Audizione sugli Home Restaurant di Fiepet Confesercenti (formato

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Audizione sugli Home Restaurant di Fiepet Confesercenti (formato
Camera dei Deputati
Commissione X – Attività produttive, commercio e turismo
Risoluzione 7-00825, presentata dall’On.le Angelo Senaldi
Audizione della FIEPeT-Confesercenti
Roma, 19 gennaio 2016
Il fenomeno “Home restaurant”, dal punto di vista giuridico, è attualmente privo di una propria
disciplina, e ciò comporta seri problemi di ordine concorrenziale, sanitario e fiscale.
E’ per questo che FIEPeT-Confesercenti ha commissionato al CST, Centro di Studi Turistici,
un’indagine sulla rilevanza del fenomeno, le cui risultanze rivelano come l’universo degli Home
restaurant in Italia abbia generato nel 2014 introiti pari a 7,2 milioni di euro, con il primato della
Lombardia (con una quota di circa 1,9 mln di euro, pari a oltre un quarto del fatturato totale), ma
introiti oltre il milione di euro anche nel Lazio (1,4 mln) e in Piemonte (1,1 mln); nello stesso anno
sono stati proposti circa 86mila eventi di “social eating”, con la partecipazione di circa 300mila
persone, che hanno sostenuto una spesa media stimata di 23,70 euro pro-capite, per un incasso
medio per singolo evento pari a 194,00 euro. Sono risultati attivi più di 7mila cuochi “social”,
ognuno dei quali ha incassato in media 1.002,51 euro, con un trend in sicura crescita.
E’ chiaro che tutto ciò comporta un’indebita concorrenza al settore della ristorazione tradizionale.
Il rispetto o meno delle regole cui sono sottoposti gli operatori economici è infatti uno degli
elementi che più qualificano il funzionamento dell’economia e ne determinano le capacità di
sviluppo.
E le regole che caratterizzano le attività della ristorazione sono indubbiamente numerose e
severe.
Basti pensare che, fin dal suo avvio, un’attività di somministrazione di alimenti e bevande viene
limitata da parametri di vario genere, fino a poco tempo fa finanche di tipo strutturalmente
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regolatorio, mediante distanze e contingenti numerici, oggi di tipo qualitativo, in ossequio all’art. 64
del D. Lgs. n. 59/2010, con cui è stata recepita la Direttiva “Bolkestein”.
Questo prevede, infatti, che i comuni, nelle zone del territorio da sottoporre a tutela, possano
adottare provvedimenti di programmazione delle aperture degli esercizi di somministrazione di
alimenti e bevande al pubblico: tale programmazione può prevedere, sulla base di parametri
oggettivi e indici di qualità del servizio, divieti o limitazioni all'apertura di nuove strutture,
quando ragioni non altrimenti risolvibili di sostenibilità ambientale, sociale e di viabilità rendano
impossibile consentire ulteriori flussi di pubblico nella zona senza incidere in modo gravemente
negativo sui meccanismi di controllo, in particolare per il consumo di alcolici, e senza ledere il
diritto dei residenti alla vivibilità del territorio e alla normale mobilità.
Inoltre, per esercitare l’attività, il titolare o un suo delegato devono possedere requisiti
professionali che implicano la frequenza di corsi, il superamento di esami, il possesso di titoli di
studio o una determinata pratica professionale prolungatasi e mantenutasi nel corso di alcuni anni.
L’esercizio deve rispondere a precisi requisiti sanitari, quanto alle misure e alle dotazioni di
locali e attrezzature, come previsto dai regolamenti locali d’igiene. In particolare, devono essere
presenti bagni per gli addetti e per i clienti, divisi per sesso, nonché per portatori di handicap.
L’attività deve rispettare la legislazione comunitaria e nazionale sull’igiene degli alimenti e la
nuova disciplina sull’informazione e sulla pubblicità dei prodotti alimentari, che contiene
stringenti regole sulla comunicazione relativa alla presenza degli allergeni nei piatti
somministrati.
Dal punto di vista lavoristico il personale deve essere ovviamente in regola con le norme
relative alle assunzioni, ai contratti collettivi nazionali di lavoro, alla formazione
professionale, alla contribuzione previdenziale.
Infine, l’esercizio dovrà corrispondere quanto previsto dalla legislazione nazionale e dai
provvedimenti comunali ai fini delle imposte e tasse e dei tributi locali, che prevedono onerosi
versamenti per lo smaltimento dei rifiuti speciali e l’occupazione del suolo pubblico. Per non
dire dei diritti relativi alla diffusione di musica da corrispondere a SIAE e società di collecting.
Tutto ciò, va immediatamente evidenziato, non riguarda l’attività di un Home restaurant, che non
conosce limiti all’accesso, non deve formalmente rispettare norme in tema di requisiti professionali,
di dotazioni strutturali, né la disciplina in materia di alimenti, non è assoggettata ai controlli degli
Ispettorati del lavoro, non versa contributi previdenziali per il lavoro autonomo né per i dipendenti,
diffonde musica d’ambiente senza versare diritti ad alcun Ente.
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E’ chiaro come i mercati e le imprese sottoposte a un eccesso di carico regolatorio, quando
un numero non esiguo di operatori riesce a eludere tali regole, finiscano per subire effetti
avversi.
Nel caso che ci occupa, quello che per qualche tempo era un mero fenomeno di costume si è
presto trasformato in un business, poiché gli incontri gastronomici non si realizzano con il semplice
strumento dell’invito a cena privato e/o del passaparola, ma sono organizzati mediante la rete
internet e l’intervento di soggetti terzi che intermediano la prestazione, su veri e propri siti dedicati.
