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PICCOLO DIARIO
1
Per chi oggi naviga sui quarant'anni, la Fiera, le prime edizioni della
Fiera del Levante, vogliono dire un'età favolosa.
Personalmente chi scrive conserva un ricordo curioso del sito ove
attualmente sorge il centro fieristico. Quei grandi e lunghi capannoni che
ogni anno ospitano sempre più incredibili, anche se utili macchinari,
c'erano anche prima.
Avevano una forma più essenziale, senza facciate posticcie e avrebbero dovuto essere le officine di un cantiere navale: grande, isolato, per
costruire piroscafi corpulenti, la scogliera ambrata davanti e il faro di
S. Cataldo a un lato.
I capannoni scheletrivano e dentro, certi motori grandi si coprivano
di ruggine e le grandi vetrate di copertura erano bersaglio per robusti
lanci di sassi.
Il custode aveva baffi neri e la coppola sugli occhi e tutto era ombra
su una faccia triste. Vicino all'uomo si trascinava in continuazione un cane bianco, indifferente a chi passava per andare al mare.
Poi cominciarono a parlare della Fiera. Erano voci che si raccoglievano. « La Fiera », si andava ripetendo, non « una fiera ».
Per questa fiera nessun barese intendeva trasferire i negozi di via
Sparano o creare nuove esposizioni per i grossisti di via Melo e via Argiro, e nemmeno mettere in bella e ordinata mostra le cose più diverse dei
mercanti albanesi o levantini che stanziavano in un caffè a via Piccinni e
portavano il fez rosso, e nemmeno infine mettere in luce l'opulenza dei
fondachi dell'Estramurale.
***
Venne Vittorio Emanuele III a inaugurare la prima Fiera del Levante.
Andammo in piazza Prefettura con le sorelle che erano infiocchettate e ci accompagnava papà. Ogni tanto la gente batteva le mani e tutti
guardavano il grande balcone. Vennero fuori due valletti con la parrucca
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bianca e una livrea azzurra e fecero rotolare un grande tappeto rosso dalla ringhiera. Poi uscirono un paio di signori col cilindro e un'aria tutta
circospetta e al centro Vittorio Emanuele che salì su di uno scannetto
per essere più visibile.
Fu alla prima Fiera del Levante che scoprimmo tante giostre e
tante lampadine elettriche accese insieme, senza essere la festa di S.
Nicola.
Dopo qualche anno venne Mussolini a Bari.
Dicevano che la Fiera doveva essere una cosa potente.
In casa nostra, indirettamente avvertimmo una porzione della dittatura.
Fu arrestato il marito della donna di servizio. Era un falegname
anarchico, si mormorava intimoriti senza capire niente di più che accadeva nel cuore della povera donna che continuava a sfaccendare e piangeva.
Anche quell'anno tornammo in piazza Prefettura a guardare il grande balcone. La piazza era piena, pienissima, e a stento riuscimmo a trovare un piccolo posto vicino al palazzo Diana.
Il Duce parlava, ma da così lontano arrivava solo qualche sillaba
e piccoli latrati. Ma gli uomini che avevamo attorno si guardavano come
per mettersi d'accordo ed esplodevano ogni tanto a battere le mani e ad
urlare. I grandi erano tutti in camicia nera.
Ogni tanto ci ergevamo in punta di piedi e fra tutte quelle spalle
vedevamo il braccio di Mussolini che si agitava e sembrava volesse dettare un tempo che però riusciva molto disordinato.
Quell'anno, alla Fiera, vedemmo i cammelli col loro incedere muto
e sornione.
Anche quell'anno nel padiglione dell'URSS vedemmo una immensa
fotografia di Lenin che squadrava con i suoi occhi triangolari da sopra
un mucchio solido di rombi di carbone. Ma rimanemmo impressionati
di più dalle montagne russe che provammo di nascosto di quelli di casa.
Poi, venne la Fiera di « Faccetta nera » e per i viali si stordiva a
sentire in continuazione la canzonetta che inorgogliva nei giovanotti
speranze esotiche di vittorie facili in guerra di gallismo.
Finiva così la Fiera degli anni '30 e quella degli anni '40 è esistita
solo a metà.
Con la guerra, infatti, i padiglioni furono adibiti a caserme per raccogliere soldati e fango, bestemmie e speranze.
