Pipanna - Provincia di Pesaro e Urbino
Transcript
Pipanna - Provincia di Pesaro e Urbino
ALBERTO CALAVALLE PIPANNA A quanti lo incontravano all’improvviso per le stradine di campagna, Pipanna sembrava un antico patriarca uscito da qualche pagina del Vecchio Testamento. Andava in giro per le case con la camicia aperta sul petto anche d’inverno, i piedi scalzi che cambiavano colore secondo le stagioni, i capelli che gli scendevano sulle spalle, non sempre composti, e la barba lunga fino alla cintola. Di carattere era piuttosto chiuso e scontroso e non rispondeva mai a chi gli faceva domande sulla sua vita privata. Naturalmente non aveva mai detto quanti anni aveva, ma a giudicare dalle rughe della fronte, , dallo sguardo stanco, dai capelli e dalla barba bianchi poteva avere non meno di ottanta anni. Era capitato nei dintorni della città all’improvviso, ma nessuno seppe mai da dove venisse e come si chiamasse e i contadini del posto avevano preso a chiamarlo Pipanna, per via di quella pipa che portava sempre fra i denti masticandone in continuazione il bocchino, come se avesse bisogno di maltrattare eternamente qualcosa. Compagno inseparabile dei suoi viaggi era un sacco di tela grezza che Pipanna portava sulle spalle, più o meno gonfio di povere mercanzie: stracci e pelli di coniglio che egli andava acquistando dalle contadine della zona in cambio di pochi soldi. Una brutta artrosi dorsale non curata o forse un’ernia del disco lo costringevano a camminare piegato in due. In quella scomoda posizione vedeva solo i piedi e i ciottoli del sentiero. Per rendersi conto di dove si trovava, doveva appoggiarsi con entrambe le mani al suo bastone e tirarsi su a fatica, per pochi istanti. Poi ripiombava in avanti, simile, senza offesa, ad un baco sulla foglia del gelso, e riprendeva a camminare lentamente. Per rompere la monotonia dei suoi viaggi, spesso borbottava i conti dei suoi guadagni: venti centesimi con la pelle comprata dalla Cesira, una lira con quelle acquistate dalla Quinta, neanche un centesimo con la pelle tarlata e spelacchiata che gli aveva rifilato l’Erminia, fanno centoventi centesimi. Ripeteva spesso quelle cifre per imprimersele bene in mente e i contadini quando, lo sentivano indaffarato con quei numeri, dicevano che contava le formiche lungo la strada. Ogni giorno faceva il suo giro a meridione delle Cesane e si ritirava la sera a dormire in un capanno isolato, a metà costa, che serviva ai contadini per riporre ghiande e cereali minori al piano superiore e attrezzi agricoli nel piano interrato. In questa rustica dimora, che i contadini gli avevano concesso in uso per pochi soldi, Pipanna dormiva al piano di sopra su un povero giaciglio coperto di stracci, in compagnia della gatta e di qualche topo. Al mattino, quando partiva per il solito giro per le case di campagna, accarezzava e baciava affettuosamente la gatta, lasciata in casa da sola, dopo essersi accertato che la bestiola potesse entrare ed uscire a suo piacere. Essa lo ricambiava delle attenzioni con le sue fusa e lo accompagnava ogni mattina per un centinaio di passi, poi si sedeva sul ciglio della strada a guardarlo, finché non lo vedeva scomparire dietro il bosco; a sera, quando Pipanna rientrava, cercava la sua micia e, se non la trovava in casa, usciva all’aperto chiamandola con tono sempre più apprensivo, come si fa quando si cerca un figlio piccolo che potrebbe essere impegnato a compiere qualche birbonata. D’estate, quando le giornate erano lunghe e calde, nelle ore pomeridiane egli schiacciava un pisolino, distendendosi sulla strada in terra battuta, col sacco sotto la testa e il cappellaccio sulla faccia, per fare un po’ di buio e