G. Verga nacque a Catania nel 1840 e vi morì nel 1922. Dopo aver

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G. Verga nacque a Catania nel 1840 e vi morì nel 1922. Dopo aver
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VITA E OPERE
G. Verga nacque a Catania nel 1840 e vi morì nel 1922. Dopo aver trascorso la prima giovinezza in Sicilia,
nel 1865 si trasferì a Firenze, dove strinse amicizia con lo scrittore Luigi Capuana, che è il teorico del Verismo (cioè colui che ha fatto conoscere ai letterati del suo tempo le teorie veriste) e dove scrisse le sue prime opere tardo romantiche (Una peccatrice, Storia di una capinera). Nel 1872 si recò a Milano, dove rimase fino al 1893 e dove cominciò a elaborare le sue idee sul Verismo. Scrisse ancora alcuni romanzi tardoromantici (Eva, Tigre reale, Eros), poi (nel 1874) con il racconto Nedda, ci fu il passaggio definitivo al Verismo. Tra le maggiori opere veriste ricordiamo le Novelle, I Malavoglia e Mastro don Gesualdo. L’attività letteraria del Verga si chiude nel 1905 con il romanzo Dal tuo al mio, nel quale vengono rappresentati i conflitti di classe.
CONTENUTI E TECNICHE NARRATIVE NELL’OPERA VERGHIANA
Chi sono i protagonisti delle opere del Verga? Sono gli umili, la povera gente della sua Sicilia. Già il Manzoni (con I promessi sposi) aveva fatto entrare nell’arte (cioè nel romanzo) gli umili, i popolani, chiamati a
combattere contro una società ingiusta e prepotente. La battaglia che essi devono sostenere è dura, ma alla fine è vittoriosa e le difficoltà, con l’aiuto della fede, sono superate. Per il Verga il discorso è diverso. Gli
umili, che hanno moltissimo spazio nelle sue opere, appartengono a uno strato sociale ancora più basso rispetto a quello dei Promessi sposi e la lotta che essi sostengono, instancabile e durissima, è la lotta per i
bisogni materiali elementari, per non lasciarsi vincere dalla miseria o per tentare di uscirne. Ciò che cercano di ottenere è solo un tozzo di pane. Ma (è questa l’altra grande differenza rispetto ai personaggi manzoniani) essi non hanno speranza per il futuro: sono - e resteranno sempre - dei VINTI, cioè persone schiacciate dalla vita, dal destino, da una necessità invincibile e implacabile. La cieca legge che li opprime è quella della miseria, dalla quale tentano di uscire, ma alla quale restano inchiodati. Anche il paesaggio in cui
questi personaggi si muovono è ostile: è un paesaggio tipicamente siciliano, polveroso, bruciato dal sole e
dalla lava, avaro di frutti, spesso malsano (sono molti i luoghi infestati dalla malaria).
Il fallimento del tentativo degli umili di elevarsi economicamente e socialmente genera in Verga un profondo pessimismo: egli prende amaramente atto che questa condizione è determinata dall’atteggiamento della classe dominante (la borghesia), preoccupata di proteggere ad ogni costo i vantaggi che l’ascesa al potere le ha procurato. Nonostante, però, il destino avverso, i fallimenti e le delusioni della vita, i personaggi
verghiani non rinunciano mai alla lotta: anche se questa è senza speranza, essi l’affrontano con coraggio e
dignità, cercando di opporsi alla miseria con il lavoro quotidiano, tenace, disperato, silenzioso, sforzandosi
di resistere alle avversità della vita con le loro povere, primitive forze finché avranno fiato.