Quando si insediarono gli Alleati, la Fiera diventò un favoloso deposito
Ogni tanto si sentiva dire: « L'altra notte alla Fiera hanno sparato ».
Non era dato sapere di più, si cominciava però a scrivere la storia della
decadenza civile, la gloria era per i borsari neri. Ci fermeremo a questo
punto, perchè in quegli anni avvenne di non voler più ricordare la Fiera
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del Levante. Questo desiderio consapevole era quanto avanzava delle luci e delle musiche dell'altoparlante e delle inesauribili serate al luna
park, facili giochi prima del diluvio che colpì tutti quanti e prima che
ognuno dei quarantenni di oggi prendesse la sua dose di pesi sulle spalle.
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Il 10 giugno 1940 era lunedì. Il giorno prima era finito il giro d'Italia, aveva vinto Fausto Coppi. Nel pomeriggio c'era l'adunata nazionale,
le strade erano piene di gente, ma di più erano gli studenti.
Chi frequentava la terza liceale e stava sgobbando per la maturità,
circa un mese prima, da un'ora all'altra fu liberato dall'incubo degli
esami. Il giornale radio delle ore 20 e 30 aveva annunziato la decisione
del governo. Chi aveva ascoltato la notizia immediatamente cominciò
a farsene portatore e andando da una casa all'altra di compagni di scuola, si usciva insieme ed il gruppo si infoltiva. C'era chi non credeva, ma
nessuno si preoccupava di mettere a galla il perchè del provvedimento.
Tutti ci sentivamo nell'atmosfera della guerra, però nessuno immaginava che le vacanze del 1940 dovevano durare solo dieci giorni: i primi dieci giorni di giugno.
Eravamo euforici, proprio dopo un bicchiere di vino preso lontano
dai pasti che dà subito alla testa e quella sera degli esami scampati si
camminava per andare a stanare chi ancora continuava a studiare. Quando ricomponemmo la classe, andammo al lungomare, ci mettemmo al
centro della rotonda per solennizzare l'avvenimento. Credevamo di essere allegri solo perchè ci era stato sollevato un grosso pensiero. Poi ad
uno ad uno cominciammo a tornare a casa e quello fu un congedo fra
di noi prima della guerra.
Un gruppo continuò a passeggiare nella notte. Uno, smilzo con i
capelli lisci e biondi da sembrare un inglese, disse all'improvviso: « Facciamo un'ipotesi, la Germania perde la guerra... ». Un altro del gruppo,
basso, forte di corporatura, con gli occhi lucidi proprio del meridionale,
escluse l'ipotesi senza fargli finire il discorso. Sentenziò: « E' assurdo ».
Il tipo all'inglese, un pò infastidito per l'interruzione, ricominciò: « Per
assurdo, come dici tu, poniamo che la Germania perde... ». Anche gli altri, tutti del gruppo saltammo su con la voce a contrastarlo fino a farlo
stare zitto.
In quegli anni dovevamo avere le orecchie pronte per rispondere alle adunate nazionali. Eravamo stati invitati in piazza già qualche altra
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volta: per la guerra in Etiopia, per la bravata dell'uscita dalla Società
delle Nazioni, sempre per guerre o per pretesti di guerre.
Dal 1935 avevamo cominciato ogni tanto a non vedere più qualcuno
di conoscenza. Il vicino di casa, il fruttivendolo dell'angolo.
Partiti, volontari — si diceva — per l'Africa Orientale.
Era cominciato allora l'esodo.
In quegli stessi anni, ogni tanto si poteva assistere in piazza Prefettura alla sfilata di un plotoncino di uomini con la testa insaccata nel
casco coloniale. Erano partenze spiccie, alla garibaldina, con la banda
che accompagnava con marcette accomodanti. Poi, la guerra di Spagna.
Per la guerra non vi fu lo spettacolo risorgimentale.
Per Bari la strada che sbatteva dritto in trincea era via Quintino
Sella. Venivano i soldati inquadrati dal Policlinico, per raggiungere il
porto. Il Policlinico era un casermone per alpini e muli che ogni giorno
si incolonnavano lenti e tristi, destinazione Albania.
