la fine del mondo storto

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la fine del mondo storto
LETTURE Un brano tratto da...
LA FINE DEL MONDO STORTO
I
ntanto dalle città, uomini magri come fil di ferro continuavano a muoversi verso le campagne e i monti in cerca
di contadini. Vogliono imparare da loro
a coltivare la terra. Subito. I contadini rimasti
attendono di insegnare. Appena la terra diventerà tenera, e il gelo avrà aperto il pugno
e mollato la presa, hanno intenzione di seminare. Dappertutto. Nelle periferie, ai confini delle città, ovunque c’è terreno a perdita
d’occhio. Spazi abbandonati, incolti. Terreni
che, ai tempi delle vacche grasse, sarebbero
diventati selve di palazzi, condomini, banche,
supermercati, discoteche. La fine del mondo
storto li ha salvati, adesso i sopravvissuti intendono coltivarli. E di corsa, subito. La fame non aspetta e non dà requie. Occorre fare presto. Anche dentro le città c’è terreno
da sfruttare. Aiuole, parchi, scarpate, argini di fiumi, giardini, terrazze vengono spiati,
calcolati, valutati, presi di mira. Dove c’è terra può crescere tutto! Va bene anche un solo metro quadro. Però bisogna organizzarsi,
in qualche modo cominciare. Occorre di nuovo inginocchiarsi sulla terra, come un tempo
antico. Pulirla con le mani, aprirla, seminarla
Mauro Corona, 2010
di tutto quel che nasce. La pancia della terra, fecondata di semi, partorisce di continuo
come una donna fertile. “Ah, Dio benedetto, cosa abbiamo combinato, cosa abbiamo
perso senza rendercene conto!” dicono i superstiti. “Abbiamo perso l’uso delle mani, dimenticato la sapienza, non sappiamo più fare un orto, piantare patate, radicchio, prendere un tordo con il vischio. Cos’è il vischio?
Non l’ho mai nemmeno sentito nominare. Ah
come siamo ridotti! In che trappola siamo finiti” Dio benedetto, aiutaci!” (...) Intanto, regati dai cittadini come fossero santi, dalle
campagne e dalle montagne arrivano i contadini. Ce ne sono diversi, sono vivi perché
sapevano lavorare con le mani. Ma occorre
dire che disponevano di più risorse. Da loro c’erano boschi, acque, selvaggina, campi,
prati e sementi. E memoria. I vecchi rimasti
avevano conservato la memoria del passato.
Per questo sono ancora vivi e adesso calano
nelle città per insegnare a quelli sopravvissuti come si coltiva la terra. Però mancano gli
attrezzi. Prima c’erano trattori, trebbie, motoseghe, falciatrici, motozappe, imballatrici,
decespugliatori e quant’altro. Manovrate dal
contadino moderno, le macchine producevano benessere. Adesso quelle macchine sono ferme, mostri con le ganasce penzolanti
e sdentate. La gente rimasta si chiede: “Come facciamo? Dove sono i vecchi arnesi del
tempo che fu?” Nei musei” rispondono i contadini, “nelle soffitte, nei ripostigli, nelle cantine”. “Allora andiamo a cercarli” si animarono gli scampati alla morte. E via di corsa alla
ricerca di zappe, badili, forconi, falci, picconi,
vanghe. Vengono saccheggiati gli ammuffiti musei del contadino. Si recuperano attrezzi do ogni genere, utensili ora indispensabili alla vita, che da anni stavano inchiodati alle pareti o sotto vuoto in bacheche di vetro.
Quasi tutti quegli strumenti sono privi di manico. I manici li ha disfatti il tempo o sono
stati bruciati per affrontare il gelo. “Li rifaremo” dicono i contadini, “intanto va bene così.
Meglio una zappa senza manico che un manico senza zappa”. Vengono perquisiti cantine, ripostigli, soffitte, magazzini. “Requisite anche le falci” raccomandano i villici, “per
adesso abbiamo fieno nei depositi ma, più
avanti, quando ci sarà l’erba, toccherà falciare e si dovrà farlo a mano”.