Marotta, G. CON UOVA E AVVENTURIERI SGARBATO INIZIO DEL

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Marotta, G. CON UOVA E AVVENTURIERI SGARBATO INIZIO DEL
Marotta, G.
CON UOVA E AVVENTURIERI SGARBATO INIZIO DEL ’48
SAREBBE FINITA PER STEINBECK SE NINO GUARESCHI POTESSE ALLOGARSI A NEW YORK
da «Omnibus», 17 gennaio 1948, p. 5.
Non ho letto il romanzo di Bette, Mac Donald da cui discende come una scimmia
dal palo il film «Io e l’uovo», né sarò così idiota da leggerlo. Sembra che questo libro
sia umoristico e abbia avuto un irrefrenabile successo in America; ma tutto ha un irrefrenabile successo in America, perfino gli spaghetti in scatola e le tasse. Insomma
Bette Mac Donald che in Italia non riuscirebbe a collaborare a «Candido» (bastano i
suoi temi a classificarla come scrittrice), in America ha guadagnato miliardi con un
solo romanzetto in cui si vede una coppia di deficienti allevare galline e viceversa.
Mistero; o al meno capisco perché è vietata l’immigrazione negli Stati Uniti: di che
cosa vivrebbero Bette Mac Donald e John Steinbeck se Guareschi e Scerbanenco si
allogassero a New York? Prescindendo da tutto ciò, il film «Io, e l’uovo» è un acre,
sferzante, spietato libello contro l’America rurale. Si osservi il campionario di umanità nella scena del ballo pubblico che conclude la fiera del bestiame: contadini dal
cranio oblungo e disperato, o cilindrico e inospite, o dentellato e perplesso, si aggirano fra contadini dal cranio sferico e acque come un’anguria, subito seguiti da contadini scaleni e isosceli e incompiuti, intorno ai quali non si può supporre che il madido cristallo dei boccali in cui vengono conservati gli aborti e i tumori. Se così sono
fatti i villici americani secondo il regista Chester Erskjne io mi domando che cosa
metterebbe insieme costui qualora gli dessero da ridurre in film «L’Isola del dottor
Moreau»; comunque mentre queste creature di Dio stanno ballando come orsi e
marmotte sopravviene lo sceriffo dicendo: «Ha preso fuoco il granaio di Tom». E
poiché il solo Tom (è umano) dà segni di agitazione, egli aggiunge: «L’incendio si è
esteso all’intera regione. Frattanto un uragano arriva dall’estero. Dio salvi le vostre
anime, al mio corpo e a quello di mia moglie penso io». I mostruosi contadini si
precipitano a mettere il sale sulla coda dei due annunziati flagelli; ma fiamme e diluvio stipulano un fulmineo compromesso, limitandosi a distruggere l’isola fattoria
di Claudette Colbert e Fred Mac Murray. Costoro però esprimono l’intenzione di
ricostruire ogni cosa: intendono persistere, dovessero fare e covare personalmente
le uova, nell’allevamento dei polli; Inoltre la donna promette di servirsi delle loro
buffe peripezie per scrivere un bellissimo libro. Chiunque in America, paese vera libertà, può scrivere un bellissimo libro; e poi trova sempre un Vittorini che lo traduce o che se ne imbeve per trasferirlo goccia a goccia nei suoi racconti siciliani.
Che dire del film «Il magnifico avventuriero»? Con un western è finito il 1947,
con un western ha avuto inizio il 1948. Non ho niente contro il regista Stuart Heisler, che è l’unico nemico di se stesso. La novità del suo film doveva consistere nel
fatto che il protagonista, un sempliciotto, un mezzo Bertoldo della prateria, la spuntasse su torvi banditi e sceriffi. Che sciocchezza. Ci si domanda (chi anche senza essere un matematico fa caso al numero e alla varietà dei proiettili che si diramano in
questi film) come faccia a vivere più di tre giorni un tiratore scelto: figuriamoci un
simile tanghero a cavallo, Martin, dico, il quale non sa neppure da che parte si impugni un revolver e si accarezzi una donna. Scusate, mi è subito venuta in mente
Loretta Young che costituisce lo scopo ultimo delle galoppate e delle sparatorie contenute in questo film. Povera Loretta: come l’ha disfatta il Tempo che a Hollywood
e dovunque fugge ridendo di tutti! Povera Loretta, che nei film «Il magnifico avventuriero» dovrebbe essere una verginetta ai suoi primi peccati: come non ho bisogno
di toccare un panino per sapere che è raffermo, così l’ho sentita avvizzita e grama
sotto i prolissi abitini del West; ma soprattutto mi ha rattristato il suo labbro inferiore che morsi tante volte nei sogni, denso e terrestre come l’erba dei muri («Vandalo» lei mi diceva dopo ogni bacio, erano le notti del 1931) e che ora pende vuoto e
grinzoso, una vela afflosciata (lasciatemi dire) in cui mai più premeranno i soffi del
desiderio, mai più. E Gary Cooper, che del film «Il magnifico avventuriero» è anche
produttore? Io non conosco un volto, e una figura più cinematografici dei suoi, non
lo discuto come attore; ma come produttore sappia che gli si offrivano mille maniere più curiose di gettare dalla finestra il proprio denaro. Qui è del resto
l’inconcepibile crisi del cinema americano: ottimi gli interpreti, poderosa
l’organizzazione, illimitati i mezzi, ma tapina l’inventiva, miserrimi i soggetti. Senonché il mondo non comincia e non finisce negli Stati Uniti. Andiamo, si rivolgano
a Zavattini! E qualora non lo trovino in casa, si rivolgano a me! Noi, per la terza parte di quanto percepisce l’ultimo gagsman di Hollywood inventeremmo le Mille e una
notte, il Decamerone e la Bibbia; noi per pochi dollari dimostreremmo ancora una volta di essere meritevoli consanguinei di quel Colombo che immaginò la via per andare in America, ma così bene la immaginò, che c’era davvero.
Mi faccio un mucchio di nemici intellettuali se dichiaro che «Lo straniero» non mi
è piaciuto. Si pensi che Lanocita lo definisce «un film cosparso di intelligenza»; mi
toglierà, il saluto se affermo che si tratta invece di un film spalmato di presunzione e
di retorica? Basta un particolare a fornire la misura di un gusto: si veda la scena in
cui la spada dell’angelo che adorna l’antico orologio della torre diventa effettivo
strumento di morte. L’intellighenzia anglosassone ha in Orson Welles (il quale dirige interpreta scrive dipinge e non so che altro) un campione dalle cento enormi
braccia su due gambette molli. Egli per esemplo atterrì il suo popolo con un radiomessaggio che annunziava imminenti atti di guerra dei marziani contro il nostro
pianeta; vi furono in molte città degli Stati autentiche scene di panico, suicidii eccetera.
«Natale al campo 119» — mi dispiace per Il regista Francisci, al quale voglio bene
e nel quale riponevo alcune speranze — è un film come io sono un lampione. Fabrizi, Peppino De Filippo, Campanini, De Sica, Girotti, eccetera, recitano come recitavano ai miei tempi di Napoli, nel 1920, gli improvvisati attori sugli improvvisatissimi
palcoscenici degli stabilimenti balneari. «Sì, sì» diceva il mare arrotolandosi come
una coperta di seta sulla spiaggia: nel senso che, mentre 1a commediola incatenava
genitori e zie sulla «rotonda», noi giovani potevamo al riparo di uno scoglio baciare
qualche incustodita ragazza, addirittura insegnarle a nuotare. Il soggettista di «Natale al campo 119» è stato Michele Galdieri.
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