IL VERISMO- I PROBLEMI DEL DOPO
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IL VERISMO- I PROBLEMI DEL DOPO
ITALIANO CLASSE VA PROF.SSA RAFFAELLA ARISTODEMO MODULO N 1 L’ETA’ DEL REALISMO U.D 1 CONTESTO STORICO-SOCIALE E CULTURALE. IL POSITIVISMO E IL NATURALISMO IN FRANCIA U.D. 2 IL VERISMO ITALIANO U.D. 3 G.VERGA:LA VITA,LE IDEE E LA POETICA, LE OPERE U.D. 4 ALCUNE NOVELLE E BRANI TRATTI DAI ROMANZI U.D. 1 CONTESTO STORICO-SOCIALE E CULTURALE I PROBLEMI DEL DOPOUNITA’ IN ITALIA Il Verismo, che è una delle più notevoli correnti letterarie della seconda metà dell’Ottocento, nacque e si sviluppò in Italia tra il 1870 e il 1890 circa, quando da poco si era conclusa la fase risorgimentale e il nuovo Regno italiano si trovò subito alle prese con gravi difficoltà e con notevoli problemi. Le varie regioni della penisola, che erano rimaste divise per tanti secoli, differivano profondamente fra loro per leggi, tradizioni, condizioni economiche. Dopo l’unificazione le differenze fra le varie aree geografiche non si attutirono; anzi in certi casi finirono per venire esasperate. Le regioni centro-settentrionali, specialmente il Piemonte e la Lombardia, proseguirono sulla strada dello sviluppo industriale, ma il sud rimase in condizioni di grande arretratezza, povertà ed ignoranza. Nei primi anni dopo l’Unità, esplose nelle campagne del Mezzogiorno il Brigantaggio, una vasta rivolta popolare dei briganti ( delinquenti, ex soldati del regno borbonico, contadini esasperati dalla miseria), che si battevano contro lo Stato unitario in nome del re Francesco II di Borbone. Anche il Papa appoggiava tali rivolte, in quanto era decisamente ostile all’unità italiana e avrebbe voluto continuare ad avere per sè la sovranità sullo stato territoriale di Roma e del Lazio. Non solo il Brigantaggio era il più chiaro sintomo di un diffuso malessere sociale, cui il governo italiano rispose con una violenta repressione militare, ma ne nacque una vera e propria “Questione Meridionale” e una “Questione Contadina”, con una fase di lotte e di insurrezioni di braccianti e contadini vessati da tasse insostenibili e per questo costretti anche ad un’emigrazione massiccia verso le Americhe. IL MITO DEL PROGRESSO E IL POSITIVISMO Nella seconda metà dell’Ottocento, si verificò un massiccio sviluppo dell’industria in vari paesi dell’Europa occidentale e un notevole progresso scientifico e tecnologico. L’uso del carbon fossile e del ferro prese sempre più piede, Louis Pasteur scoprì il vaccino antirabbico, faceva la sua comparsa la fotografia, Thomas Edison inventò la lampada elettrica. Ciò contribuì a fare dell’Ottocento un secolo di grande ottimismo. L’opinione pubblica, abbagliata da tanti rapidi mutamenti, si illuse che la scienza fosse in grado di risolvere tutti i problemi dell’uomo e che così l’umanità avrebbe potuto raggiungere la felicità totale. Alcuni filosofi sostenevano che anche le più gravi questioni potevano venire risolte utilizzando i criteri e i metodi scientifici, le regole precise. Da tale clima nacque il POSITIVISMO, un movimento filosofico ottimistico, appunto, il, quale esaltava la ragione, la scienza e lottava contro tutto ciò che era irrazionale. Il movimento credeva nel progresso e in un illimitato miglioramento della società. Anche la letteratura era chiamata a contribuire a tale compito e suo scopo era quello di analizzare e descrivere la realtà in maniera oggettiva, così com’era, evidenziandone anche gli aspetti negativi, i mali e le storture, in quanto solo così, una volta individuati, potevano essere risolti o eliminati. Il Positivismo contribuì alla nascita del Naturalismo in Francia e del Verismo in Italia. IL NATURALISMO FRANCESE Esso si affermò in Francia tra il 1870 e il 1890. I rappresentanti più autorevoli della corrente furono: Gustave Flaubert (1821-1880), autore del romanzo “Madame Bovary”, Guy de Maupassant, attento a descrivere, nei suoi racconti, le vicende del proletariato urbano, Emile Zola (1840-1902). Elementi fondanti del Naturalismo erano il Realismo e l’Impersonalità dell’Arte, definita anche Oggettività della Rappresentazione. Il Realismo consisteva nel