MADONNA GORGONA di STRATIS MIRIVILIS

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MADONNA GORGONA di STRATIS MIRIVILIS
MADONNA GORGONA
di STRATIS MIRIVILIS
Vinta la battaglia dello psicarismo, già col grande poeta e narratore
instancabile Nikos Kazantzakis la prosa neogreca va sempre più decisamente verso mete di artistica espressione. Agli inizi del 1900 col maturarsi della coscienza nazionale e dopo l'afflusso dei profughi dell'Asia
Minore (1922), che segue l'incendio di Smirne e con lo scambio delle popolazioni, oltre che le nuove esperienze in ogni campo dell'attività nazionale, anche la letteratura si rinnova e diventa più naturale e spontanea. La prosa e perciò il romanzo prende ora il posto che le compete grazie a Stratis Mirivilis, la cui opera di importante romanziere si riallaccia alla grande tradizione del naturalismo ottocentesco, caratterizzata da
un forte attaccamento alla sua terra e al suo popolo.
Nato nel 1892 nell'Isola di Lesbo, ha studiato filosofia e diritto all'università di Atene. Volontario alla guerra balcanica nel 1912, ha partecipato a tutte le campagne di guerra per la liberazione di varie regioni
greche. Nell'ultimo conflitto mondiale Mirivilis ha preso parte attiva alla resistenza pubblicando bollettini patriottici compilati da lui stesso.
Giornalista, direttore di quotidiani e periodici, fra i più importanti della Grecia, ha al suo attivo saggi, poesie, libri di viaggi e romanzi, fra
i quali ricordiamo: Vita nella tomba, ove sono descritte le impressioni
della guerra di trincea sul fronte di Salonicco, con la più cruda realtà
e senza retorica. L'opera è delle più rappresentative della letteratura neogreca contemporanea. La maestra degli occhi d'oro è un romanzo che evoca non soltanto gli orrori della guerra, ma gli aspetti del dopoguerra nell'isola di Lesbo. Protagonista principale del romanzo è appunto una maestrina, che privata dal marito, caduto in guerra, cede a un nuovo amore.
Libro verde, Canto della terra, Libro azzurro contengono novelle, prose
liriche, racconti e costituiscono le pagine più belle dello scrittore. Un
piccolo capolavoro è il lungo racconto Basilio l'Albanese, col quale ci
presenta il paesaggio di Lesbo e i costumi degli abitanti. Basilio è un
« pallicari », cioè un giovane forte e baldanzoso, figlio di muratore. Serve il padre nei lavori facendo salire il secchio con la calcina. Una volta
non ascolta l'ordine e il padre gli tira un martello e per miracolo non lo
uccide. Basilio tira fuori la pistola e spara contro il padre, colpendolo
a un piede. Pentitosi, consegna la pistola al padre perché lo uccida. Il
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padre invece apprezza la bravura del figlio. E così di bravata in bravata
sino alla tragica e immatura fine del protagonista. Al tre opere di
vilis sono Folletti, Pan, Madonna Gorgana. Di quest'ultimo presentiamo, in sintesi, il contenuto del romanzo e un capitolo in traduzione italiana.
