Il Rosso e il Nero

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Il Rosso e il Nero
Il Rosso e il Nero
Settimanale di strategia
LA TORRE PENDENTE
13 gennaio 2011
Perché l’euro resta in piedi
I trader, gestori, economisti e
commentatori che instancabilmente ci
spiegano che l’euro, Eurolandia e l’Europa
hanno i giorni contati, dovrebbero tenere
sulla scrivania due eccellenti e chiari
manualetti di ingegneria strutturale per
non addetti scritti una quindicina di anni
fa da Matthy Levi e Mario Salvadori e da
allora costantemente ristampati. Il primo
(che piacerà loro moltissmo) si intitola
Perché gli edifici cadono. L’altro (che
piacerà meno) si intitola invece, con un
hedging perfetto, Perché gli edifici stanno
in piedi. Succede infatti che alcuni palazzi,
teatri o pollai cadano e facciano molto
notizia, ma accade anche che molti altri, la
stragrande maggioranza, restino in piedi,
sia pure nell’indifferenza generale.
Il campanile della cattedrale di
Santa Maria Assunta. Pisa.
Costruito a partire dal 1173, iniziò a
pendere quasi subito.
L’argomento addotto più spesso a sostegno dell’inevitabilità del crollo è
che la Germania, presto o tardi, non ne potrà più di sobbarcarsi il peso morto
e sempre più costoso di quasi tutto il resto di Eurolandia. Per la Grecia 110
miliardi (per adesso), 85 per l’Irlanda, 60 minimo si prospettano per il
Portogallo. Poi la Spagna, il Belgio, l’Italia, la Francia e le banche tutte
quante, una voragine infinita. In un attimo si arriva a vari trilioni e li si
mette tutti sul conto dei tedeschi.
In realtà un terzo circa è (e anche di più sarà, nel caso) a carico del Fondo
Monetario (finanziato a sua volta per più di metà da stati extraeuropei). I
due terzi sono a carico dei maggiori paesi di Eurolandia, ma la leva è tale che
alla fine i soldi veri messi da ogni singolo paese sono finora nell’ordine di una,
due o al massimo tre decine di miliardi. A oggi, inoltre, solo una piccola parte
è stata effettivamente versata e nessuno, tanto meno la Germania, ha ancora
perso un solo singolo euro sull’operazione. Se la crisi non si allargherà a
dismisura
potrà
essere
possibile
addirittura un guadagno, costituito dallo
spread tra il costo del finanziamento per i
paesi creditori e il tasso assai elevato
richiesto ai debitori.
I crediti tedeschi, insieme a quelli del
Fondo Monetario, hanno poi seniority
assoluta, cioè precedenza, rispetto a tutti
gli altri. Con il meccanismo della
La chiesa pendente di Suurhusen
seniority il Fondo Monetario, che ha
nella Frisia orientale tedesca.
tipicamente a che fare con paesi come
Haiti, il Congo o il Bangladesh, è riuscito in 60 anni a recuperare
praticamente sempre i suoi crediti e a uscire regolarmente in utile. C’è da
scommettere che anche la Germania riuscirà a cavarsela.
Senza avere ancora perso un solo euro la Germania ha finora ottenuto
tutto quello che si prefiggeva. Ai mercati non importa nulla che tutti i paesi
europei pericolanti abbiano chiuso il 2010 rispettando al millimetro o
addirittura superando gli obiettivi di disavanzo stabiliti (dalla Germania). Si
noti per inciso che i mercati si sono fatti per mesi grosse risate all’idea e
hanno per contro fantasticato di guerre civili e rivoluzioni. Alla Germania
invece, del conseguimento degli obiettivi importa molto e al momento ha
ogni ragione per sentirsi soddisfatta.
Il secondo grande risultato tedesco è l’euro che non spicca il volo (come
avveniva regolarmente a ogni ripresa ciclica globale) e si mantiene
dignitosamente debole, senza per questo diventare una valuta da Monòpoli.
Gli esportatori tedeschi, ovvero tutta la grande, media e piccola industria,
sono competitivi in un mondo in ripresa e non possono chiedere di più dalla
vita. Quanto all’opinione pubblica, sarà ancora in parte nostalgica del marco,
ma intanto si gode la quasi piena occupazione e non ci viene in mente nessun
altro paese al mondo, nemmeno la Cina, che da questo punto di vista stia così
bene.
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Gli instancabili produttori di dubbi dicono in genere, a questo punto, che
l’euro è ancora troppo forte per impedire una recessione mediterranea ma è
nello stesso tempo troppo debole per impedire un’esplosione inflazionistica in
Germania. Due euro, è la conclusione, sarebbero meglio di uno.