fatto che gli scrittori dovevano descrivere nelle loro opere la realtà così com’era, anche gli aspetti crudi, brutti e negativi; ritenevano loro dovere paragonarsi agli studiosi di anatomia, che nei loro laboratori sezionavano i corpi umani e ne descrivevano minuziosamente tutte le componenti. Altro elemento tipico era l’Impersonalità dell’Arte; l’autore doveva semplicemente limitarsi a descrivere in maniera fredda e distaccata la società senza apportarvi alcun intervento personale (commento, giudizio, compartecipazione), doveva scomparire dietro i personaggi e le loro vicende. Emile Zola fu l’esponente più importante e il teorico del movimento. In un famoso saggio del 1880 “Il Romanzo Sperimentale”, teorizzò l’applicazione rigorosa del metodo scientifico-sperimentale anche alla letteratura. U.D 2 IL VERISMO ITALIANO Nella letteratura italiana, parallelamente al Naturalismo francese, negli anni fra il 1870 ed il 1890 si affermò il Verismo. Il maggiore centro di diffusione fu Milano, e gli scrittori più importanti del Verismo furono: Giovanni Verga, Luigi Capuana, Federico de Roberto. Luigi Capuana (1839-1915) fu il più autorevole teorico della corrente letteraria; nativo della Sicilia come il Verga, collaborò a riviste e giornali nelle città di Milano, Firenze e Roma. Autore di novelle, romanzi e saggi, formulò una nuova funzione della letteratura che consisteva nello studio e nella rappresentazione della realtà sociale in cui l’uomo viveva ed operava. I veristi tuttavia, si distinsero per alcuni aspetti dai naturalisti, che pretendevano un’oggettività assoluta della narrazione. Al contrario negli scrittori veristi, il distacco totale dello scrittore dalle vicende da lui narrate non poteva essere totale. Tra l’altro, la piena fiducia nel progresso scientifico e il convincimento di un miglioramento continuo della società, di impronta naturalista e positivista, nel Verismo venivano meno, soprattutto nel Verga. Gli scrittori italiani, di origine sia napoletana che siciliana, infatti, mettevano al centro dei loro romanzi le difficili condizioni di vita delle regioni meridionali di fine ottocento e gli stenti e le fatiche dei contadini e delle classi sociali più emarginate. I caratteri essenziali della poetica del Verismo sono: L’IMPERSONALITA’ DELL’ARTE: l’autore doveva rimanere estraneo alla vicenda narrata IL REALISMO: gli scrittori dovevano fare un ritratto veritiero degli ambienti campagnoli e provinciali dei miseri e degli umili DIALETTALITA’ DELL’ESPRESSIONE: gli autori veristi, per rendere il più possibile realistica la narrazione, utilizzavano un linguaggio di tipo popolare e usavano espressioni e termini dialettali LA LETTERATURA COME STRUMENTO DI DENUNCIA: con le loro opere i veristi volevano denunciare lo stato di miseria del Mezzogiorno di fine secolo, che, disperato, invocava inutilmente riforme e leggi. Il Governo restava indifferente ai suoi bisogni. Le regioni maggiormente esaminate furono la Sicilia, la Sardegna e la città di Napoli. U.D.3 GIOVANNI VERGA:LA VITA, LE IDEE E LA POETICA LA VITA E LE OPERE Egli nacque a Catania il 2 settembre 1840 da Giovan Battista Verga Catalano di nobile famiglia e da Caterina Mauro di famiglia borghese originaria di Vizzini, piccolo paese siciliano. Finiti gli studi liceali si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza, che frequentò con scarso profitto.Negli anni 185455, la famiglia, durante il colera che infuriava a Vizzini, si trasferì e visse nelle campagne di quella zona; il Verga in questo modo ebbe modo di osservare da vicino la vita degli umili contadini, con i quali ebbe frequenti contatti e che diventarono in seguito i principali personaggi dei suoi romanzi. Nel 1863 morì il padre e dopo due anni il Verga lasciò la Sicilia per recarsi a Firenze, allora capitale del Regno d’Italia e, quindi, il centro delle maggiori attrazioni politiche, culturali, mondane. Le frequenti visite e i lunghi soggiorni successivi in Firenze furono per il Verga l’occasione per un contatto generico con la lingua toscana. Dal 1869 al 1872 egli visse stabilmente a Firenze; nel 1872 si trasferì a Milano, dove, con intervalli catanesi