuti », ecc.
Chi mai avrebbe osato nei tempi passati di rivolgere a una donna, anche
di umili natali, insulti così atroci, parole tanto invereconde, villanie così oltraggiose? Era tanto mutato il rispetto che si aveva per creature così dolci, che
formano la consolazione della vita? Come poteva essere salda una società, che
offriva esempi così turpi di libertinaggio e d'immoralità? Dov'erano i mariti
che per un semplice sospetto d'infedeltà ripudiavano la moglie, e condannavano
a morte l'adultera?
Non intendiamo scrivere la storia di Roma, conosciuta da tutti, ma accennare brevemente a taluni personaggi, che in quel tempo fosco e gravido di funesti avvenimenti si distinsero per spiccate qualità buone o cattive, e che ebbero
non piccola parte nel mutare le condizioni politiche di Roma.
Dopo la funesta guerra civile tra Mario e Silla, che tanti lutti e dolorose
rovine aveva cagionato alla Repubblica, si era avuta la crudele dittatura di Silla,
acerrimo aristocratico e indomito nemico del popolo. La plebe aveva perduto
molti diritti acquistati con lotte superbe e talvolta sanguinarie, e oppressa dalla
tirannide giaceva nello sgomento e nell'anarchia. Mancavano fra gli aristocratici
gli uomini adatti a mantenere la linea di condotta che aveva guidato il fiero
dittatore, e i democratici, pur agitandosi per scuotere il giogo opprimente, non
avevano un capo che sapesse frenare i disordini e sfruttarli per dare un nuovo
indirizzo allo Stato.
Intanto apparivano sulla ribalta della storia altri personaggi, che dovevano
avere notevole importanza nella politica della Repubblica, e far sentire la propria
influenza nelle scabrose vicende della sua storia. Uno dei primi era Pompeo,
seguace di Silla, il quale ne aveva intuito le eccellenti qualità militari e la
boriosa alterigia. Dopo la prima vittoria del giovane capitano, gli aveva negato
il trionfo, onde Pompeo gli aveva ricordato che il sole che nasce ha più adoratori del sole che tramonta, rivelando così la fiducia che aveva nel suo destino,
e nella meta che si proponeva di raggiungere. D'ingegno non comune, ma di
carattere incerto, Pompeo procedendo ora con esagerata crudeltà, ora con inspiegabile generosità, si era procacciato l'appoggio della classe aristocratica e un
discreto seguito anche in mezzo alla plebe per la sua onestà e rettitudine, per
cui aspirava a grandi cose. Sapeva dissimulare e nascondere i baldanzosi progetti, che vagheggiava, e forte dei propri meriti militari, mostrava disprezzo per
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i politicanti, che lo superavano per cultura ed eloquenza. L'impresa, che più
gli dette fama e aumentò il suo prestigio, fu la distruzione dei pirati che infestavano il Mediterraneo: questi predoni, protetti dai nemici di Roma, possedevano navigli veloci, equipaggi destri, basi navali e rifugi dalla Spagna alle sponde
asiatiche. Predavano sul mare regolando col ricatto e con i balzelli l'itinerario
dei mercanti. Estendevano la rapina non solo alle città costiere, ma anche a
quelle dell'interno, che mettevano a ferro e fuoco accumulando ingenti ricchezze. La flotta romana era fiacca di fronte a tante scorrerie, e pur con qualche
parziale vittoria non riusciva a frenarle. Sia gli aristocratici sia i popolani, vedendo i gravi danni che le azioni dei pirati portavano all'economia romana, furono concordi nel designare Pompeo come duce supremo della flotta che doveva
assalirli. Egli in 40 giorni riuscì a snidare le bande corsaresche dai porti e dalle
basi del Mediterraneo, distruggendo o catturando i loro navigli nei mari di Toscana, di Sardegna, di Sicilia e d'Africa. Così l'attività dei traffici riprese, le
merci potettero prendere la via di Roma, e il ricambio del danaro riacquistò
favore.