Il motivo del fallimento è dominante nelle opere del cosiddetto CICLO DEI VINTI, una serie di 5 romanzi dedicati a quelle persone che tentano di migliorare la propria posizione sociale, ma sono costantemente sopraffatte da un crudele destino cui non possono sottrarsi. Di questi 5 romanzi (I Malavoglia, Mastro don
Gesualdo, La duchessa di Leyra, L’onorevole Scipioni, L’uomo di lusso), il Verga scrisse solo i primi due: I
Malavoglia e Mastro don Gesualdo. Sia i Malavoglia, sia Gesualdo tentano di cambiare la propria vita: i
primi vogliono trasformarsi da poveri pescatori in commercianti; il secondo, da muratore (mastro) vuole trasformarsi in signore (don) e tenta, perciò, la scalata sociale. Ma a tutti costoro le cose non vanno nella direzione sperata: non riusciranno a essere quello che volevano essere (i Malavoglia), né a godere appieno il
successo che sembrano aver raggiunto (mastro don Gesualdo).
Anche i personaggi degli altri 3 romanzi sono dei "vinti", cioè dei "perdenti": sono (o meglio, avrebbero dovuto esserlo) la duchessa di Leyra, che tenta la scalata alla nobiltà; l’onorevole Scipioni, che tenta la scalata al mondo della politica; l’uomo di lusso, che tenta di entrare nell’ambiente dell’alta finanza.
Nelle sue opere il Verga sperimenta tecniche narrative nuove. Mentre il Manzoni nei Promessi sposi racconta e descrive moltissimo, introducendo spesso commenti e riflessioni personali (1), il Verga evita di intervenire nella narrazione, di descrivere personalmente un personaggio, una situazione, un ambiente, ma lascia il più possibile spazio ai dialoghi, dai quali scaturisce la storia e il carattere dei personaggi. Il Verga,
cioè, in piena adesione ai princìpi del Verismo, vuole che la realtà compaia nell’opera indipendentemente
dai suoi giudizi; giudizi che egli si astiene dall’esprimere per non aggiungere niente di personale alla realtà
dei fatti.
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(1) Per esempio: quando ci presenta per la prima volta il personaggio di don Abbondio, Manzoni ci fa subito sapere qual è
l’opinione che ha di questo prete un po’ particolare, dicendo che era «come un vaso di terracotta costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro.
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Egli, in sostanza, vuole essere come il fotografo, che si limita a registrare ciò che vede, così com’è, senza
aggiungere e senza togliere nulla. Questo modo di scrivere o stile è detto impersonale.
Un’altra innovazione introdotta dal Verga riguarda la lingua. Quella verghiana è una lingua che non pos−
siamo definire né dialetto, né italiano: è un dialetto siciliano quasi tradotto, che del dialetto mantiene determinate strutture grammaticali e sintattiche e certi modi di dire. Tipici del linguaggio popolare, per es., sono i
proverbi, che il Verga mette numerosi in bocca ai suoi personaggi («Chi cambia la vecchia per la nuova,
peggio si trova»; «La forca è fatta per il disgraziato»; «A donna alla finestra non far festa», ecc.). Della lingua popolare sono riprodotti anche gli errori di sintassi: ad es.: «Questa è un’ingiustizia di Dio, che dopo
essersi logorata la vita ad acquistare della roba (che = perché → valore causale), quando arrivate ad averla, che ne vorreste ancora (che = cosicché → ha valore consecutivo), dovete lasciarla!» (da: La roba); oppure: «Padron ‘Ntoni invece non lo conosceva neanche di vista Franceschiello (il pronome lo è superfluo, è
una ripetizione)» (da: I Malavoglia, cap. I).
Quella del Verga è anche un lingua colorita, nella quale sopravvive perfino il gesto: per es.: «Aveva visto
una cassa grande così sotto il letto (nell'avverbio così è racchiusa la gestualità compiuta da chi sta parlando)» (da: I Malavoglia, cap.II).
