il giorno in cui si spense l`eroe dei due mondi

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il giorno in cui si spense l`eroe dei due mondi
A CAPRERA, IL 2 GIUGNO DEL 1882
IL GIORNO IN CUI SI SPENSE
L'EROE DEI DUE MONDI
Quel 2 di giugno del 1882. Caprera sembrò perdere la sua anima: lutto e
silenzio attorno al feretro dell'eroe che l'isola aveva accolto con tanto entusiasmo
allorchè egli la prescelse a suo rifugio. Tempo passato: era il 1854.
Navigava sul Tirreno, Garibaldi, quando egli e i suoi compagni furono
sorpresi dal fortunale. Ripararono alla Maddalena. Piacque subito — chi sa per
quale misteriosa affinità fra l'anima di Colui che della sua vita tutta aveva fatto
una poesia cantata con l'arma in pugno nel nome della libertà e dell'indipendenza
dei popoli, e l'anima dell'isola flagellata e carezzata dal mare — piacque subito a
Giuseppe Garibaldi Caprera. E pensò, l'eroe, che sarebbe stato l'angolo ideale da
prescegliere per ritornarvi, nelle ore di stanchezza o di attesa e per morire forse,
se ebbe un attimo di divinazione anche allora, come tanti ne aveva avuti nella
sua vita.
Fu così che Caprera divenne l'isola di Garibaldi: Egli ebbe lì un po' di terre
e quella casa che avrebbe udito con angoscia il suo ultimo respiro.
Dopo il suo primo incontro con l'isola, Garibaldi doveva ritornarvi da esiliato
una prima volta, il 24 settembre 1867, epoca che vide il suo disperato tentativo
di strappare Roma all'assurdo dominio del quale era ancora per forza di circostanze
in potere, per farne il cuore dell'Italia ormai ricongiunta. Non vi riuscì: arrestato
Sinalunga venne imbarcato per Caprera. Ma non vi rimase che un mese: e malgrado l'intensa sorveglianza della flotta, il 23 ottobre ritentò la buona sorte.
E fu ancora una volta sfortunato: a Mentana, malgrado i miracoli di eroismo
compiuti da lui e da quel pugno di uomini che lo circondava, non poté resistere
all'accerchiamento delle truppe francesi e pontificie e dovette ordinare la ritirata.
Seguì l'arresto a Foligno da dove egli venne in seguito condotto al Carignano.
11 25 novembre ecco che lo imbarcano di nuovo per Caprera.
Fu un secondo esilio che Egli prolungò, stavolta, volontariamente. Non doveva
infrangerlo che nel 1870, per un nobilissimo impulso del suo grande cuore generoso:
ritornava Egli a combattere e, questa volta, per la Francia. La campagna contro la
Prussia d'allora vide una sola vittoria da parte dei Francesi. E quella v in oria fu
riportata da un italiano: Giuseppe Garibaldi che a Digione (21-23 gennaio 1871 )
riusciva a mettere in fuga, strappando una bandiera, unico trofeo di quella guerra
l'onesta ai Francesi, al nemico.
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Poi fu il ritorno definitivo: aveva ben diritto di riposarsi del lavoro dí tutta una
vita l'uomo che di questa sua vita aveva fatto una meravigliosa, eroica avventura
su tutte le terre, su tutti i mari.
La sua personalità aveva cominciato p resto ad affermarsi: più che il padre,
piccolo armatore e capitano di navi da cabotaggio, a Nizza, ne era stata consapevole la madre Rosa aimondi, protesa con ansiosa inquietudine a vigilare quel suo
figliolo così bello, così alto, così biondo, così assorto a sognare grandissimi sogni.
Colui che doveva diventare un capitano di popoli, s'imbarcò per la prima
voli a su un brigai) tino come mozzo. I I viaggio era l ungo e pericoloso, che la inèta
era Odessa. Nel secondo viaggio ebbe un posto più onorifico: fu a fianco di suo
padre, comandante della tartana che prendeva il mare.