Con la guerra sul fronte greco, un'invernata severa, Bari era la retrovia ed era piena di ogni specie di soldati che rifornivano il fronte. Gli
alpini, la sera, preferivano chiudersi in qualche cantina, ma non gradivano
il nostro vino nero, perché li ubriacava presto. Prima d'imbarcarsi, scrivevano una cartolina illustrata, di quelle lucide, con una rosa scarlatta.
Prima di buttarla nella buca, proprio un attimo prima, baciavano la cartolina, una volta, due volte, chissà quante volte ancora avrebbero voluto.
* * *
Avevamo la testa piena di fazzoletti cremisi e li scambiavamo per sogni, ideali di una rivoluzione che aveva infilate — nonostante la guerra — le pantofole dello stile burocrazia.
Ogni tanto organizzavano la « partenza » di universitari.
I reclutati, inquadrati nel cortile dell'Ateneo, stavano in borghese
per sentire il discorso e prendersi il pacco dei generi di conforto: un passamontagna, i biscotti, le sigarette e la fotografia del Duce.
Il discorso annunziava che la guerra si faceva perchè non c'erano
le scarpe e poi si distribuiva il fazzoletto cremisi che serviva a battezzare
« volontario », senza domanda, motu proprio.
La sera del 10 giugno i battimani finirono presto e si spensero definitivamente quando, da quella sera, per le strade cominciò l'oscuramento.
Tornati a casa, gli ultimi guizzi di entusiasmo svanirono nello sgomento che era sulla faccia dei genitori.
Cominciavamo anche noi a toccare una anticipata maturità, anche
se era presto ancora e non ce ne accorgevamo in pieno.
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Nel 1942 passammo l'estate in Sicilia. Non fu per fare i bagni, era
stato per un miscuglio allora non distinto di ardore politico e la voglia
di inserirci nel mestiere di scrivere.
Eravamo stati inviati dal Ministero della cultura popolare a visitare campi di aviazione, come poeti, cioè per consigliare un'immagine
lirica della guerra. Avevamo un solo obbligo: andare in camicia nera .
Quando arrivammo al campo di Sciacca, dopo un lungo tragitto
a bordo di un camion, alla baracca del comando c'era solo il piantone
che dormiva vicino al telefono. Era la controra. Quando ci sbirciò si mostrò seccato, anche se disse che sapevano del nostro arrivo, è, chissà perchè, ci chiamò: signor tenente.
Cominciammo a commentare il nostro viaggio alquanto disastroso:
fra le sabbie e i ruderi di Selinunte, abbacinati da un sole che fasciava
di bianco tutte le cose attorno, avevamo provato un senso di solitudine da
primitivi e fra le colonne semi affondate nell'immenso arenile, provammo una grande amarezza, il sapore di una sconfitta. Dicendo queste cose,
l'aviere telefonista, un romano, rideva con tutta la bocca, ma veramente
di gusto.
In questi momenti si presentò un giovane con i capelli lisci, biondi,
un ciuffo gli cadeva sulla fronte, aveva l'aspetto di un normanno: portava
calzoni corti e sulla camicia i gradi di tenente e l'aquila di pilota. Aveva
uno sguardo fiero e portava con disinvoltura un grande piatto di marmellata. Era una pappa viscida, collosa, nera, e nel nero serpeggiavano
vermi, lenti, tranquilli, da credersi immortali. Il pilota chiese del comandante. Dormiva. L'ufficiale concluse dicendo che voleva mostrare quella
materia schifosa.
Questo fu il nostro primo incontro con la guerra fascista.
Da questo momento il nostro recapito era nascosto dietro la sigla
di un numero di Posta Militare, e come città o regione, eravamo: Fronte
sud, Zona operazioni.
***
Dopo qualche tempo arrivò il Duce in persona.
Era appena finita una grossa battaglia aereonavale e il capo aveva
da distribuire un pò di medaglie, poche strette di mano e molti discorsi.
Rimase a mangiare al campo dove stavamo noi e circolò immediatamente la voce che non voleva i maccheroni, ma avrebbe mangiato le patate e il pesce in bianco. Lo serviva un cameriere gobbo che era addetto
alla mensa ufficiali e quel giorno aveva indossato la marsina e la camicia col colletto inamidato, come in un ristorante col concerto.
Il gobbetto era un piccolo uomo con due occhi di arabo, lucidi, pie236
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no di movenze leggere e faceva strisciare le code del frak per terra, perchè era un pò lungo, lo aveva avuto in prestito.