Il villaggio di Skala della Sirena nell'isola di Lesbo, dove si congiungono le bellezze della Grecia e quelle dell'Anatolia e si armonizzano
la grazia e il significato delle due terre, è al centro delle vicende descritte nel romanzo. Sulle scogliere di Skala si erge come fortilizio una chiesetta con la piccola campagna, circondata da un ciuffo di fichi selvatici
che beve la salsedine del mare. Nella chiesetta vi è un'icona: è la Madonna
Gorgona, immobile, chiusa nel suo mistero e nel suo silenzio. Su Queste
scogliere vi è un luogo pianeggiante e tutt'intorno le capanne dei pescatori. La maggior parte sono profughi dell'Anatolia qui venuti dopo il
grande disastro dell'Asia Minore. Essi non hanno preso ancora confidenza con la terra d'esilio e non si sono materialmente e spiritualmente
amalgamati con gli uomini e con le cose del nuovo ambiente in cui vivono. Il governo greco è preoccupato del problema degli alloggi per gli
esiliati e decide di costruire un lotto di abitazioni. I profughi non fanno
buona accoglienza a questa offerta perché non si sentono di rassegnarsi a non tornare più alla « loro » terra che li lega a quelle coste da dove
possono sempre avere dinanzi ai loro occhi e a breve distanza l'Anatolia. Vedono i loro paesi biancheggiare all'ora del tramonto e le montagne assumere dapprima i colori rossastri del bronzo per poi farsi violette, fra i vapori dorati del mare. Presidente della commissione della
cooperativa edile è un tal Varucos, il quale è convocato ad Atene dal Vescovo per discutere della faccenda sull'assegnazione degli alloggi. Dopo
aver conferito col prelato, Varucos riprende il viaggio di ritorno a Skala
con la sua barca, quando sente una vocina sottile e piagnucolosa. Gli
pare come di sognare: si strofina gli occhi, poi guarda nel ripostiglio della barca, tra gli attrezzi per la pesca e vede nel paniere un poppante che
si agita e grida. Il suo primo pensiero è di invertire la rotta e tornare
al capoluogo per denunziare il fatto alla polizia. Pensa però che la bambina può essere un dono della provvidenza, sia per lui che per la moglie,
rimasti senza figli, dopo la morte dell'unica figliola. Alla bambina viene
dato il nome di Smeraldina, per i suoi occhi tanto strani. A questo punto l'interesse del romanzo si sposta sulla trovatella, su Smeraldina, che
col passare degli anni diviene una ragazza affascinante, preferita dai giovani del paese. Ma essa rifugge sempre dalle offerte di amore, anche se
l'uomo del suo cuore, che poi muore, rimarrà scolpito eternamente nell'animo della giovanetta. Madonna Gorgona, sotto le sembianze di una
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sirena protegge questo popolo di pescatori e di contadini, lenisce le tribolazioni, le miserie e i tormenti di questa povera gente di un povero
villaggio, elargendo le sue grazie e le sue benedizioni. L'immagine della
Madonna, la più bizzarra madonna di tutta la Grecia e dell'intera cristianità, vive nell'animo di ognuno. La gente non prova alcuna sorpresa
davanti all'affresco: un volto dai lineamenti fini, dall'espressione raccolta, dal mento arrotondato, dagli occhi a mandorla, dalla bocca piccola. Tiene in una mano la nave e nell'altra il tridente di Nettuno, mentre
la coda di pesce le si snoda dal corpo agile e piena di forza.
Un velo viola le incornicia la fronte e intorno al capo vi è un'aureola
come in tutti i ritratti del genere. Realtà e mito si fondono nel romanzo
di Mirivilis, dove dominano il sole del Mediterraneo e il mare azzurro
della Grecia.
Presentiamo la traduzione di un capitolo del libro, tra i più belli,
dove sono espresse le passioni umane più sconcertanti, il tormento dei
sensi che perseguita tanta gente per tutta la vita pur celandosi nel fondo dei cuori come una sofferenza senza rimedio.
CAPITOLO XXVI
« Gli uomini bevevano grappa che infuocava le loro viscere. Ascoltavano Lulù e fissavano cupidamente le sue braccia nude, le sue gambe
accavallate, il suo seno provocante. Pareva che ogni cosa invocasse
Lulù (
).
La donna contenta sorrideva, felice, adorata come divinità di culto
pagano. Fra quegli occhi cupidi, vi erano due molto tristi, pieni di angoscia, di timore e di umile invocazione. Erano gli occhi grandi e tondi del
violinista, col naso all'insù, che si sollevava sulla punta dei piedi per
trarre dal suo archetto i suoni più acuti, facendo tremolare come un uccellino ferito la sua mano scarna. Il suo sguardo era come quello di un
cane da guardia e come quello dell'uomo pio e devoto che soffre le pene
dell'inferno. L'archetto nella sua mano era come una spada che fende
il cuore e lo fa urlare di dolore. La manica corta della giacca gli saliva
quasi fino al gomito, mostrando così la camicia poco pulita e il braccio
esile, scarno, peloso. Tutto lo addolorava. Il modo di comportarsi dei
pescatori, le cose che offrivano a Lulù, i loro sottintesi, i doppi sensi, i
gesti che si scambiavano da un tavolo all'altro. Il violinista voltava gli
sguardi a questo e a quel tavolo, quasi volesse fiutare da quale parte
venisse il pericolo che passava nell'aria satura di acquavite. Questo pericolo veniva proprio da Lulù. L'alcool e gli uomini che le erano attorno l'avevano inebriata. La cantante intanto si alzò, tese la mano sensuale
e afferrò con le sue unghie tinte al carminio la camicia di Dino Ghatza361
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lis: era costui un uomo con folti baffi biondi, dall'aria spavalda, accanito ballerino.
