Io, prigioniero dei khmer rossi di Fabio Gambaro
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Io, prigioniero dei khmer rossi di Fabio Gambaro
Io, prigioniero dei khmer rossi di Fabio Gambaro - da Repubblica, 15 aprile 2005 Per raccontare, Francois Bizot ha aspettato quasi trent'anni. Solo a distanza di così tanto tempo è riuscito a trovare le parole per rievocare i tre mesi di detenzione passati in un campo di prigionia dei khmer rossi. Lo studioso francese ha deciso di tornare sul suo passato solo nel 1998, quando ha saputo che Douch, colui che lo aveva interrogato per settimane, era stato arrestato. Il suo carceriere, infatti, era diventato un dei più sinistri carnefici del sistema di Pol Pot e aveva diretto la famigerata prigione di Phnom Penh, nella quale si era reso responsabile di quarantamila esecuzioni. Saperlo vivo ha spinto Bizot a scrivere “Il cancello”, il libro in cui ha descritto la sua prigionia. Per questa sua testimonianza Bizot è il vincitore del premio letterario Tiziano Terzani, che gli verrà consegnato il 17 maggio a Udine. «Ero arrivato in Cambogia nel 1965, inviato dall’Ecole Francaise d’Extreme Orient per fare ricerche sul buddismo cambogiano e partecipare al restauro di Angkor». Racconta Bizot, che, dopo aver passato moltissimi anni in Asia, oggi insegna a Parigi: «Nell'ottobre del 1971, mi trovavo nella regione di Udong per visitare un monastero. Insieme a due collaboratori cambogiani, fui arrestato da una pattuglia khmer e accusato di essere una spia della Cia. Mi fecero camminare tre giorni nella foresta e mi portarono tra i Monti dei Cardamomi, in un campo diretto da un giovane di nome Douch». Com'erano le condizioni della detenzione? «Non facili. Ci tenevano incatenati e ci davano da mangiare solo un po' di riso. Inoltre, vivevo con la paura di morire, perché da quel campo i detenuti non facevano mai ritorno. Per i khmer rossi, era meglio correre il rischio di uccidere degli innocenti che lasciarsi sfuggire un solo colpevole. Io fui l'unica eccezione. I due cambogiani che erano con me furono assassinati. A un certo punto fui condannato a morte e subii una finta esecuzione. Ero pronto a morire, ma le pallottole non arrivarono. Forse volevano solo farmi paura». Fu torturato? «No, gli altri prigionieri invece sì. Fui però interrogato quasi tutti i giorni. Gli interrogatori duravano ore, durante le quali cercavo di convincere i khmer della mia innocenza. Dovetti scrivere una lunga dichiarazione per spiegare la mia presenza nel paese. Douch m'interrogava per cogliere qualche contraddizione che provasse la mia colpevolezza. All'inizio degli anni Settanta i khmer rossi non avevano ancora preso il potere, eppure la paranoia e la paura del complotto che li spingeva a vedere spie dappertutto erano già al centro del loro sistema». Come avvenne la sua liberazione? «Deuch era un mostro che torturava i prigionieri. Con me però si comportò diversamente, eravamo quasi coetanei, parlavo il khmer e forse lo incuriosivo. Alla fine si convinse della mia innocenza, ma per liberarmi dovette battersi contro altri dirigenti khmer. Molto più tardi seppi che, dopo lunghe discussioni, fu lo stesso Pol Pot che allora si chiamava ancora Sam Lot Sar, a decidere della mia liberazione. Una sera ebbi diritto a una specie di cena d'addio con i capi del campo e il giorno dopo fui liberato». In seguito, ha avuto ancora a che fare con i khmer rossi? «Nell'aprile del 1975, quando gli uomini di Poi Pot presero Phnom Penh, feci da interprete per l'ambasciata francese. Li avevo conosciuti, avevo visto la loro organizzazione, avevo imparato il loro modo di pensare e il loro gergo rivoluzionario. Quindi mi scelsero come interprete, un ruolo che mi consentì di girare per la città. Vidi così il clima di terrore che stavano instaurando. Capii che erano disposti a condurre alle estreme conseguenze la logica implacabile secondo la quale il progetto rivoluzionario giustifica qualsiasi azione. In breve tempo organizzarono un regime basato sul terrore. Era quello che sapevano fare meglio, perché fin dall'inizio la pratica della violenza e della paura era servita loro per ottenere il riso dai contadini o per spingere i giovani ad arruolarsi. II terrore come metodo di governo». Francois Ponchaud Cambogia anno zero Sonzogno 1977 Jonathan Glover Humanity. Una storia morale del ventesimo secolo Il Saggiatore 2002 Robert Conquest Il secolo delle idee assassine Mondadori 2002 Loung Ung Rouge Le Vespe 2001 Noam Chomsky, Edward S.Herman La fabbrica del consenso Marco Tropea 1998 Si rese conto che stava avvenendo un genocidio? «Avevamo notizia di molti crimini, ma non ci rendevamo conto delle reali dimensioni di quella tragedia. Pensavamo che i cambogiani esagerassero le denunce. Invece non esageravano affatto. Matilde Callari Galli In Cambogia. Una pedagogia del totalitarismo Meftemi 1997 L'evacuazione di Phnom Penh fu un'operazione di una crudeltà inaudita. Per molti dei due milioni d'abitanti quel trasferimento verso le campagne fu una condanna a morte. La rivoluzione khmer aveva scelto come uomo ideale il contadino coltivatore di riso, un uomo semplice, taciturno, lavoratore e patriota. Piero Gheddo Cambogia. Rivoluzione senza amore SEI 1976 Tutti coloro che non corrispondevano a quel modello erano immediatamente considerati nemici del popolo. Chi veniva dalla città, chi era istruito, chi lavorava nell'industria era un nemico da abbattere. Così oltre un terzo della popolazione fu eliminato». Qual era il modello ideologico dei khmer rossi? «Alcuni aspetti del loro rituale, più che alla rivoluzione cinese o russa, si avvicinavano al buddismo cambogiano, dal quale avevano preso in prestito elementi come la confessione, la disciplina, il ripudio dei genitori, l'adozione della patria come madre comune. Tuttavia, la verità è che i khmer rossi, prigionieri di una logica estremista e oltranzista, erano disposti a tutto pur di raggiungere i loro scopi. Come molte altre volte nella storia dell'umanità, in loro prevaleva l'accecamento ideologico che giustificava il terrore con il bene altrui. Quello stesso accecamento aveva trasformato Douch, un giovane mosso dal bisogno di verità e di giustizia, in un terribile “assassino”. Piero Gheddo, Giacomo Girardi Vietnam, Cambogia. Non stiamo a guardare EMI 1980 Norodom Sihanouk La mia guerra con la Cia. Cambogia 1970 Jaca Book 1979 Francois Debrè Cambogia. La rivoluzione della foresta Città Nuova 1978
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