conciliare il sonno. Allora frotte di ragazzini delle case vicine si divertivano a raccogliersi intorno a lui e a molestarlo e Pipanna, brontolando e imprecando, si rigirava su se stesso e cercava di riaddormentarsi, finché, non riuscendo a sopportare oltre le impertinenze, si decideva ad alzarsi per cercare un luogo più tranquillo. Ma non era facile convincere i ragazzini ad andarsene. Talvolta Pipanna, per dormire in pace, si nascondeva in un campo di granturco e qui, dopo aver dormito, trovava sempre qualcosa per fare uno spuntino. Si accontentava di una pannocchia abbrustolita su un fuocherello improvvisato sul posto, o di una mela, oppure di un grappolo d’uva, che poi si offriva di pagare puntualmente ai contadini con qualche centesimo, da essi rifiutato, sapendo che gli bastava accontentarsi di poco. Non rubava mai nulla e non chiedeva mai l’elemosina. Quando aveva bisogno di una fetta di pane o di un piatto di minestra, pagava con i pochi spicciolo che teneva in tasca e che rappresentavano tutti i suoi guadagni. Per le sue necessità personali non toccava mai il gruzzoletto più consistente che gli serviva per alimentare il suo modesto commercio e lo teneva in seno, dentro una specie di portafogli fatto da solo con una pelle di coniglio, raschiata e tagliata in tre pezzi ricuciti insieme. Quando il portafogli restava vuoto, Pipanna si recava in città con il suo sacco gonfio di pelli e stracci che vendeva ad un grossista, reintegrando le sue scorte finanziarie. Nella sua modestissima impresa economica sapeva essere un amministratore oculato e previdente e, pur disponendo di piccole somme, non restava mai sprovvisto di denaro perché, come diceva, non voleva debiti con nessuno. Non sempre le sue giornate erano fortunate; talvolta, dopo un lungo giro che durava dall’alba al tramonto, il sacco restava vuoto e Pipanna si sedeva triste con lo sguardo fisso nel vuoto. Allora i ragazzini, che spiavano dalla serratura, si commuovevano e correvano a casa a prendere di nascosto un uovo sodo avanzato a cena e lo posavano sul davanzale della sua finestra. Ci pensava poi la micia a richiamare l’attenzione del vecchio su quella manna improvvisa. Quando Pipanna tornava a casa dopo una giornata di buoni acquisti, vuotava i sacco sul pavimento e fischiettando e canticchiando, separava gli stracci dalle pelli e ammucchiava gli stracci in un cantone. Allineava poi accuratamente le pelli una sull’altra, sistemandole sotto una grossa pietra di tufo, perché col peso si distendessero bene. Con la brutta stagione Pipanna diradava le sue visite, ma i suoi risparmi gli consentivano di tirare avanti per qualche giorno anche nei periodi morti. Un anno, di gennaio, la neve ricoperse con una spessa coltre le campagne, il termometro scese a diversi gradi sotto zero e una cappa di gelo avvolse ogni cosa, trasformando gli alberi in trasparenti sculture di cristallo. Pipanna per una intera settimana non si fece vedere in giro. I contadini pensarono che avesse rinunciato ad uscire per non congelarsi quei piedi sempre nudi, ma poi qualcuno volle recarsi nella sua capanna a dare un’occhiata, se avesse avuto bisogno di qualcosa. Pipanna era seduto sulla sedia vicino alla finestra, con la micia raggomitolata sulla gobba. Lo chiamarono più volte, ma non rispose; lo scossero toccandolo su una spalla, ma non si voltò. Sembrava assorto a contemplare quel candido pendio di neve che saliva su su, fino a confondersi con le nebbie delle Cesane e le nubi chiare del cielo. Era morto così; il volto sereno e disteso, incorniciato nella barba bianca, pareva si rispecchiasse in una piccola immagine consunta di Sant’Antonio Abate, che teneva stretta fra le dita.