Molti viaggi seguirono poi in Oriente. E venne l'ora di fregiarsi dei galloni
di capitano a bordo di una nave ai suoi comandi. A contatto con l'azzurra distesa
sconfinata del mare, più in lui si sviluppò quel senso dell'indipendenza che avrebbe poi inculcato a tutti i poi.oli oppressi.
Si trovava, un giorno del 1833, in una taverna di Teranrog, nel Mar Nero,
quando udì parlare qualcuno di cosa che gli morse il cuore infinitamente: nostalgia, rimpianto, presagio del suo destino? Chissà?
Chi narrava era un patriota genovese. Nelle sue parole passava la tristezza di
un'Italia asservita allo straniero e una grande luce, la luce di un nome: Mazzini.
E Garibaldi s'imbarca diretto a Marsiglia: vuole conoscere Mazzini, vuole
sentirlo parlare, vuole divenirgli fratello in quel grande sogno dell'unità nazionale.
Così entra a far parte della « Giovane Italia ».
Pure è destinato a deludere Mazzini. E questo per la sua grande sincerità, quella
sincerità che gli farà pronunciare parole che amareggeranno profondamente il repubblicano genovese: — «Io fui repubblicano, ma quando seppi che Carlo Alberto si
era fatto campione d'Italia, ho giurato di obbedirgli e di seguire fedelmente la sua
bandiera. In Lui solo vidi riposta la speranza della nostra indipendenza. Carlo Alberto sia dunque il nostro capo, il nostro simbolo. Gli sforzi di tutti gli italiani
si concentrino in Lui. Fuori di Lui non vi può essere salute ».
Dissero allora, i seguaci di Mazzini, che « L'America era stata sì per Garibaldi
un'eccellente palestra per l'educazione militare, ma non una buona scuola d'istruzione politica ».
Invece, certamente era stata l'una e l'altra. La parte più avventurosa e anzi
romanticamente avventurosa, della sua esistenza, egli l'aveva vissuta in Brasile,
nell'Argentina, nell'Uruguay.
Le sterminate pianure americane avevano visto il suo galoppo leggendario e
una donna da leggenda. Egli là aveva conosciuta e avuta a fianco Anita, colei che
seppe essere per lui tutto: compagna, sposa, madre di quei suoi figli nati tra
il rombo dei cannoni e i rantoli di morte dei caduti, eroina con lui: compagna della sua vita guerresca e in ora di guerra caduta.
Poi, a compagna della sua vita di pace, un'altra donna gli avrebbe assegnato
il destino: Francesca Armosino, che lo avrebbe aiutato a serenamente invecchiare
a Caprera, ultimo rifugio. Ultimo rifugio turbato certo dalle vampate di ricordi che
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dovevano tornare quando egli era solo, a stringergli il cuore in una morsa nel feroce
rimpianto dell'uomo d'azione che il tempo e le vicende costringono all'immobilità.
Chissà quante volte Egli dovette, con l'urgere del pensiero, rivivere la più
grande impresa compiuta fra quante ne ideò nella vecchia Europa e nella giovane
America: l'impresa siciliana.
Maggio avvampava attorno alla Battaglia di Calatafimi e alla conquista della
città della Conca d'Oro.
E ancora la battaglia di Milazzo, il 20 luglio; il passaggio dello stretto di Messina, il 19 agosto; l'entrata a Napoli, 7 settembre; la battaglia finale al Volturno,
il primo e il due ottobre.
Di un solo colore la camicia che indossavano i garibaldini e il sangue delle
loro ferite che gloriosamente la macchiavano.
Tutti tornavano all'appello del ricordo, quando la malinconia del tramonto
invadeva la casa di Caprera, dove un uomo non si ritrovava più rievocando quel
che era stato.
Fu forse per sottrarsi alla folla delle tornanti immagini, forse perchè non
poteva sopportare un'inattività completa, che Garibaldi, negli ultimi giorni della
sua vita si mise a scrivere. Completò le sue memorie autobiografiche, iniziò tre
romanzi: «Clelia o il governo del Monaco», «Cantoni, il volontario» e «I mille ».