più o meno lunghi, soggiornò per molti anni. Frequentò, nella capitale lombarda, i salotti mondani e culturali più importanti e strinse amicizia con lo scrittore verista, anche lui siciliano, Luigi Capuana. A partire dagli anni ottanta iniziò la grande stagione letteraria dello scrittore che compose le sue principali opere, tra novelle e romanzi. Dal 1889 il Verga ritornò ad abitare nella sua Catania, dove viveva stabilmente, anche se non mancarono viaggi e soggiorni a Milano e a Roma. Dal 1903 iniziò il periodo del silenzio del letterato, e solo nel 1920 avvenne il riconoscimento ufficiale della grandezza del Verga scrittore e celebrazioni in suo onore furono tenute a Roma e a Catania. Nell’ottobre dello stesso anno venne nominato Senatore del Regno. Lo scrittore morì, colpito improvvisamente da trombosi, il 27 gennaio 1922. LE OPERE Possiamo suddividere le opere del Verga in: -ROMANZI STORICI, appartenenti alla sua prima attività di scrittore ( I CARBONARI DELLA MONTAGNA 1859-1861 ecc…). -ROMANZI DI TIPO DRAMMATICO, SENTIMENTALE E PASSIONALE, ambientati in ceti sociali aristocratici e composti durante i suoi soggiorni a Firenze e a Milano (STORIA DI UNA CAPINERA 1871; TIGRE REALE 1873 ecc…) -LA NOVELLA “ NEDDA” 1874, importantissima perché rappresenta la sua prima opera verista; infatti la protagonista non appartiene più al ceto nobiliare, ma è una povera raccoglitrice di olive, e l’ambiente entro cui si svolge la vicenda è quello rurale e non aristocratico -ROMANZI VERISTI (I MALAVOGLIA 1881; MASTRO DON GESUALDO 1889). I due romanzi, insieme ad altri tre, avrebbero dovuto far parte del cosìdetto “Ciclo dei vinti”, un progetto che il Verga lasciò incompiuto. -LE RACCOLTE DI NOVELLE (VITA DEI CAMPI 1880; NOVELLE RUSTICANE 1883). IDEE E POETICA (TECNICA NARRATIVA E IDEOLOGIA VERGHIANA) Giovanni Verga è stato essenzialmente un romanziere, e la sua formazione non è avvenuta sui classici. Lo scrittore catanese si interessa allo studio dei grandi romanzieri contemporanei, soprattutto francesi, e legge con interesse le opere di Zola e di Flaubert, da cui acquisisce quella tecnica narrativa di rappresentazione del vero che adopera anche per i suoi romanzi. Il proposito della narrazione è di documentare la vita di stenti, senza possibilità di riscatto, del mondo contadino siciliano. Per aderire al “vero”, il Verga considera quanto mai valido il criterio che è a fondamento del Naturalismo francese, L’ IMPERSONALITA’ DELLA NARRAZIONE. Lo scrittore scompare dietro le vicende e i personaggi, eliminando qualsiasi forma di soggettivismo, in modo che la narrazione sembra farsi da sé. Nelle sue opere effettivamente l’autore si eclissa, si nasconde dietro i personaggi, si cala nella pelle dei personaggi, vede le cose con i loro occhi e le esprime con le loro parole, . Il punto di vista dello scrittore apparentemente non si avverte mai, è come se a raccontare fossero i personaggi stessi. Egli sente una pena infinita per la sofferenza materiale e morale dei suoi personaggi, per i quali non riesce nemmeno a suggerire un rimedio. Il Verga, nei Malavoglia, in Mastro don Gesualdo e nelle novelle, rappresenta ambienti popolari e rurali e mette in scena personaggi incolti e primitivi, contadini, pescatori, minatori, la cui visione e il cui linguaggio sono ben diversi da quelli dello scrittore borghese. Costoro vivono in una parte dell’Italia, quella meridionale, ancora arretrata ed arcaica, ferma ed immobile. Al contrario, in diverse aree del nord si verifica un forte sviluppo industriale e una trasformazione graduale del resto del nostro Paese, da agricolo e arcaico a industriale e moderno. Verga apre agli italiani lo scenario di un sud depresso e abbandonato, mette il dito nella piaga della Questione Meridionale che fino a quel momento era stata affrontata da un ristretto gruppo di intellettuali e politici, senza tradursi in presa di coscienza collettiva e concreta azione politica da parte del Governo. Al fondo della visione del Verga sta un giudizio radicalmente negativo sulla società umana e in forte contrapposizione a quanto invece affermava il Positivismo. Esso, sulla base dell’ascesa della