Succede però che questi due euro tanto desiderati da trader e
commentatori non sono al momento voluti dagli europei. Eurolandia ha
avuto o ha l’onore di ospitare partiti a favore dell’amore libero, della
pirateria informatica, delle droghe più o meno leggere, della restaurazione
monarchica, della caccia e del divieto della medesima, ma non ha a tutt’oggi
uno straccio di partitino, movimento, associazione o circolo ricreativo
(nemmeno ad Andorra, Malta o San Marino), che si proponga come obiettivo
principale o secondario la scomposizione più o meno creativa dell’unione
monetaria.
Visto che si vuole continuare a stare tutti
insieme è giusto che l’euro stia a metà strada
tra la Germania e la Grecia e scontenti tutti,
come livello, senza scontentare troppo
nessuno. Se ci sarà una moderata inflazione
salariale in Germania (peraltro evitabile
riprendendo a delocalizzare) e una moderata
deflazione
salariale
mediterranea
la
competitività dei forti si ridurrà e quella dei
deboli aumenterà. I riallineamenti reali sono
più lenti di quelli valutari, ma funzionano lo
stesso.
In questi ultimi giorni la linea tedesca ha
Il campanile pendente della
subito una torsione positiva. Ci sono segnali di Oberkirche di Bad
apertura sull’ampliamento del fondo di Frankenhausen in Turingia.
salvataggio e su un allargamento delle sue
funzioni. Ci sono accenti nuovi sulla crescita e non più solo sulla stabilità. E’
chiaro che la Germania vuole evitare un’estendersi della crisi al di là del
Portogallo (pur tenendo tutto pronto per la Spagna).
A ben vedere la linea tedesca, semplice e robusta, è sempre quella.
Massima flessibilità tattica, ma solo quando occorre e unita a
un’indisponibilità sui principi. L’euro non è in discussione. Il rispetto degli
obiettivi di disavanzo non è negoziabile. Il sostegno ai bond della periferia
dovrà avvenire per via fiscale (attraverso il fondo) e non monetaria (se non in
via temporanea). I paesi fanno tutto, con accordi tra loro, e l’Unione non fa
nulla.
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In cambio siamo pronti a scommettere che le condizioni dei prestiti ai
paesi in crisi verranno rese più favorevoli man mano questi dimostreranno di
rispettare la tabella di marcia. Il fondo europeo verrà allargato e si
troveranno modi per trasferire risorse (si pensi ai risarcimenti di guerra dalla
Germania alla Grecia) senza creare automatismi o precedenti. Quanto
all’unificazione delle politiche fiscali e alla devoluzione di competenze
ulteriori all’Unione, la Germania non ha un’ostilità di principio, ma cederà
sovranità solo se parallelamente il resto dell’Europa si germanizzerà.
Rogoff dice giustamente che la crisi europea durerà molti anni e ribadisce
la necessità di ristrutturare il debito greco, irlandese e portoghese. In una
guerra, per quanto lunga, è comunque importante vincere le singole battaglie
e gli aggiustamenti di linea tedeschi rendono possibile superare questa fase di
attacchi speculativi. Non bisogna farsi però illusioni, gli attacchi
riprenderanno, anche se forse dovranno attendere un rallentamento ciclico
globale.
Quanto alle ristrutturazioni, la linea tedesca è sempre quella. Prima
mettiamo i bilanci in ordine e poi trattiamo con le banche e i mercati, non il
contrario. Altrimenti addio disciplina.
I problemi dell’Europa sono seri, ma fa impressione che nessuno abbia
avuto niente da dire sul fatto che il Giappone, con il suo 200 per cento di
debito Pil, si stia adoperando per salvare paesi che oscillano tra il 70 e il 90. A
nessuno sembra venire il dubbio che quello
nei confronti dell’Europa sia un
accanimento ossessivo e che l’Europa
abbia qua e là problemi di solvibilità ma,
ancora di più, problemi di governance, in
fondo più facili da risolvere. Dopo tutto è
bastato che la Germania muovesse il
mignolo sinistro per calmare mercati che
erano pronti, dopo l’asta portoghese, a
partire per la mattanza.
Capital Gate. Abu Dhabi.
Completato nel 2010. Studio RMJM.
La crisi europea, al momento
depotenziata, è uno dei tre freni del bull
market azionario. Gli altri sono il
surriscaldamento degli emergenti, che ha caratteristiche di medio periodo, e
l’impennata dell’inflazione di energia e alimentari, che ha aspetti in parte
strutturali ma anche temporanei (le alluvioni in Australia, l’incidente
all’oleodotto in Alaska).
Questi freni rimarranno in funzione, augurabilmente a bassa intensità,
nel breve e medio termine ma non comprometteranno il rialzo azionario.
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Quello che impediranno è quel tipo di rialzo inerziale e generatore di bolle che
abbiamo visto nel 1999-2000 e nel 2006-2007. L’equity dovrà conquistarsi i
nuovi livelli per meriti dimostrati, a partire dagli utili. Un ambiente di
crescita globale e di costi rigorosamente sotto controllo (si veda la lentezza
con cui si riprende ad assumere) dovrebbe essere propizio.
Alessandro Fugnoli +39 02-777181
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