Tecnicamente, gli host (padroni di casa) si iscrivono al sito e propongono la data, un menù e un
prezzo. Gli ospiti (guest) attratti dalla proposta, inviano una richiesta di partecipazione alla serata, e
pagano la cifra stabilita dal proprietario di casa direttamente sul sito, che applica al prezzo una
commissione a carico degli ospiti e invia l’incasso all’host.
Finora tutto ciò si è svolto fuori da ogni regola di diritto, in un ambito totalmente libero da un
punto di vista amministrativo e fiscale, ma è ovvio che, quanto più un’occasione di puro
intrattenimento assume i contorni di una vera e propria attività economica, tanto più
necessita di una disciplina.
Per tali motivi, il Ministero dello sviluppo economico, rispondendo al quesito posto da una
Camera di commercio, che chiedeva informazioni inerenti l’apertura e la gestione di un’attività che
si caratterizza per la preparazione di pranzi e cene presso un domicilio privato in giorni dedicati e
per poche persone, trattate come ospiti personali ma paganti, ha emesso una Risoluzione (n. 50481,
del 10 aprile 2015) che attualmente offre l’unica possibile chiave di lettura del fenomeno Home
restaurant dal punto di vista del trattamento giuridico.
Il MISE ricorda anzitutto che la legge 25 agosto 1991, n. 287, sulla disciplina della
somministrazione di alimenti e bevande, così come modificata dal D. Lgs. 26 marzo 2010, n. 59,
distingue tra attività esercitate nei confronti del pubblico indistinto e attività riservate a particolari
soggetti. Detta legge, all’art. 1, dispone in particolare che “per somministrazione si intende la
vendita per il consumo sul posto” che si esplicita in “… tutti i casi in cui gli acquirenti consumano i
prodotti nei locali dell’esercizio o in una superficie aperta al pubblico, all’uopo attrezzati”.
Ad avviso del Ministero, l’attività in discorso, anche se esercitata solo in alcuni giorni
dedicati e tenuto conto che i soggetti che usufruiscono delle prestazioni sono in numero
limitato, non può che essere classificata come un’attività di somministrazione di alimenti e
bevande, in quanto, sebbene i locali in cui i prodotti vengono preparati e serviti siano privati,
sono comunque locali attrezzati aperti alla clientela.
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Non si può infatti parlare che di clientela, dal momento che la fornitura delle prestazioni
comporta il pagamento di un corrispettivo e, quindi, “anche con l’innovativa modalità, l’attività in
discorso si esplica quale attività economica in senso proprio”; di conseguenza, essa “non può
considerarsi un’attività libera e pertanto non assoggettabile ad alcuna previsione normativa
tra quelle applicabili ai soggetti che esercitano un’attività di somministrazione di alimenti e
bevande”.
Pertanto, a parere del MISE, considerata la modalità con la quale i soggetti interessati intendono
esercitare, devono applicarsi le disposizioni di cui all’art. 64, comma 7, del D. Lgs. n. 59/2010.
Ciò significa che, previo possesso dei requisiti soggettivi di cui all’art. 71 del D. Lgs. n. 59, detti
soggetti sono tenuti a presentare la segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) o a richiedere
l’autorizzazione, ove trattasi di attività svolte in zone tutelate.
In definitiva, in linea con quanto affermato dal Ministero, per avviare un’attività di Home
restaurant gli interessati dovrebbero:
- presentare i requisiti di onorabilità per l’esercizio di un’attività di somministrazione di
alimenti e bevande;
- acquisire i requisiti professionali per la somministrazione di alimenti e bevande;
- presentare una SCIA o, per le zone tutelate soggette a programmazione, una richiesta di
autorizzazione.
Non solo, trattandosi di attività a tutti gli effetti disciplinata dalle norme in materia di
somministrazione di alimenti e bevande, l’interessato dovrebbe anche rispettare la normativa
urbanistico edilizia e quella igienico-sanitaria.
E ciò porta con sé anche che, fino ad un’eventuale diversa disciplina, l’attività andrebbe
considerata attività d’impresa, con l’obbligo di iscrizione al Registro delle imprese e gli
adempimenti di tipo fiscale e contributivo.
In mancanza, l’attività esercitata dovrebbe essere considerata abusiva, con l’applicazione delle
consequenziali sanzioni.
Nella pedissequa applicazione di tale interpretazione, ovviamente, l’esercizio di un Home
restaurant quale attività che sfugge alle norme di settore della somministrazione di alimenti e
bevande sarebbe impossibile: ma la conseguenza è inevitabile, se chi intende svolgere l’attività in
questione lo fa con caratteristiche che travalicano l’aspetto dell’occasionalità, realizzando piuttosto
un business in diretta - e sleale - concorrenza con le imprese che tale attività svolgono
professionalmente e nel rispetto di regole (come si è visto) stringenti e onerose.
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Pertanto è necessario, a nostro avviso, che il legislatore intervenga, fissando i limiti oltre i quali
un fenomeno di costume diventa attività d’impresa ed, in tal caso, prevedendo le regole che mettano
sul piano di parità operatori professionali e soggetti che vogliono ritagliarsi un ruolo nuovo nel
panorama della ristorazione ma che, se ciò intendono fare, devono farlo garantendo la sicurezza e la
salute dei consumatori, competendo lealmente con chi organizza la propria attività secondo precisi
dettami normativi, versando all’erario la propria parte di contribuzione, secondo canoni di
proporzionalità, come vuole la Costituzione.
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