Il violinista si sentì fremere dalla testa ai piedi, fece un movimento
verso Lulù col corpo, con le mani, col violino, come per dissuaderla. C'era nel suo pensiero tutta la disperazione e la sua angoscia. Ma essa indifferente si era levata in piedi, provocante e altera, facendo risaltare le
linee del suo corpo. Dall'alto dei suoi tacchi a spillo volse il suo sguardo
languido al violinista e gli ordinò con tono di distacco, come ad un musicante qualsiasi di suonare « La canzone del cocchiere ». Il suonatore del
sanduri intuì dal movimento delle labbra di Lulù il titolo della canzone
e si curvò sulle corde dello strumento sorridente con indifferenza. L'altro musicante agitò il tamburello e uno scroscio di risa argentine si riversò dai sistri. Il violinista si morse le labbra, corrugò le sopracciglia
e mise sotto il mento il suo fazzoletto madido di sudore. Lulù agitando
la sciarpa rosa che volteggiava in mano, lo invitava a suonare più svelto,
Mandava il capo all'indietro e i folti capelli le scendevano sulle spalle
come la criniera di una belva infuriata. L'eccitazione del bere e la prepotente sensualità la spingevano a sfogare in movimenti violenti e scomposti. « Avanti, più svelto, carrozziere, avanti! ».
Il violinista era tutto preso a seguire con l'archetto le gambe della
ragazza che si muovevano a ritmo furioso. L'ometto ansava, si addolorava sul violino, mentre il pomo di Adamo faceva su e giù come se scosso
da un singhiozzo incontenibile. Batteva il ritmo col piede e muoveva tutto il corpo, mentre grosse gocce di sudore gli scivolavano dalla punta lucida del naso all'insù.
Mastro Apostolos continuava a percuotere il suo tamburello, ed
era fantastico il modo di come faceva ballare « La canzone del cocchiere! »: si aveva l'impressione di sentire lo schiocco del frustino e il calpestio dei cavalli.
« Avanti, cocchiere, avanti! ». « Avanti! » ripetevano in coro i pescatori molto eccitati, battendo le mani e picchiando i tavoli coi bicchieri.
Giorgio canticchiava dei versi della canzone e Lulù inebriata, rideva a crepapelle.
Ad un tratto Ghatzalis entra nel mezzo del ballo, afferra la donna,
la solleva in alto fra le sue grosse braccia e le affonda nel seno la testa
arruffata.
« Oooh! ».
Nello stesso istante il violinista lascia il violino e l'archetto sulla
tavola, estrae un coltello e si scaglia contro Ghatzalis, il quale, prima che
altri intervengano, lasciando Lulù, afferra a volo la mano del suonatore, gliela torce, e senza abbandonarlo infila il coltello in una fenditura
del tavolo, lo piega a destra e a sinistra, fino a spezzare la lama. Nella
mano del giovane rimane l'impugnatura. Allora Ghatzalis sghignazzando
gli tira un ceffone in viso, facendolo cadere stordito in mezzo alla Coni362
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pagoda. I pescatori urlando cominciano a buttarselo tra di loro come
una palla di pezze.
In mezzo à tanto trambusto Varukos si alza e se ne va. Si sente ubriaco. Si regge appena e appogiandosi un pò ai muri, un pò agli alberi, si
dirige verso il nuovo quartiere. Si sente sconvolto, il sangue gli scorre
furioso nel capo. Lo prende l'ira.
« Svergognati, cornuti! ».