E scrisse anche delle poesie: ma nessuna mai avrebbe potuto scriverne bella
come la poesia che aveva vissuta ragazzo, giovane, uomo.
Grande italiano, Egli fu la più perfetta immagine delle virtù della nostra
stirpe. Questa nostra stirpe fatta di eroi, di santi, di geni, di condottieri che passano
nel mondo. lasciando tracce incancellabili.
MARIO MOSCARDINO
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NELLA COSTELLAZIONE DEL 1848
CENT'ANNI FA A VICENZA
L'eroica morte di Natale Del Grande alla testa
dei suoi Legionari romani gridando: Viva l'Italia
« Signori, una parte del nostro esercito ha capitolato a Vicenza e assalito da
forze esuberanti ha dovuto scendere a patti onorevoli, come onorevolissime sono
state le difese e le prove di valore che i nostri hanno fatto. Gli italiani si sono
mostrati degni del nome italiano ». Così, il 16 giugno 1848, parlò Luigi Carlo
Fari rii, nella tornata straordinaria del Consiglio dei Depurati convocato allorchè
erano giunte le prime notizie della sconfitta subita sei giorni prima dai legionari
romani, che valorosamente difendevano la gloriosa città veneta contro gli austriaci.
IL DOLORE DI ROMA
Roma fu dolorosamente colpita. « E' impossibile, si legge in un diario del
tempo, di descrivere lo sbigottimento e il dispiacere che produsse tale inaspettato
avvenimento ». Inaspettato, perché dal 19 al 24 maggio i legionari romani avevano
sostenuto vivaci combattimenti respingendo sempre il nemico, tanto che il gen.
Durando, comandante dell'esercito pontificio in un ordine del giorno, li aveva
elogiati, affermando che Vicenza era ormai al coperto da un colpo di mano. Invece
Radetzky, reduce da Goito, puntava sulla città palladiana con forze almeno doppie
di quelle dei difensori, mentre ad essi veniva a mancare l'appoggio dell'esercito
napoletano, richiamato dal Borbone. Poi giunse il rapporto ufficiale sulla difesa di
porta Padova, affidata alla P legione romana, con la ferma notizia che, alla testa
dei suoi militi, era caduto Natale Del Grande, « uomo popolare ed universalmente
conosciuto ed amato ». « Il colonello — scriveva da Vicenza il ten. col. Bartolomeo
Galletti in un rapporto al Maestro delle Armi — scorreva di barricata in barricata, parlando parole degne di chi comandava a gente animosa. Il fuoco divenne
sempre più vivo. Dopo le due pom. mi è riferito che il Colonello era stato colpito
in una anca da un razzo e trasportato appena all'ambulanza fu morto. Le sue ultime
parole furono: viva Pio IX! Viva l'Italia! grido che udivasi nel Borgo ripetere da
tutti i legionari allo scoppiare d'ogni bomba, al fischiare di ogni palla, al cadere di ogni proiettile. L'intiera Legione fu onorata senza distinzione ». Ed il
Galletti continuava, citando gli atti di valore compiuti dal principe Simonetti, comand. il 2. Batt., dal chirurgo maggiore Leonini, dal ten. col. De Ano-elis che si
era battuto sulle barricate come un semplice milite, dal magg. Arnemi, dal ten.
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di armamento Tomassoni, dai cap. Moneta. Malagrucci, Odoardo Sansoni. Bei nomi di autentici romani che nel centenario della primavera della Patria è bene siano tolti dall'immeritato oblio. E di se stesso il Galletti non voleva parlare. Ho
fatto meno di quello che avrebbe voluto il mio cuore acceso dell'amor d'Italia.
Duolmi solo che la morte abbia risparmiato me piuttosto cbe il mio Colonnello ».