***
Caio Giulio Cesare era il personaggio più autorevole e temibile che poteva
contrastare le mire di Pompeo.
In uno studio come il nostro, che non ha la velleità di dire cose nuove,
non possiamo rilevare le qualità specifiche di questo gigante che emerge come
uno dei maggiori astri nel firmamento della storia umana, ma accenneremo rapidamente a qualche sua impresa che valga a caratterizzare quel grande genio
sovrano e le sue ardenti brame di dominio.
Nato da antica stirpe, si vantava d'essere discendente dei re di Roma per
parte di madre, e della dea Venere per parte di padre; quindi nella sua famiglia si confondevano la santità dei re, che sono i potentissimi fra gli uomini, e
la maestà degli dei, che tengono in soggezione gli stessi re. Nipote di Mario e
genero di Cinna, già capi della democrazia, si fece seguace delle loro idee politiche, e presto si atteggiò a vessillifero delle opposizioni all'aristocrazia dominante, per sgretolarne il prestigio e la potenza. Egli si preoccupò di stringere
intorno alla famiglia Giulia la parentela e i clienti, i partigiani e i servi per
restaurare i vincoli e la disciplina nella sua casa, indispensabili all'attuazione
dei suoi audaci disegni d'egemonia e del suo sogno di supremazia. Nemico di
Silla, mirava a diminuirne la popolarità e la superbia, e mentre il vecchio dittatore era rigido osservatore della morale, Cesare era dominato dalla lussuria e
dalla smania di spadroneggiare. Sulla mirava alla distinzione per riconquistare
í privilegi di casta, Cesare percepiva che nel governo della Repubblica nulla
era da distruggere, ma c'era da aggiungere e coordinare secondo le recenti esperienze. Intorno a Cesare si formò una ressa di adulatori, che lo gonfiavano d'orgoglio e lo spingevano a distinguersi e a farsi largo tra gli emu I i, non meno
faziosi e pericolosi per la quiete pubblica.
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vita di Cesare è piena di in finite peripezie, che si possono leggere nelle
tante biografie scritte al riguardo; noi per rimanere nei limiti propostici nel
tema, ne accenneremo qiialettna.
Sfruttando il culto delle memorie di cui Mario godeva nel popolo, per assurgere al potere, Cesare coglieva ogni occasione per rinverdire il ricordo delle sue
gesta memorabili. Tra l'altro ideò di collocare notte tempo sul Campidoglio le
statue dello zio e gli emblemi delle sue vittorie sui Cimbri e sui Teutoni. Al
mattino le insegne sfolgoravano d'oro, e le iscrizioni apposte alle basi incidevano
le virtù del guerriero. Grande fu lo stupore della gente dinanzi a quella sorpresa e l'entusiastica curiosità si manifestò nel coro di lodi rivolto a Cesare. Fu
un lungo accorrere di popolo a compiacersi di quella resurrezione, che empiva
t'animo di orgoglio. Strepitosi applausi e voci di riconoscenza commovevano le
moltitudini, e Cesare diveniva sempre più l'idolo della plebe, che lo esaltava
come suo capo e strenuo difensore. Morto il pontefice massimo Metello, al supremo sacerdozio tendevano Quinto Lutazio Catulo e Publio Servilio Isaurico,
uomini di nobile prosapia e di riconosciuto valore; loro competitore fu Cesare,
ritenuto inesperto delle umane passioni per la sua giovinezza e troppo infatuato
di se stesso. Catulo, temendo la sconfitta, offrì al giovane una somma di danaro
perché si ritirasse dalla lotta, ma Cesare rifiutò, e il giorno della votazione sconfisse i due competitori.
Uno dei fatti più notevoli della sua giovinezza avventurosa fu la prigionia
che subì da parte di una masnada di pirati. Veleggiando per Rodi, la nave
che lo portava verso l'Oriente fu catturata da una flotta di predoni nelle vicinanze di Mileto, i quali gli imposero di pagare un prezzo di riscatto di 20 talenti.