La solitaria fontana della piazza di Skala canta nella notte sotto il
platano. E' una vecchia fontana turca: una vasca di un solo pezzo circondata da panchine di pietra. Si sedette su una di queste per riposarsi,
per rinfrescare le viscere infuocate. La sua ira aumentava sempre di più:
« Spuderati, cornuti! ».
Sedette sulla panchina e chiuse gli occhi. Gli sembrava di avere in
testa un mulino che macinasse. (
).
Ad un tratto gli si presentò davanti agli occhi la visione di quella
donna svergognata e libidinosa che rideva e danzava con gli occhi socchiusi, al suono del tamburello e dei sistri. E quel Ghatzalis che strofinava il suo muso ed i suoi baffi rossi sul seno della ragazza! L'ira lo
soffocava sempre di più.
« Al diavolo, troia! » (
).
Rimase a lungo sotto l'acqua che gli scorreva sul corpo e gli procurava un dolce torpore. Si sentiva entrare quest'acqua nelle viscere, rinfrescandogliele e liberandolo da quel terribile fuoco.
Si alzò e si diresse verso casa per riposarsi finalmente sul suo letto(
).
Tirò il catenaccio della porta e vi entrò. Abitualmente Smeraldina
udendo il rumore gli gridava: « Papà, sei tu? ».
Questa volta non udì nulla.
Il vecchio pensò: « Ah! La figlia si sarà arrabbiata perché questa sera
sono rimasto fuori. Sono proprio un somaro ».
Si sentiva colpevole e pieno di vergogna. Avrebbe voluto piangere.
Dai calzoni bagnati l'acqua gli gocciolava dalle gambe, decise di andare diritto a letto. Chiuse piano l'uscio e attraversò il piccolo corridoio, avvertendo piacevolmente il fresco del cemento sotto i piedi nudi. In cucina
brillava fiocamente lo stoppino della lampada. Lo guardò con disgusto.
Andò ad aprire la camera grande e stava per entrarvi, quando si fermò
sulla soglia come pietrificato. Smeraldina, la trovatella, stanca dal lavoro, dopo aver aperto la finestra perchè entrasse un poco di fresco, si era
svestita, al lume del chiarore lunare e si era distesa sul letto, vicino alla finestra aperta. Così coricata, aspettava il padre. Il sonno l'aveva colta stanca e Varukos l'aveva trovata così. Dormiva profondamente: era
al primo sonno. La luna le illuminava il viso dal naso in giù, le ombreggiava il fresco contorno della bocca facendo spiccare le labbra, simili
che sta per aprirsi. I raggi lunari si riversavano sul suo seno
a un fiore
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nudo, diritto, verginale e il ritmo tranquillo del respiro lo faceva palpitare mollemente. Dormiva supina con le braccia alzate sopra i; capo, come quando era bambina. Teneva le gambe nude, aperte come fanno
bambini quando dormono e sentono caldo.
Varukos si poggiò al muro stordito, inebetito. La guardava, la guardava, non sapeva che fare, se avanzare, o tornare indietro, se svegliarla
o fuggire. La guardava con occhi stravolti, rossi come due ferite infiammate. Le sue mani appoggiate al muro, ebbero un fremito, le grosse dita
sì mossero piano lungo l'intonaco, le gambe gli rabbrividirono come per
febbre.
Tutto ad un tratto si avvicina senza far rumore alla fanciulla addormentata, si getta sul suo corpo come una belva affamata, le mani
contratte e il viso stravolto da un orribile ghigno.
Smeraldina si svegliò in preda ad una tremenda sensazione di paura, di soffocamento, di dolore e di disgusto. Egli cercava di lacerare il
suo corpo, di toccarla con le sue labbra carnose, di morderle la carne.
Smeraldina si sentiva venir meno sotto quel peso nauseabondo, sotto
quel viso maleodorante di tabacco e di acquavite. Si sentiva terrorizzata da quei due occhi rossi, gonfi e malvagi del padre.
In preda alla nausea e all'orrore ebbe la forza di chiamare aiuto, di
graffiare con le unghie quella faccia pelosa che ancora gocciolava acqua.
Le capitò in mano un bicchiere, col quale' colpì a casaccio quella testa
ispida che la soffocava. Fra tanto orrore perse i sensi e tutto svanì ».
ANGIOLINO COTARDO
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