Antonio Martino su le rivolte in Africa del nord

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Antonio Martino su le rivolte in Africa del nord
Approfondimenti a cura della Segreteria Nazionale MSAC
I CARE
Africa del nord in rivolta
di Antonio Martino (giornalista- ufficio stampa Azione Cattolica Italiana)
La violenza che in queste settimane è esplosa nel vicino Maghreb è la tragica fatale
conseguenza del degenerare di una situazione politico-sociale che procede inesorabile da
lunghi anni e che, con il tempo, si confronta con una popolazione anagraficamente sempre più
giovane che naviga in Internet e comunica attraverso blog e social network, e dunque anche
grazie a questo sempre più matura e consapevole dei propri diritti e pertanto sempre meno
disposta a tollerare certe forme di squilibrio della società.
In prima pagina l’Egitto, un paese governato fin dal 1981 da Hosny Mubarak, presidente
soprannominato “il Faraone” dalla stampa internazionale, appellativo che se da un lato può
sembrare un omaggio al glorioso passato del paese, dall’altro sottolinea l’assolutezza del
longevo governo egiziano. Succeduto al presidente Anwar al-Sadat, a seguito dell’assassinio di
questi il 6 ottobre del 1981, e come questi anch’egli espressione della casta militare, vera
padrona del paese, Mubarak a più volte messo mano alla costituzione egiziana affinché fosse
rieletto in ben quattro referendum elettorali, con percentuali plebiscitarie, che hanno altresì
causato la dissoluzione o la frammentazione di qualsiasi partito di opposizione in grado di
catalizzare le preferenze elettorali.
Tuttavia, Mubarak si è dovuto confrontare con un’opposizione interna tenace: dal giorno del
suo insediamento, il Raìs è sfuggito a ben sei tentativi di omicidio. Prima della rivolta di queste
settimane, il raggruppamento più pericoloso per il suo potere era (e per molti osservatori è
ancora) quello dei Fratelli Musulmani, di matrice islamista radicale, nemici giurati del governo e
determinati a raggiungere il potere nel paese. Conscio di ciò, Mubarak si stava preparando al
meglio alle elezioni presidenziali del 2011, e all’annuncio da parte della Fratellanza di voler
candidare alcuni dei suoi esponenti, lo scorso 6 ottobre, il governo ha reagito arrestando, da
allora, circa seicento membri del gruppo, di cui duecentocinquanta si troverebbero ancora in
carcere.
Oggi lo scacchiere egiziano è certo cambiato e si riempie ogni giorno di nuove variabili:
Mubarak si è finalmente dimesso e ha la sciato il paese. Il potere è passato nelle mani delle
forze armate per un periodo di transizione prima dello svolgimento di elezioni democratiche.
Ma quali sono gli scenari futuri? Né le cancellerie europee né gli Stati Uniti e nemmeno gli
egiziani lo sanno. È probabile che i Fratelli Musulmani possano approfittare di questa situazione
anomala: hanno quadri e dirigenti con una conoscenza perfetta del territorio, sia nel mondo
rurale che nelle metropoli. Ma la società egiziana è mutata negli ultimi quindici anni, e i veri
protagonisti della protesta sono i giovani, che sognano Occidente, nel bene e nel male:
raramente si sono uditi nelle manifestazioni slogan che inneggiassero all’islam come soluzione
ai problemi dell’Egitto. Inoltre gli egiziani hanno percepito il pericolo di un islam politico: le
situazioni in Iran, Iraq e Afganistan sono entrate nelle case attraverso i canali satellitari. Sono
scenari che gli egiziani rifiutano, ma non per questo l’enigma della transizione democratica è
risolto.