Egli non si sgomentò, anzi rispose che ne avrebbe pagato il doppio, ma promise
che li avrebbe fatti impiccare. Non avendo il danaro, mandò a Roma alcuni
amici per procurarlo, e nei quarana giorni che fu con quei masnadieri, li obbligò ad ascoltare i suoi versi e le orazioni che componeva. Quei ladroni, benché
rozzi ed ignoranti, lo ammiravano e lo presero in simpatia, quasi pentiti d'avergli fatto oltraggio. Pagato il prezzo del riscatto, e ottenuta la libertà Cesare
armò a sue spese un piccolo naviglio di corsa, colse all'improvviso i pirati e
condottili a Pergamo, ordinò che fossero giustiziati in croce.
Quell'audace impresa arrecò all'arte d'imperio dell'ardito giovanotto un
completamento di esperienza, una prova della duttilità degli uomini, un significato recondito dell'eloquenza che s'era rafforzata alla scuola di Apollonio Molane, che doveva giovargli in seguito per il conseguimento delle sue mire egemoniche. A Roma la sua anducia fece molto scalpore, ed egli acquistò maggiore
prestigio e popolarità. Spirito superiore e ambizioso non si era piegato all'odio
di Silla quando era quasi fanciullo, e passato indenne fra le armi della oligarchia, l'attaccava con sangue freddo e smisurata audacia; non si scoraggiava alle
sconfitte, ma persisteva nella lotta per conseguire la vittoria. Bramoso del potere
preparava il terreno alla sua ascesa politica, e con costanza mirabile, con atti
generosi, con una politica oculata e chiaroveggente, si spianava il difficile cammino verso la tirannia.
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Figura non secondaria era quella di Marco Licinio Crasso, che proveniva
dal ceto dei cavalieri: egli intromettendosi in varie speculazioni, tra cui quelle
edilizie, era riuscito ad accumulare ingenti ricchezze, forse le maggiori che possedessero i ricchi romani, e aveva legato a sé molti dell'aristocrazia e dei borghesi col concedere loro notevoli prestiti occorrenti a liberarli da gravosi debiti.
Di carattere fiacco e oscillante si era appartato dalla vita pubblica, deluso
nelle speranze di facili onori, ma pur non primeggiando fra i suoi emuli, non
mancava di inserirsi nelle contese cittadine appoggiandosi a vari gruppi popolari
e ai discendenti dell'antica democrazia, che anelavano a utili riforme. Erano
in prevalenza cavalieri, patrizi scontenti che non si arruolavano in un partito,
ma erano pronti nel momento opportuno a formare una notevole opposizione.
Questa amorfa massa di scontenti era dominata da non larvata corruzione, e diveniva fonte di discordie e strumento nelle mani di ambiziosi. Crasso era aperto
rivale di Pompeo, e durante il loro consolato non avevano dato prova di leale
amicizia e di uniformità di pensiero per il bene di Roma.
***
Un perverso personaggio era Clodio, fratello della sfacciata Clodia, per la
quale anche Cicerone aveva perduto la testa. Il perfido s'era macchiato di numerosi turpi infamie; rinnegando la sua stirpe aveva dato un calcio al privilegio
patrizio e si era portato nei ranghi plebei facendosi adottare da una famiglia
popolana. I suoi precedenti militari risultavano scabri per varie peripezie poco
plausibili; lo si accusava di ammutinamenti nell'esercito di Lucullo in combutta
con Tigrane re dell'Armenia; di commercio col nemico a danno della Repubblica; di essere stato sconfitto in Cilicia per aver mal diretto la flotta affidatagli
contro i corsari, dai quali era stato oltraggiato e catturato, solo più tardi liberato da Pompeo.
Eppure con tanti lati negativi era riuscito a farsi temere, e con perfida scaltrezza s'era circondato di una camarilla di facinorosi che lo consideravano loro
capo e ubbidivano ai suoi ordini. Nel labirinto di Roma era uno dei pochi
che sapeva vedere chiaro e camminare alla scoperta. Il suo mestiere più lucroso
era il ricatto, e tutti lo temevano come audace accusatore, per cui si procurava
sudditanze e connivenze, complicità e sostegni anche in personaggi delle classi
altolocate. La sua malvagità non aveva limiti, e se ne ebbero numerose prove
negli anni successivi durante le fiere lotte fra i maggiori esponenti della Repubblica.