Ogni volta che il gobbo metteva un piatto, il Duce gli faceva il garbo
di una manata sulla spalla ricurva.
Nel pomeriggio il Duce parti.
Mentre si incamminava verso l'aereo, i soldati stavano sull'attenti,
gli ufficiali salutavano militarmente, ad un momento si fermò e si girò
a guardare, come in attesa, tutti quegli uomini che stavano fermi, in silenzio. Sembrava proprio che non c'era nessuno e provammo lo stesso
squallore avvertito a Selinunte. Solo, improvviso, come rilanciato da
un'eco arrivò da lontano il nitrire di un cavallo dalla campagna di una
Sicilia cuore della mafia.
Allora si sentì il battito di due mani, due sole, come l'inesorabile
scandire di un orologio. Era il cameriere gobbo.
* * *
Una sera, al rientro di una squadriglia dal solito bombardamento
su Malta, una sera fortunata, tornarono tutti.
Gli aviatori, dopo cena, bevvero un bicchiere per solennizzare; era andata bene, poteva essere l'ultima volta, c'erano già i vuoti fra di loro. Ma
era un'allegria spenta; nessuno che si sbronzava riducendosi a zero; rimanevano tutti lucidi e volevano il contrario.
Un tenente, che era nero come un diavolo, tutto piena di nervi, ci
chiese cosa stavamo facendo in quel posto, con quei vestiti. Non aspettò la risposta, continuò lui a parlare e diceva: « non c'è niente da vedere,
niente da vedere, niente da sentire. Sai come viviamo qua? Uno dietro
l'altro, in fila, ad aspettare il turno di morte ».
Un altro conservava una speranza, ma voleva una conferma e chiedeva, a noi, a tutti: « Faremo una nuova rivoluzione, una vera, nel 1948, dopo un secolo ». Tornò a dire nuovamente: « dopo un secolo » come per
capire il tempo che lui non poteva più misurare.
* * *
Questo il bagaglio che portammo dalla Sicilia, allegoria, uomini fat•
ti di ragione e di una sconfinata solitudine: eravamo nell'autunno del 1942
e ognuno si incamminava a vivere come un'isola. Fu nell'ottobre di quell'anno che cominciò a farsi scuro e scendeva un'uragano. Allora il fascismo compiva vent'anni, ma era vecchio, sfatto. Era stata una rivoluzione
da dilettanti, con la fede degli assegni in tasca e gli incarichi da ricoprire. La passione era sbollita al primo passo lungo, tanto più lungo della
gamba, anche se portava gli stivaloni della milizia.
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5 - LA ZAGAGLIA
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Pagavamo una cambiale che il regime aveva firmato per tutti quanti col discorso del 3 gennaio, quando la libertà, tutta intera fu messa tra
le cose da non toccare.
Mussolini diventava dittatore di « chiara fama » e forniva i grossi
piedi di gesso a innumerevoli statue di tutti gli stadi e monumenti d'Italia. Con quei piedi il fascismo impiegava venti anni di vita per percorrere
come un lunghissimo corridoio senza luce ma che portava all'uscita di sicurezza. Quando fu all'aperto, il regime, tutt'intorno era una rovina, come
i vermi si nascose e sembrava di essere nuovamente fra allucinate statue
e le sabbie di Selinunte.
4
Quasi una vita di giovane è passata dall'8 settembre del 1943 e i ricordi di quella giornata rimangono nitidi in mente, ancora perfettamente
disegnati negli occhi.
Fu un'esperienza tremenda: era la storia che si stava scrivendo e in
questa entravano a farne parte gli affanni, le paure, le attese di quanti
cominciavano a correre per le strade, lungo i muri, per guadagnare l'angolo, il portone con l'ansia — forse mai così avvertita di arrivare a casa.
Una sola parola, che è difficile configurare come maniera di sentire,
non trova posto per nessuno 1'8 settembre: l'indifferenza, e pure questo
era il primo momento di questo terribile sentimento. Allora avevamo tutti le mani dentro la guerra, soldati, le ragazze, le madri, gli uomini degli
uffici, gli operai, i giovani, i bambini, tutti per la fame. Per ognuno la
guerra era l'insofferenza di una condizione umana che voleva risolversi
con un ritorno ad una normalità che doveva contenere i segni del portentoso, del miracolo.