Natale Del Grande, nato a Roma il 9 dicembre 1800, era un ricco mercante
di campagna, esponente della migliore borghesia. Era stato ira i primi a far parte
dei battaglioni della Guardia Civica, istituita da Pio IX il 5 luglio 1847, ed aveva
largamente contribuito a sue spese alla organizzazione dei civici. Quando si aprirono gli arruolamenti per le legioni mobilitate, che secondo il volere del Pontefice dovevano limitarsi a proteggere le frontiere dello Stato, venne nominato col grado di
ten. col. comandante della prima. Ed il 26 maggio 1843 alla testa di due battaglioni,
sul miglior cavallo delle proprie scuderie, era partito applaudito col più vivo entusiasmo dal popolo affollato lungo il corso e la Flaminia sino a Ponte Milvio per porgere ai militi il saluto augurale.
Sono ben note le incertezze del papa e del governo di Roma nei riguardi
della missione affidata all'esercito pontificio, parte del quale, desideroso di combattere per la indipendenza d'Italia, malgrado esortazioni ed ordini che volevano
impedirlo, il 1. maggio passava il Po. Natale Del Grande era stato tra i promotori dello sconfinamento. Pur digiuno di scienza militare, aveva mostrato naturali attitudini al comando riuscendo ad imprimere alle sue truppe, costituite
da elementi eterogenei, il sentimento della disciplina. Perciò, entusiasta com'era
di sinceri sentimenti d'italianità, restò dolorosamente colpito quando dopo uno
scontro a Cornucla con gli austriaci per confusione di ordini dei superiori comandi, cui forse non fu estraneo il tradimento, molti legionari si abbandonarono
ad una disordinata ritirata su Treviso. Egli però riuscì a riordinare le sue schiere
cd a portarle a Vicenza, dove aveva approntato gli opportuni mezzi di difesa. E
li cadde valorosamente combattendo.
A S. FRANCESCO DI PAOLA
Dopo la capitolazione, i legionari sfilarono avanti ai vincitori, secondo i
patti, che presentavano le armi. Portavano con loro la salma di Natale Del Grande
che non avevano voluto abbandonare, desiderando che tornasse in patria per ricevere i meritati onori.
Il 25 luglio i reduci era accolti solennemente a Roma dalla civica Magistratura, dalle autorità politiche e militari e dalla popolazione che li coprì di fiori.
Le spoglie di Natale Del Grande, di città in città, in un succedersi di manifestazioni, che avevano la nota romantica del tempo, giunsero pure esse a Roma
il 18 agosto. Un vero trionfo salutò la salma dell'eroico difensore di Vicenza. La
Legione mobilitata ed un battaglione della Civica erano « schierate in battaglia »
fuori Porta del Popolo, donde iniziò lo sfilamento del corteo. Il clero e i cappellada quattro cavalli bardati a lutto e
ni della Legione precedevano il carro trainato
spada del defunto, cinti d'alloro. Lo
coperto da una coltre con sopra l'elmo e la
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circondavano ventiquattro sottufficiali con torce. Seguivano ufficiali d'ogni arma
e grado albi testa dei quali i gen. Aldobrandini, 13entívoglio, Pigolano e Zarillioni,
e poi i soci dei Circoli con le loro insegne ed i reduci e i civici u con le armi
rovesciate e grave contegno al flebile suono di musici stromentí e dí tamburi ».
Il Corso era gremito di folla reverente e commossa, accorsa l'indomani al Gesù
per assistere alle solenni esequie, celebrate alla presenza dell'Alto Consiglio, dei
Deputati, del Senato romano e delle rappresentanze militari. La Legione mobilitata
e la Civica eseguirono le scariche d'onore. Poi i resti di Natale Del Grande furono
trasportati nella chiesa di San Francesco di Paola ai Monti ed inumati nella tomba di famiglia.
A cent'anni dalla morte, Roma che già lo aveva onorato dedicandogli una via
in Trastevere ed erigendogli un busto al Gianicolo, ne rievoca degnamente il sacrificio alla Patria nella solenne maestà del Campidoglio e lo eterna ai posteri con una
lapide nel sacro luogo dove è sepolto.
MARIO MOSCAROINO
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