borghesia, dello sviluppo industriale e della scienza e della tecnica dell’Europa, crede nel progresso, cioè in una possibilità illimitata di miglioramento della società. Lo scrittore siciliano invece afferma che la società non è egualitaria, ma suddivisa tra gruppi forti e gruppi deboli. Vi è all’interno di essa una lotta feroce tra individui o gruppi, che si combattono per la sopravvivenza ed il cui prezzo viene pagato dai più deboli, che non avendo gli strumenti per lottare, diventano vittime del sistema e vengono inesorabilmente sconfitti ed eliminati. I personaggi del Verga sono i VINTI , per i quali la vita, impossibile da cambiare, è soprattutto sopravvivenza, dolore, sofferenza, alla quale è impossibile sottrarsi. La realtà della vita per lo scrittore è immutabile e bisogna accettarla così come è, anche se con dolore. I protagonisti delle sue opere dunque accettano con rassegnazione il loro triste destino e non vi si ribellano. Questo quadro desolato del vivere sociale per Verga, però, non è limitato al mondo presente, nella sua visione il meccanismo delle sopraffazioni e delle sofferenze è una legge di natura, che governa qualsiasi società, in ogni tempo e in ogni luogo. IL LINGUAGGIO. La scelta verista impone al Verga d’adeguare il linguaggio alla materia della narrazione, per questo adotta sì una lingua italiana, ma modellata sul parlato, sulla lingua quotidiana. E’ questo “Lo Stile Indiretto Libero”. Il linguaggio è spoglio e povero, punteggiato di modi di dire, paragoni, proverbi, imprecazioni, popolari. La sintassi è elementare e talora scorretta, in cui traspare chiaramente la struttura dialettale (anche se Verga non usa mai direttamente il dialetto, ma sempre e solo il lessico italiano, tanto che se deve citare un termine dialettale, lo isola mediante il corsivo). NEDDA 1874 Si tratta, per l’ambientazione tra i contadini siciliani, di una novella rusticana, che segna, come è stato già detto, l’ approdo di Verga al Verismo. La protagonista è Nedda, una povera raccoglitrice di ulive che, sedotta da un contadino, Janu, mette al mondo una bambina dopo che lui è morto, caduto da un’alta cima ed indebolito dalla malaria, senza aver potuto realizzare l’intenzione di sposarla. La donna, abbandonata da tutti, vede la sua creaturina morire per gli stenti. Nedda, protagonista di un amore che si conclude drammaticamente, appare già come una vinta dalla società Con NEDDA Verga abbandona i personaggi aristocratici e borghesi e le loro artificiose passioni dei suoi romanzi precedenti; il suo è un ripudio aperto e radicale della vita elegante e salottiera, che ora gli appare nella sua vuota e sterile inerzia, e lo fa per descrivere in questo racconto il mondo degli umili, dei diseredati e degli oppressi . Nella narrazione, impersonale e oggettiva, non vi sono interventi e commenti personali e si adottano immagini, vocaboli, frasi e strutture sintattiche adeguati alla realtà di quei nuovi personaggi ROSSO MALPELO Pubblicata nel 1880 nella raccolta VITA DEI CAMPI. Rosso Malpelo è un ragazzaccio dai capelli rossi e gli occhi grigi che lavora in una cava di sabbia della Sicilia. Precocemente indurito dai rigori della vita e dall’atrocità della sua condizione di sfruttato, appare cinico e spietato, senza sentimenti, simile alle bestie. Egli è soprannominato “Malpelo” perché, secondo la credenza popolare, i rossi di capelli come lui sono maliziosi e cattivi. In realtà il ragazzo, abbruttito dalla miseria e maltrattato da tutti, perfino dalla madre e dalla sorella, a cui ogni sabato tornando a casa consegna la misera paga, ha a suo modo, nella primitività del suo modo di sentire, degli affetti e dei sentimenti. Innanzi tutto conserva il ricordo del padre, Mastro Misciu, sfruttato sul lavoro e morto seppellito dal crollo di un pilastro di rena. Durante il lavoro, il fanciullo è coperto di stracci e, avvezzo al freddo e alla fame, è invidioso di quanti, più fortunati, possono fare il manovale o il carrettiere. Il ricordo dei maltrattamenti e dei soprusi che aveva subito il padre e la sua morte crudele nella cava ispirano a Rosso malpelo un’avversione che viene sfogata maltrattando e