Dabda - Kairos

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Dabda - Kairos
Il Rosso e il Nero
Settimanale di strategia
DABDA
1 settembre 2011
Le cinque fasi del dolore
Nel 1969 la psichiatra svizzera
Elisabeth Kubler-Ross pubblicò in
America il suo famosissimo On Death
and Dying. Dopo avere studiato e
intervistato 500 malati terminali
elaborò un modello, conosciuto con
l’acronimo di Dabda, che sintetizza
la successione dei comportamenti e
degli stati d’animo di fronte al
profilarsi della fine.
Dabda sta per Denial, Anger,
Bargaining,
Depression
e
Acceptance. Si inizia con il negare il
problema (“Non può essere, sto
benissimo”), poi scoppia la rabbia
(“Non è giusto”). Segue la
Elisabeth Kubler-Ross (1926-2004).
contrattazione (“Adesso faccio il
bravo, mi curo e guadagno tempo”).
A queste fasi fortemente emotive subentra la depressione (“Non c’è niente da
fare”) che lascia il posto, dopo una lunga elaborazione, all’accettazione.
Il Dabda si applica a ogni forma di perdita irreversibile e catastrofica di
qualcosa di caro. Si pensi a una perdita di status e di ricchezza oppure, caso
ancora più interessante, al processo di disintossicazione da droghe o da
comportamenti compulsivi.
Il Dabda è da 40 anni il paradigma di consenso in campo medico, ma i
mercati finanziari non lo hanno ancora adottato. Vedono profilarsi la fine del
modello “welfare e debito” che ha caratterizzato gli ultimi 40 anni negli Stati
Uniti e in Europa occidentale e la vivono come l’inizio di un processo
distruttivo
di
rottura
progressiva del patto sociale,
rovina economica, deriva
populista, guerra civile e
tirannide.
I mercati adottano cioè,
più o meno consapevolmente,
lo schema degli anni Venti e
Trenta. Dimenticano che, a
quel tempo, le masse erano
state
nazionalizzate
e
avevano
imparato
a
organizzarsi negli eserciti
Lord William Beveridge (1879-1963), padre dello
della Grande Guerra, mentre
stato assistenziale britannico.
oggi sono atomizzate e
disperse. L’età media, a quel tempo, era la metà di oggi e il sangue ribolliva il
doppio. Lo stock di ricchezza era più basso, gli ammortizzatori non
esistevano e la disoccupazione era molto più alta.
La Grecia è il paese che aveva adottato più di tutti il modello “welfare e
debito”. Quando il modello è entrato in crisi ed è iniziato il doloroso processo
di disintossicazione i mercati hanno visto nelle manifestazioni in Piazza della
Costituzione e negli scontri davanti al parlamento l’inizio della guerra civile.
In realtà la fase della rabbia è durata pochi mesi, le manifestazioni sono state
sempre meno imponenti e poi sono cessate. Riprenderanno, certo, in parallelo
alle privatizzazioni, ma saranno probabilmente sempre più frammentate. Il
grosso della società greca si inabissa nel privato, riscopre l’orto nella casetta
di campagna, taglia le spese e si adatta.
Con il Pil ancora in discesa, dopo 18 mesi dallo scoppio della crisi la
Grecia sta già entrando nella fase di depressione e, in alcuni settori, perfino di
accettazione. Ad Atene governano ancora i socialisti di Papandreou, non i
Trenta Tiranni.
La Spagna degli indignados appare in superficie nella fase della rabbia,
ma i tre quarti degli spagnoli si apprestano a votare per il Partito Socialista,
che ha gestito la crisi con una certa abilità, o per il Partito Popolare, che
propone ancora più rigore. Non si vedono derive populiste o autoritarie. La
disintossicazione spagnola è graduale e ordinata.
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L’Italia è uscita dalla fase della negazione (noi non siamo tra i Pigs) e sta
entrando in quella della rabbia. Dopo le manovre avremo bisogno di rattoppi
continui, perché i mercati non daranno tregua finché dalla Germania li si
lascerà fare. In fondo, i più convinti che ce la possiamo fare da soli (o con
qualche aiuto temporaneo da parte della Bce) sono proprio i tedeschi.
Gli Stati Uniti sono ancora nella fase di negazione. Il mondo è il loro
pusher. Possono continuare a indebitarsi quanto vogliono.
La negazione, si noti, non è in questo caso l’assenza di consapevolezza del
problema, ma la mancanza del senso di urgenza. Gli Stati Uniti si sono
riempiti la casa di libri di diete di
ottima
qualità
(le
varie
commissioni bipartisan sul debito
hanno lavorato molto bene) e si
sono messi a posto la coscienza
leggendoli
con
attenzione.
Essendo rimasto un po’ di senso di
colpa hanno deciso di tagliare
progressivamente la frutta e la
verdura, continuando a mangiare
i dolci e le patate fritte. Lo
psicodramma di agosto sul debito
(e quello che forse vivremo verso
fine anno) non ha ridotto di un
grammo il consumo di grassi a
lenta accumulazione (pensioni,
sanità e spesa militare) e ha Saluti dal Welfare State. Compilation di musica
punk inglese. 1999.
tagliato gli integratori alimentari
e le vitamine, quelle spese
discrezionali certamente discutibili, ma che ridotte adesso deprimono
un’economia già fragile.