Non ci si adattava alla maturazione degli eventi, avevamo tutti una
fretta diversa da quella dell'altro. Quella fu ancora un guerra che rispettò certi caratteri tradizionali: la battaglia, l'avanzata; e pure per noi
italiani era diventata assurda, perchè senza speranze e l'atto disperato
di qualcuno non era definito eroismo, questo non lo condivideva più
nessuno. Tutti si chiudevano nel proprio guscio, per continuare a vivere.
I soldati avevano chiaro in mente che cosa fare da borghesi e sembrava loro che avrebbero potuto realizzarli il giorno dopo, appena spogliato il grigioverde.
Le ragazze circolavano con in fronte un indirizzo di posta militare
da trasformare in quello di una strada con un appartamento di un paio di stanze, perchè « ci sposeremo quando torna soldato ».
Le madri e le mogli a scollare biglietti di calendario ben conoscendo il numero di tutti i giorni che erano passati e sperando « forse doma238
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ni torna »; oppure « non mi scrive da trentasei giorni ». Il marito, un figlio, il padre, non conta: l'uomo di casa.
* **
Faceva ancora caldo in quei giorni di settembre, ma non c'era l'aria di
vacanza, nemmeno per i fanciulli. Si sciamava per le strade in attesa della sera, del giorno seguente per poi vederlo finire al più presto, con fretta,
perchè doveva accadere qualcosa.
Fu il pomeriggio del 7 settembre: come venne fuori la notizia? Non
si sa, ma tutti avevano in bocca la parola: armistizio. Le donne andarono
oltre la fiducia e dicevano: « hanno firmato la pace ».
Gli italiani, quando sanno una cosa che non è ancora pubblica, ritengono di essere gli unici depositari di un mistero. Le facce degli uomini erano gravi, come per dire « non posso parlare ». Però man mano che la notizia si diffondeva, diventava sicura, quando la radio annunziò che avrebbe parlato Badoglio, tutti avevano quasi la febbre, nel fiato mozzato dall'attesa, come temendo un inganno, o per rimandare un'illusione e se mai
con l'orecchio teso al campanello della porta d'ingresso «forse torna già».
I soldati per le strade si sentivano borghesi, le giacche aperte, le bustine che volavano in aria e non ci si curava di raccoglierle. Le parlate
erano di gente del settentrione, di chi doveva fare mille chilometri per
tornare a casa.
Quella sera era pace per tutti: non contava la questione dinastica una
volta caduto il fascismo, non contava la sorte della guerra — ormai disgraziatamente segnata — una volta caduto il fascismo. Alle otto di quella
sera tutti erano attorno alla radio per sentire il messaggio di Badoglio.
La voce del Maresciallo arrivava traballante nella registrazione del
disco e le parole trovavano un posto scomodo nella mente di ognuno,
specialmente per quelle che dicevano « la guerra continua ».
Quella sera si tentò di tenere le finestre spalancate, con tanto di luce
accesa. Difatti nessuno degli agenti della contraerea cominciò ad intimare col grido: « luce, al terzo piano ».
Si stava seduti sui balconi, si ricominciava a discutere, fare previsioni, guardare i tedeschi come fuori posto, come non senso a trovarseli
ancora attorno, una volta caduto il fascismo.
Poi, all'improvviso, non era ancora mezzanotte, cominciò il sibilo
della sirena d'allarme. Tutti si guardarono in faccia e si riprese a scendere le scale per andare nel rifugio, con la paura negli occhi e un lento e
sommesso recitare di giaculatorie. Passarono degli aerei a bassa quota,
un rombo greve che colpiva tutti, ma non uno sparo, nemmeno uno scoppio. Quando si uscì dai rifugi tutti sapevano che erano i tedeschi che andavano via.
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La mattina dopo tentarono di impadronirsi del porto. Arrivavano
plotoni di soldati con l'elmetto calcato sugli occhi, battevano tacchi e
nell'aria pulita di quel settembre solo i comandi tedeschi rimbombavano
ed il resto era il silenzio di chi sta dietro la porta a spiare. Poi cominciarono a sparare con le mitragliatrici contro i cancelli, mentre tre navi che
erano attraccate alle banchine saltavano in aria: ed una era carica di
grano.