Tra gli aristocratici spiccava Marco Porzio Catone, uomo d'antico stampo,
austero e rigido conservatore, nemico delle novità che minavano la saldezza
della Repubblica. Ci teneva ad essere seguace del suo avo, che per i suoi integri costumi era stato chiamato il Censore », ed era stato implacabile sostenitore della distruzione di Cartagine. Sin dalla giovinezza aveva lottato contro la
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rm-rimione di Inali te, e contro l'intemperanza (lei nuovi arrivati, ed era indo/
mahi le nel criticare quanti per ambizioni (li potere e srenata libidine rovinavano I n Repubblica. Si poteva giudicarlo un maniaco dell'onestà, era fanatico
dispregiatore della ricchezza, un in flessibile flagellatore dei viziosi, e nel senato
incuteva rispetto e timore nei colleghi che ne temevano la durezza del carattere, la indipendenza angolosa e fiera, la vivacità delle rampogne, che non aveva
riguardi per nessu no. Egli si credeva investito della missione di conservare la
dignità del la Repubblica, di purificarla delle sue brutture, e arrivò a bollarla
con la terribile frecciata di « sentina di Romolo ». Non transigeva in nessun
modo con gli avversari, non dava quartiere ai politicanti e ai falsi patrioti, i
quali più che al bene e alla grandezza di Roma pensavano a soddisfare le proprie passioni di dominio, accelerandone lo sfacelo.
***
Figura di primissimo piano era Marco Tullio Cicerone, nato ad Arpino da
famiglia poco nota, il quale ci teneva a qualificarsi « uomo nuovo », e si vantava di voler rendere il suo nome illustre con le opere, non per la nobiltà dei
natali.
Uomo di grande eloquenza, entrato giovanissimo nella vita forense con foga
d'ingegno superiore, e con nobiltà di cultura filosofica e giuridica, s'era rivelato coraggioso fustigatore di birbanti matricolati, ardito difensore della giustizia e dell'onestà, scrittore fecondo ed originale. Gli piaceva ascoltare i discorsi
di tutti, i facili e i difficili, i sensati e i melensi; possedeva la capacità di determinare di ogni fatto e d'ogni azione le cause e i motivi, i sensi manifesti e
quelli riposti delle proposte altrui, e ne traeva le logiche conseguenze per regolare la sua condotta. Ricostruiva per testimonianze a modo proprio, e per indizi
sentenziava; pure apponeva alle esposizioni un calore talmente benevolo e persuasivo, che disarmava gli avversari. Contrastando in nome della libertà le minacce della dittatura, era riuscito a imporre la sua superiorità moderandola dei
pareri senatoriali, che egli stesso ispirava. Auspicava la fusione dei patrizi e
dei cavalieri in una sola forza di « ottimati », che sulle qualità intellettuali e
morali fondassero le basi delle magistrature repubblicane. In tal modo si cancellavano le condizioni di casta, e si potevano raggiungere buoni risultati per
salvaguardare i diritti del popolo e consolidare le istituzioni.
Plutarco racconta che in gioventù Cicerone aveva chiesto all'oracolo di
Delfo quale arte dovesse usare per divenire glorioso. Apollo gli parlò per bocca
della pironessa, la quale gli disse che la gloria gli sarebbe venuta dal seguire
la sua indole senza curare le opinioni delle masse. Invece l'Arpinate non dette
peso al responso della divinità, e atteggiò la sua indole al fascino della moltitudine, e fu oltremodo impressionabile dalle lodi e dai biasimi.
La vanità mista all'ambizione spingeva Cicerone alla lotta politica per il
trionfo della borghesia sul patriziato, e faceva tesoro delle sue innegabili facoltà
intellettuali e morali per raggiungere la meta prefissa. Avviandosi al consolato
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