Per essere il più possibile impersonale, il Verga fa anche ricorso a un’altra tecnica narrativa, che è tutta sua
particolare: quella del discorso indiretto libero. Di che cosa si tratta? È un discorso indiretto liberato da
alcuni elementi sintattici tipici del discorso indiretto tradizionale. Per capire meglio, ecco alcuni esempi:
«E la famigliuola di padron ‘Ntoni era realmente disposta come le dita della mano. Prima veniva lui, il dito
grosso […]; poi suo figlio Bastiano, «Bastianazzo», perché era grande e grosso […]. Poi veniva la Longa,
una piccina che badava a tessere, salare le acciughe, e far figlioli, da buona massaia; infine i nipoti, in ordine di anzianità: ‘Ntoni […]; Luca […]; Mena (Filomena) […]; Alessi (Alessio), un moccioso tutto suo nonno
colui! e Lia (Rosalia) ancora né carne né pesce» (da: I Malavoglia, cap. I)
DISCORSO INDIRETTO TRADIZIONALE
- La gente diceva che era un moccioso tutto suo nonno colui!
La gente diceva che non era ancora né carne né pesce.
DISCORSO INDIRETTO LIBERO
- La gente diceva che era un moccioso tutto suo nonno colui!
La gente diceva che non era ancora né carne né pesce.
«Ed anche la roba era fatta per lui, che pareva ci avesse la calamita, perché la roba vuol stare con chi sa
tenerla, e non la sciupa come quel barone che prima era stato il padrone di Mazzarò». (da: La roba)
DISCORSO INDIRETTO TRADIZIONALE
DISCORSO INDIRETTO LIBERO
- La gente diceva che la roba vuol stare con chi sa tenerla, e non la
sciupa.
- La gente diceva che la roba vuol stare con chi sa tenerla, e non la sciupa.
«Dacché poi fu trovata quella scarpa, Malpelo fu colto da tal paura di veder comparire tra la rena anche il
piede nudo del babbo, che non volle mai più darvi un colpo di zappa; gliela dessero a lui sul capo, la zappa.» (da: Rosso Malpelo)
DISCORSO INDIRETTO TRADIZIONALE
DISCORSO INDIRETTO LIBERO
- Malpelo diceva che gliela dessero a lui sul capo, la zappa.
- Malpelo diceva che gliela dessero a lui sul capo, la zappa.
Il discorso indiretto libero, come si vede dagli esempi, riporta pari pari le parole o il pensiero dei personaggi
senza indicare espressamente chi è che parla o esprime quel pensiero: lo si capisce solo dal contesto. Il
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Verga usa spesso questa tecnica, perché non vuole intervenire nel racconto nemmeno per indicare chi è il
personaggio che parla: lascia che sia il lettore a scoprirlo, appunto leggendo.
Il Verga non è stato il primo a usare la lingua in modo nuovo: ci aveva già pensato il Manzoni, il quale – nel
pieno rispetto del principio dell’utilità dell’opera d’arte – volle che la sua opera d’arte, I Promessi sposi, fosse compresa da tutti e perciò creò una lingua semplice, accessibile a chiunque. Gli sforzi del Manzoni non
furono rivolti a trovare l’espressione più bella, ma la più semplice, quella che meglio aderiva alla parlata
comune: perciò abolì le parole antiquate o troppo difficili e le forme dialettali, sforzandosi di creare, attraverso l’uso del fiorentino, una lingua di tutti e per tutti. Ma non sempre il Manzoni rimase fedele, nell’usare
la lingua, al principio, che tanto gli stava a cuore, dell’aderenza alla realtà, al VERO (come diceva lui). Così,
quando (nei Promessi sposi) fa parlare i suoi personaggi, non li fa esprimere come generalmente si esprimevano i popolani lombardi (il romanzo, infatti, è ambientato in Lombardia), ma in un bell’italiano, semplice
sì, ma corretto e pulito, che risente della parlata fiorentina. Inoltre, nel famosissimo episodio dell’ "Addio ai
monti" (I Promessi sposi, cap. VIII), i pensieri che passano per la testa di Lucia mentre, con la barca, si allontana dal paese natale, sono espressi in una forma così bella, elegante e poetica, che è difficile credere
che una povera contadina ignorante arrivasse a tanto. I pensieri erano sicuramente quelli di Lucia, ma il
modo in cui sono espressi è di Manzoni. Una cosa così il Verga non l’avrebbe fatta. E infatti non la fa. Anche nei Malavoglia c’è un "addio" (quello del giovane ‘Ntoni a suo fratello e al paese natale), ma è completamente diverso, per stile, da quello manzoniano.