Dall'alto delle scalinate di fronte alla Dogana i tedeschi stavano con
i mitra a guardarsi le spalle e per i viottoli stretti e tortuosi della città
vecchia; forse sono stati i baresi i primi a correre strisciando i muri per
arrivare sani all'angolo o infilarsi in una porta appena aperta come una
misericordia.
Fino alla sera i tedeschi passarono per il corso incolonnati, senza armi né elmetti e li vigilava qualche borghese con un moschetto e baionetta
innestata.
Era cominciato il diluvio, il tempo dei partigiani, il tempo dei clandestini. Noi a Bari fummo i primi ad essere liberi ed a sentirci dopo qualche giorno una capitale al cinquanta per cento, dividendo la carica con
Brindisi.
Ricominciammo ad aspettare con l'angoscia di considerare Milano,
Venezia, Roma, aldilà, oltre un confine incerto ma tremendo.
Si andava ogni settimana alla Croce Rossa per avere le cartoline per
mandare notizie a quelli del nord.
Dopo 1'8 settembre cominciò a fare freddo prima del tempo, improvvisamente e l'inverno fu lungo, spietato, come lunga e spietata era la guerra che si combatteva non lontano da noi, non lontano da nessuno.
5
Gli ultimi dieci giorni di gennaio del 1964, furono giornate particolari perché ebbero una carica maggiore di quella che normalmente provocava in ogni momento la guerra e tutti erano impensieriti.
Ma proprio per Bari e la Puglia furono qualcosa in più.
Il 22 gennaio gli americani sbarcarono ad Anzio.
Il nodo di Cassino era diventato una specie di vicolo cieco, un triste mucchio di pietre dietro le quali spiavano i cannoni dei tedeschi. Si
sperava di sciogliere Cassino calando alle spalle, e c'era Roma, si voleva
Roma.
Lo sbarco dopo poco tempo si ridusse ad una disperata testa di ponte,
si può quasi dire che gli Alleati stessero con un piede in mare. Pure nei
giorni successivi al 22 gennaio sulla Gazzetta del. Mezzogiorno — era l'unico quotidiano dell'« Italia di sotto » — si leggeva questo titolo: « A Roma
si ode il cannone ».
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Ma a Bari un avvenimento doveva interessare tutto il mondo: il 28 e
29 gennaio si tenne il Congresso dei Comitati di Liberazione Nazionale o
semplicemente ciellenne.
Fu un mese di fuoco, come si suol dire, e per la guerra e per la battaglia delle idee. E l'una e l'altra servivano per rimettere insieme la penisola e, se mai, l'Italia.
La « Gazzetta », diretta allora da Luigi De Secly, era un foglietto, ed
era fatta di una sola pagina, stampava necessariamente gli articoli in corpo sei e non si faceva spreco di spazio con titoloni, la «Gazzetta» — stavamo dicendo — dal 21 gennaio cominciò a pubblicare gli articoli dei rappresentanti dei vari partiti politici, come prime avvisaglie al Congresso.
Il primo fu quello di Michele Cifarelli del Partito d'Azione.
Ognuno cercava di puntualizzare un mondo nuovo, una speranza. Si
parlava di « defascistizzazione » e di « epurazione », si discuteva sulla
sorte della monarchia. L'on. Reale, pur ripetendo la sua fede repubblicana, chiedeva di rimandare ogni decisione sulla dinastia dei Savoia alla
fine della guerra.
Intanto i fascisti andavano soffiando in giro che al Congresso avrebbero menato le mani. Intanto — si diceva — un gruppo di fedeli nostalgici si riuniva nel sottoscala della casa di un gerarca per ripassare le
canzoni per accompagnarsi andando alla carica.
C'era altri che invece pensava di ricavare qualche buon numero al
lotto, anche se le probabilità erano ridotte alla sola ruota di Bari. Non
vennero fuori grosse vincite, pure sarebbero bastati pochi biglietti da mille, allora che si andava avanti con i centesimi. La « Gazzetta » costava
60 centesimi, dodici soldi; al cinema, all'Oriente, si poteva vedere in prima visione una « stella nascente » Rita Hayworth, e si pagava 20 lire.
La guerra stagnava in piccoli paesi di un'Italia perennemente depressa fra Campania, Molise e Lazio e dalla Germania scendevano i nuovi
soldati, ragazzi di sedici anni con la faccia di burro ed il ciuffo che scivolava da sotto il tragico elmo, su occhi ancora fatti per l'innocenza.