picchiando un povero ragazzetto. Questi, per una lussazione del femore, è costretto a trascinare la gamba ed è chiamato perciò “Ranocchio”, maledetto anche dalla madre per essere troppo debole e malaticcio. Il rapporto, in apparenza violento, con Ranocchio, è un modo per volergli bene, dato che l’unico linguaggio che Rosso Malpelo conosce è quello delle busse. Quando il povero ragazzo, ammalatosi, muore, a Rosso Malpelo non importa più nulla della vita. D’altronde non ha più nessuno, sua madre si è risposata e se n’è andata a vivere in un altro paese, così come la sorella. Da quel momento, nella cava, al ragazzo affidano i lavori più pericolosi, tanto che, quando si tratta di effettuare un’esplorazione rischiosa in una galleria della miniera, impresa a cui nessuno vuole partecipare, viene mandato proprio lui e da quel momento si perdono le sue tracce. Il distacco oggettivo con cui Verga racconta la storia di Malpelo è ben diverso dall’impassibilità scientifica predicata dai teorici del Naturalismo di fronte al suo personaggio. Lo scrittore, pur senza dimenticare il suo programma di narratore esterno e estraneo ai fatti, non può non commuoversi e non esprimere amaramente la sua profonda simpatia per gli umili come Malpelo, la cui stessa sofferenza rende eroici e in qualche modo sacri, anche se, come Malpelo, sono stati disumanizzati e resi malvagi, cinici e violenti dalle circostanze della vita. All’interno del racconto la sintassi è semplice e a volte scorretta, numerose le espressioni dialettali. I MALAVOGLIA In questo romanzo, pubblicato nel 1881, il Verga narra la storia di una famiglia di pescatori, i Toscano, detti i Malavoglia per il costume degli abitanti dei piccoli centri di indicarsi reciprocamente attraverso dei soprannomi. La famiglia, che vive ad Aci Trezza, piccolo borgo marinaro, sito nella costa orientale della Sicilia, si compone del vecchio padron’Ntoni, del figlio di questi Bastianazzo, della nuora Maruzza, e dei nipoti ‘Ntoni, Luca, Mena, Alessi, Lia. Il loro patrimonio è costituito dalla casa del “Nespolo”, e da una barca, la “Provvidenza”. La loro vita è fatta di stenti, di sacrifici e di impegni. L’unica loro risorsa è rappresentata dalla attività marinaresca. La famiglia subisce, però, la perdita di due braccia da lavoro, quando il giovane ‘Ntoni viene chiamato a prestare servizio militare. I Malavoglia, nella speranza di poter vivere meglio, tentano la via del commercio. Acquistano una partita di lupini, facendosi prestare i soldi da un usuraio, zio Crocifisso. Ma la Provvidenza, che doveva trasportare il carico, naufraga e Bastianazzo muore in mare. Dolore e miseria piombano nella casa. Gli abitanti seguono le vicende della famiglia Malavoglia con un’attenzione particolare, suscitata o dalla curiosità o dalla compassione o dall’egoismo (ecco perché il romanzo è detto corale). Le disgrazie continuano; il nipote Luca, arruolato in marina, e la nuora Maruzza muoiono e la casa del Nespolo deve essere venduta perché i Malavoglia sono pieni di debiti. Ritorna dal servizio militare il giovane ‘Ntoni, che non vuole più vivere di stenti e di miseria, sogna l’agiatezza, si dà al contrabbando e, scoperto, viene incarcerato. Lia , giovane e bella, fugge di casa per andare in città e si abbandona a una vita corrotta, mentre Padron ‘Ntoni, distrutto dal dolore e dal male, muore in ospedale. Solo Alessi, ultimo della famiglia, con un impegno esemplare, lavora per ricomprare la casa del Nespolo, sposa una compaesana e riacquista la casa. Nel romanzo il Verga ha voluto rappresentare l’epica della povera gente che, avendo scoperto che si potrebbe star meglio, tenta, a prezzo di durissimi sacrifici, di conseguire un po’ di benessere. Ma, come una fatalità, si abbatte la disgrazia sui Malavoglia, e la speranza di un affare (l’acquisto di una partita di lupini da rivendere) che li allontani dalla miseria, si ribalta in una sventura. Intorno ai Malavoglia si muove il mondo, fatto di tanti piccoli egoismi e meschinità, degli abitanti di Acitrezza, che osservano e commentano le disgrazie della sfortunata famiglia di pescatori, ma restando sostanzialmente indifferenti. Due