Qualche rigo anche sulla Tunisia: il Presidente Zine El-Abidine Ben Ali era al potere dal 1987,
quando, allora primo ministro, fece deporre il suo predecessore Habib Bourguiba facendolo
giudicare dai medici inidoneo per senilità. Da allora, Ben Ali si è prodigato nel tentativo di
soffocare ogni opposizione al suo regime, di aumentare il controllo sui media e sui partiti di
opposizione. Diverse organizzazioni per i diritti umani hanno denunciato casi di sparizioni,
omicidi e tortura ai danni di dissidenti e avversari. Ben Ali ha sostenuto negli anni del suo
governo un’incessante lotta contro l’integralismo di matrice islamica nel suo paese,
scagliandosi soprattutto contro il partito islamista Ennahda, i cui militanti sono stati
imprigionati e torturati nelle carceri del regime. D’altra parte, i movimenti di ispirazione
islamista hanno da sempre criticato il carattere filo-occidentale del suo governo. Nel 2002, Ben
Ali ha imposto una riforma costituzionale con la quale è stato di fatto abolito ogni limite di
durata alla carica presidenziale. La sua uscita di scena è rimpianta, per adesso, solo dagli
Occidentali. Italia in testa.
Poi l’Algeria: governata da Abdelaziz Bouteflika dal 1999, quando durante le elezioni gli altri
candidati si ritirarono dal confronto denunciando brogli elettorali. Nel 2009, Bouteflika ha vinto
le elezioni con il 90% delle preferenze, assicurandosi così il terzo mandato consecutivo, dopo
che, precedentemente, aveva introdotto riforme costituzionali che eliminavano il divieto, per lo
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stesso presidente, di superare i due mandati. Anche il Governo di Bouteflika si è dovuto
confrontare con partiti e formazioni di matrice islamista presenti nel paese. D’altra parte, nel
caso dell’Algeria pesano, e ancor più pesavano al momento dell’elezione di Bouteflika, i fatti
della guerra civile degli anni ’90, che hanno vincolato il nuovo governo, fin dal suo esordio, a
ricostruire una riconciliazione nazionale. Sebbene abbia attuato diverse politiche in questo
senso, Bouteflika sembra aver ricevuto critiche sia dal fronte islamista, secondo cui l’apertura
del presidente sarebbe solo una facciata, sia dai fronti filo-occidentali, che lo accusano di
eccessivo avvicinamento all’islamismo radicale.
Egitto, Algeria e Tunisia sono tre paesi profondamente diversi tra loro per storia, strutture
politiche, cultura. Tuttavia, hanno condiviso alcuni tratti nella tipologia di gestione attuata dai
rispettivi governi, interessati alla propria sopravvivenza e perpetuazione prima che al destino
del paese di cui sono o sono stati a capo. In una tale situazione, è comprensibile e, forse,
auspicabile, che la popolazione di paesi da troppo tempo in via di sviluppo promettente sia
giunta, con gli anni, ad una maturità e ad una consapevolezza dei propri diritti, tali da rendere
ulteriormente intollerabile l’attuale ambiente politico-sociale. Il fatto che singole scintille, come
un attacco dinamitardo o un gesto estremo di protesta auto-lesiva, scatenino rivolte e tumulti
anche in città diverse, capaci di bloccare il paese intero, dimostra come le tensioni sociali siano
giunte al limite.
Malgrado le forze dell’ordine e di sicurezza al servizio dei governi abbiano strada agevole e
ampi permessi nel soffocare tali manifestazioni popolari, la voce del dissenso non può che
trovare sempre più frequente espressione. Una popolazione di paesi dalle grandi risorse, come
Egitto, Algeria e Tunisia, e dalle enormi possibilità di sviluppo, non può che trovarsi scomoda in
una situazione in cui la scelta politica si riduce a due possibilità: regimi chiusi e repressivi
consolidati dal benestare occidentale o governi retti da gruppi islamisti radicali.
Egitto, Tunisia e Algeria meritano più di questo, come le rispettive popolazioni, assetate di
sviluppo e stanche di dover soggiacere alle necessità di dittature mascherate da democrazie,
meritano di trovare anche nei rispettivi paesi quelle possibilità di espressione e di progresso
umano e materiale che, negli ultimi giorni, sembrano voler chiedere a gran voce.