In Italia sbarca Mario Ercoli. Ercoli, dicono i giornali, è il nome di
battaglia di Palmiro Togliatti e veniva dalla Russia.
Su « Civiltà proletaria », organo del Partito Comunista, diretto da
Michele Pellicani, si tesse l'elogio dell'uomo nuovo, mentre il « Compagno Ercoli » stringe la mano a Badoglio e professa lealtà al Luogotenente, Umberto di Savoia.
Del Congresso se ne parlava a Bari nelle sedi dei partiti, nelle molte
redazioni dei giornali, tutti foglietti piccoli, ma carichi di umori e di fede. Su queste colonne ogni tanto arrivava la censura che prelevava un
pacchetto di piombo da un articolo, lasciando nei lettori, per quello spazio rimasto vuoto, la curiosità di parole proibite, che non si sono mai
sentite, ma che nello stesso tempo facevano sentire che alla porta della
libertà si era cominciato a bussare.
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In giro si facevano i nomi delle personalità che dovevano venire a
Bari, e primo fra tutti, Benedetto Croce. Di molti si mormorava che erano nomi posticci, i tempi non erano ancora chiari e non sempre ci si poteva fidare di un altro. I fascisti continuavano a dire che avrebbero spolverato il manganello del 1922 e si diceva che la polizia alleata avrebbe
circondato piazza Prefettura con i « cavalli di frisia ».
Faceva freddo, se ne sentiva di più forse perchè ci sembrava di avere continuamente fame. I giornali pubblicavano ordini del giorno nei
quali si « invocavano provvedimenti contro il mercato nero ». Ma per
avere la razione di pane ci volevano i bollini della tessera del razionamento e per avere un pacchetto di « nazionali » bisognava alzarsi la mattina
presto e fare la fila dietro la porta del tabaccaio.
« Bisogna vincere entro quest'anno, diceva il Maresciallo Montgomery e tutti erano disposti a credergli, almeno per non leggere sui
giornali la colonnina « ricerca notizie ». Poi, sempre in quei giorni di
gennaio, si conosceva una poesia di Umberto Fraccacreta che ricordava i
ragazzi che erano stati sparati a Bari dopo la caduta del fascismo: erano
andati con le mani nude a sfilare davanti al palazzo della federazione dei
fasci in via Niccolò dell'Arca. Stanno abbattendo questo palazzo in questi giorni, ma lentamente, troppo lentamente, ma cade, con i suoi fregi
appiccicati ed i suoi muri maestri di tufi gialli.
La mattina del 28 gennaio andammo a sederci sui gradini del monumento a Piccinni: non vi erano i reticolati, ma solo un fitto cordone di
poliziotti inglesi. Erano uomini altissimi col cappello rosso e la visiera
calcata sugli occhi. La piazza Prefettura era deserta e piena di sole, sembrava passata a calce, ripulita, più fresca, come un grande cortile di una
feconda masseria. Si vedevano le persone che entravano nel Piccinni,
camminavano sicuri con un pacco di carte sotto il braccio.
I fascisti non fecero chiasso, non menarono le mani, non fecero niente. Era bastato il cortese ma fermo avvertimento del Comandante alleato?
Forse. Ma forse anche si erano sentiti soli, senza niente alle spalle da difendere, niente, proprio niente che valesse la pena. Quando tutti erano
entrati, ed il Congresso era cominciato, tutto il mondo stava a sentire Bari. La piazza era vuota e i palazzi civili attorno.
Non abbiamo dimenticato niente di quel tempo.
6
Il Sud aspetta un narratore delle sue cose che occupano un certo
numero di anni fino al 25 luglio 1943: cioè lo sviluppo ed il ramificarsi
dell'antifascismo. Prima di essere una storia fatta di ingredienti politici,
è una storia di piccole cose, di uomini angariati, di una vita ingrata.
Giovanotti prima, poi la prima maturità ed un po' di vecchiaia, sempre
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con una divisa sulle spalle ed accorrere da una guerra ad una mobilitazione, da un deserto africano al gelo della Russia.
Si viveva insieme e gli antifascisti, i promotori non sempre erano
conosciuti.