Per fortuna qualcuno (i baltici, l’Europa centrale e balcanica) ha già
completato il ciclo di disintossicazione, dimostrando che è possibile uscirne
vivi senza bisogno di soluzioni autoritarie. E’ significativo che siano i più
poveri ad essersi adattati più in fretta. L’Irlanda, che non è così ricca
neanche lei, è già molto avanti.
Quello che questi paesi hanno in comune è la flessibilità dei fattori da una
parte e un minimo di coesione nazionale dall’altra. E’ paradossale, ma
flessibilità e coesione sono anche il frutto, in Europa orientale, di 45 anni di
occupazione sovietica che hanno tenuto vivo il nazionalismo locale ed
esaltato l’arte di arrangiarsi in circostanze difficili.
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L’Irlanda, dal canto suo, è flessibile da sempre. La sua popolazione si
dimezza o raddoppia due o tre volte al secolo (oggi è la metà di 170 anni fa).
La sua emigrazione (come quella polacca in Inghilterra negli anni scorsi, ora
rientrata in patria quasi tutta) è considerata una risorsa e non ci si straccia le
vesti per i laureati che vanno all’estero. I mercati, che ancora in primavera
scontavano una lunga fase di rabbia sociale e il ripudio finale del debito, si
sono messi a comprare governativi irlandesi con una certa convinzione.
Insomma, in fondo al Dabda non c’è la fine di tutte le cose ma una
possibilità di rinascita.
Fuori da questa grande clinica di disintossicazione che è diventato il
mondo occidentale è rimasta in pratica solo la Germania. I mercati non
smettono un minuto di pensare che i tedeschi non ne possano più e non
vedano l’ora di uscirsene dall’euro con gli amici olandesi e finlandesi.
Forse, ma adesso proprio no, sarebbe il momento peggiore. Il boom
tedesco negli ultimi mesi ha visto anche una ripresa dei consumi interni, ma è
stato trainato come al solito dalle esportazioni, in particolare verso l’Asia.
Ora l’export rallenta e la Germania si scopre vulnerabile. La crescita era già
prevista dalla Bundesbank in rallentamento, ma un conto sono le stime e un
altro la realtà che si presenta all’improvviso.
Solo un tedesco matto
uscirebbe dall’euro in
questo
momento.
Immaginiamo
un
neomarco a 1.75 contro
dollaro
che
deve
competere con una neolira
a 1.15. Si accusa sempre la
Merkel di pensare troppo
alle elezioni e poi si
immagina
che
voglia
sfasciare l’euro e andare al
Farmacia a Stoccolma. A carico del paziente i farmaci
voto con il paese in piena
fino a 1800 corone annue, poi subentra lo stato.
recessione. In realtà non
solo la Germania non vuole uscire, ma non vuole nemmeno che esca l’Italia.
Meglio chiudere un occhio sulla Bce che compra i Btp, facendo votare contro
il rappresentante tedesco per farlo vedere agli elettori, sapendo benissimo che
il consiglio avrebbe approvato comunque. Senza considerare che sarebbe
pericoloso per la Germania diventare troppo dipendente dalla Cina (che copia
in fretta i treni e i pannelli solari tedeschi e un giorno venderà i suoi da noi) e
rinunciare al cortile di casa europeo.
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Si è parlato molto di Europa perché siamo l’anello debole del mondo e i
mercati non vedono l’ora di testare la Bce, in settembre e ottobre, sugli
acquisti di titoli italiani. A chi è preoccupato che questi acquisti creino
moneta e inflazione ricordiamo che la Bce compra in pratica titoli venduti
dalle banche tedesche e francesi, che a loro volta depositano il ricavato presso
la stessa Bce. Resta tutto in famiglia e (purtroppo) non esce niente a
finanziare l’economia reale europea.
In generale, il crash di agosto è stato così violento e ha scontato scenari
così palesemente caricaturali (come una crisi finanziaria francese), che ora
perfino i dati negativi relativi ad agosto fanno salire i mercati (anche perché
sono alla fine molto meno pesanti di come si temeva).
L’SP 500 si avvia a recuperare metà di quanto ha perduto, prima di
fermarsi e aspettare con ansia i dati di settembre. Il Dax, dal canto suo, ha
recuperato solo il 15 per cento di quello che ha perduto. Chi è ottimista deve
comprare il Dax, chi vuole stare più tranquillo l’SP.
Feldstein dice che non siamo mai usciti dalla recessione (nel senso che il
Pil americano è ancora oggi più basso che nel 2007). Roubini dice che ci
stiamo entrando. A noi sembra che la partita sia ancora aperta e che si possa
anche procedere a filo d’acqua, rimanendo comunque più sopra che sotto.
I dati americani di luglio e agosto, a ben vedere, non sono né migliori né
peggiori di quelli di 6 o di 12 mesi fa, il Brent è allo stesso livello di febbraio,
quando eravamo tutti contenti. La Cina è ripiegata su se stessa come 6 o 12
mesi fa, ma continua a crescere e rivaluta, come le si era chiesto di fare. Il
fabbisogno italiano, nonostante gli sforzi dei mercati per aumentare la spesa
per gli interessi, è più basso, non più alto, di 6 o di 12 mesi fa. Le banche di
tutto il mondo non stanno molto bene, ma hanno più capitale, più liquidità e
meno leva di 6 o 12 mesi fa. Va benissimo essere nervosi e agitarsi, il mondo
sta certamente per finire, ma non molto più di 6 o di 12 mesi fa.
Alessandro Fugnoli +39 02-777181
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