personaggi della famiglia si offrono all’attenzione del lettore a rappresentare, con i loro due opposti modi di vedere, la vita: Padron ‘Ntoni ed il giovane ‘Ntoni. Il vecchio crede nei valori tradizionali, a cominciare dalla famiglia ed è depositario dell’antica saggezza popolare; il giovane è mosso dall’insoddisfazione per la vita di stenti che si conduce nella sua famiglia e che lo fa allontanare dalla casa paterna, provocando la sua rovina. La famiglia resta però l’unica forza per i deboli, e quando l’ambizione, il desiderio di far fortuna porta alcuni dei Malavoglia lontano dalla casa del Nespolo, essi, sradicatisi, vanno irrimediabilmente incontro alla sconfitta. Ne consegue, in questo romanzo, una prospettiva dominata da un senso di secolare immobilità e di sconfitta, qui la secolare arretratezza del mondo meridionale e contadino dà la convinzione che lì nulla possa mutare e che ogni tentativo sia destinato solo a liquidare quel mondo, a travolgerne e spazzarne via cultura, affetti e valori. MASTRO DON GESUALDO Il romanzo, pubblicato nel 1889, narra la vicenda di un contadino siciliano, Gesualdo Motta, arricchito attraverso fatiche, pene e sacrifici. Egli è dedito completamente al culto del lavoro per il desiderio irrefrenabile di elevazione sociale e di possedere sempre più roba, anche per un puntiglioso rivalersi sulla casta dei nobili del suo paese. Giunto al massimo delle ricchezze, quando gli stessi nobili sono costretti a ricevere da lui grossi prestiti, stanco dei familiari che vogliono campare sulle sue spalle, don Gesualdo sposa Bianca Trao, con la speranza di godere nella sua casa tutto il conforto di un affetto sicuro. Ma la donna non lo ama ed ha inizio per i due la vera infelicità, anche perché la loro unica figlia, Isabella, dai modi aristocratici, non sente assolutamente affetto per don Gesualdo, che pure non risparmia per lei spese. La fa educare in un collegio femminile per ceti elevati e vorrebbe che si sposasse con un nobile. Isabella ama appassionatamente però un suo parente povero ed è costretta dal padre alle nozze con il duca di Leyra, palermitano e poco affidabile. Bianca muore, il protagonista si ammala e, mentre il suo denaro, accumulato con il lavoro di tanti anni, viene dissipato, chiuso in una stanzetta dell’ultimo piano del fastoso palazzo del genero, tra l’indifferenza dei servi e della stessa Isabella, muore logorato dal male, ma non senza accorgersi prima dell’inutilità delle ricchezze accumulate. Il Verga interpretando la concezione e il costume della gente della sua terra, eleva a culto l’attaccamento che i siciliani hanno per la “ROBA”, gli averi cioè, e le ricchezze. Il mito della “ROBA” costringe però ad una desolata solitudine e all’inaridimento di ogni affetto chi ne resta abbagliato. L’eroe della roba è Mastro don Gesualdo,un accumulatore ossessionato dal pensiero della roba, dall’amore per i beni materiali. Tuttavia l’ossessione per i beni materiali lo condanna ad un’inevitabile solitudine, sgancatosi dal mondo delle plebi, diventato ricco, egli tenta il salto nella classe dominante, la nobiltà, me è considerato un intruso, ne viene escluso, respinto dalla moglie e tenuto a distanza anche dalla figlia che si vergogna di lui. Gesualdo Motta è un eroe drammatico perché, quando giunge al vertice della sua situazione di benessere economico, deve constatare che è circondato da un’immensa miseria morale, da un egoismo e un’indifferenza senza pari, che lo tormenta e lo consuma più del tumore che lo farà morire, dopo aver assistito allo sfacelo di quel mondo, che egli aveva costruito giorno per giorno, con un impegno e una costanza totale. Nel primo romanzo, I MALAVOGLIA, la grande illusione era stata quella di evadere dalla vita di stenti per approdare al benessere economico, nel secondo romanzo il protagonista è un popolano, cioè uno di quell’umile mondo a cui appartenevano i Malavoglia, che però ce l’ha fatta a raggiungere la floridezza economica. Tuttavia si ritrova sconfitto sul piano degli affetti e dei sentimenti. Al mito consolatore della casa dei Malavoglia succede, in questo romanzo, il mito illusorio e faticoso della roba.