Nello stesso palazzo in cui abitava uno dei segretari federali di Bari,
allo stesso piano abitava un professionista che era iscritto al partito fascista per il pane quotidiano, ma non portava il distintivo e questa era
una mancanza grave. Quando i due condomini si incontravano sulle scale
il federale levava il braccio nel saluto romano con un sorriso di trionfatore, mentre l'altro lo costringeva alla stretta di mano che era in disuso, perché era considerata una manifestazione borghese, come pure
portare l'ombrello in caso di pioggia: era d'obbligo tornare a casa grondanti d'acqua, e il farsi zuppi diventava eroico atteggiamento.
Spesso il federale e il signore senza distintivo uscivano di casa, il
primo per andare alla federazione e l'altro ad un convegno per il quale
era stato invitato con un bigliettino astruso che se mai stringeva ancora
in pugno.
Poi, durante la guerra, se ne vennero fuori con le proibizioni più
secche: non si poteva ascoltare radio Londra, non si potevano cantare
canzoni d'amore. Già, non erano tutte cose politiche, ma non si discuteva, non si potevano fare, e basta.
Un giovane studente, profittando dell'assenza dei genitori, organizzò
una festa nella casa sua che era bella e accogliente. Il ragazzo aveva anche molti dischi — proibiti quelli pure — americani: Armstrong, Sinatra.
Una festa solo per ballare, senza sgranocchiare nemmeno un biscotto o
bere un bicchiere di marsala. Al ritorno dei genitori dello studente, avuta notizia dell'affollata festa, ci fu una denunzia. Interrogatori, alla federazione dei fasci, degli organizzatori e la finale definizione di « sovversivi
Fatti, tanti fatti, così.
***
A poco a poco per tutti c'era una specie di iniziazione. Fino ad un
dato giorno non si immaginava che si potesse pensare al di là del giuramento stampato sulla tessera. Solitamente erano uomini che amavano
definirsi « d'ordine ». Brave persone, indubbiamente, inoffensive, fin troppo, da palude. Capitava sempre un qualcuno o avventato o molto fidato
che cominciava a soffiargli una parola: « libertà », e poi a guardarlo in
faccia per assistere alla reazione. La prima volta, niente. Allora il « sovversivo » ripeteva « libertà » e quello con la tessera in tasca col giuramento stampato cominciava a raccogliere le lettere come da un sillabario. Era un passo, il primo passo, pieno di incertezza che gli faceva
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riconoscere come se attorno alla gola si stringesse con insidia qualcosa
che bisognava togliere.
* **
Dopo il 25 luglio alla stazione c'era un corso di telegrafisti e l'istruttore aveva una buona voce e prima delle lezioni intonava canti proibiti
dal fascismo e faceva con i ragazzi un bel coro. Poi aggiungeva che il
fascismo aveva messo gli italiani in gabbia come tanti sperduti passerotti e che in quella estate era come trovarsi in un bosco a beccare liberamente.
* **
Anche nei paesi di campagna il fascismo aveva conquistato qualche
bracciante che prescriveva comandi non per fissare la « giornata » ma
per adunate in camicia nera. Non tutti andavano e quelli che andavano
si mettevano a parlare di coltivi. Certe altre volte il capoccia leggeva il
giornale della federazione e allora bisognava stare zitti e questo, con la
lettura stentata del capo, conciliava il sonno.
* **
Negli uffici statali capitava ogni tanto qualche alto funzionario che
si lasciava sfuggire anche davanti ai dipendenti, mentre apprendeva una
disposizione vessatoria, « ma che vogliono... ». Era troppo, e il funzionario sapeva di essere andato al di là e perciò per qualche giorno evitava
di guardare in faccia i suoi impiegati perché c'era sempre lo squadrista
fidato che poteva dargli un grattacapo.
* * *
Abbiamo voluto dire che anche quei minuti comportamenti, anche
quell'inerzia, era antifascismo. Si creava a poco a poco un silenzio attorno al partito, un silenzio compatto che si poteva toccare tanto era pieno
di insidia e quel silenzio era fatto di gente, di milioni di persone, un
silenzio che era pronto a dare la spalla a quelli che dell'antifascismo avevano creato un'incessante, pericolosa attività, e si erano messi a fare la
storia.
Una storia andata un po' in fretta, necessariamente, perché quel
moto non si poteva rimandare.
PASQUALE
R.
INFANTE
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