C’è anche un’altra differenza tra Manzoni e Verga: entrambi hanno per oggetto delle loro opere il VERO,
ma, mentre nei Promessi sposi è evidente lo scopo ideologico (religioso, morale e politico) che sostiene tutta la narrazione, nei romanzi verghiani non c’è alcuno scopo: lo scrittore ha scritto semplicemente per il puro gusto di raccontare e di riprodurre la realtà il più fedelmente possibile.
I MALAVOGLIA
È la storia della famiglia Toscano, soprannominata Malavoglia (il soprannome serve a mettere in evidenza,
per contrapposizione, la laboriosità di questa gente). Fino al momento in cui inizia il romanzo i Malavoglia,
erano vissuti poveramente, ma in grado di soddisfare i propri bisogni essenziali: possedevano una casa (la
casa del nespolo) e una barca per la pesca (la "Provvidenza").
Il capofamiglia è padron 'Ntoni, il nonno; con lui vivono il figlio Bastiano, detto Bastianazzo per la sua
corporatura robusta, la nuora Maruzza (moglie di Bastianazzo), detta la Longa (il soprannome, per contrapposizione, sottolinea la bassa statura della donna) e i 5 figli della coppia: 'Ntoni, Luca, Alessi (Alessio), Mena (Filomena) e Lia (Rosalia).
Quando il nipote maggiore, 'Ntoni, parte per il servizio militare, padron 'Ntoni acquista a credito una partita
di lupini e la carica sulla "Provvidenza" per andarla a vendere in un paese vicino. La barca naufraga, Bastianazzo, che era a bordo, annega e i lupini vanno perduti. Il debito contratto dai Malavoglia con chi ha
venduto loro i lupini a credito inghiotte a poco a poco le loro sostanze, compresa la casa del nespolo, perché la pesca (che hanno ripreso a praticare con la "Provvidenza" recuperata e riparata alla meglio) non
rende più. Anche la famiglia si sgretola: Maruzza muore di colera; Lia abbandona i familiari e il paese e finisce nella malavita; il giovane 'Ntoni, insofferente di quella misera esistenza, beve, si dà al contrabbando e
alla fine viene rinchiuso in carcere; Luca è chiamato alle armi e muore nella battaglia di Lissa (1866); il
vecchio 'Ntoni, sopraffatto dalle tristi vicende familiari, muore di dolore, senza nemmeno la consolazione di
rivedere la casa del nespolo, riscattata da Alessi, il quale è tornato a vivervi con Mena, la sorella rimastagli
e destinata a non maritarsi. Quando, alla fine, il giovane 'Ntoni, scontata la galera, torna a casa, si accorge
di non potervi restare: niente più lo lega al suo paese, i valori antichi di quel mondo, da cui si è autoescluso, non possono più essere i suoi; non gli resta che ripartire.
I Malavoglia sono il romanzo dello scontro tra la civiltà moderna, nata dall’unità d’Italia, e quella contadina,
fondata sulla figura del patriarca (v. padron ‘Ntoni) e sull’attaccamento a poche, semplici cose: la casa di
famiglia (v. la casa del nespolo), la barca (v. la "Provvidenza"), le viuzze del paese (Aci Trezza), i proverbi
(che contengono una saggezza antica messa in discussione dalla nuova civiltà). Da questo scontro l’antica
civiltà e i suoi ideali escono sconfitti.
Divisa nei suoi membri dalla voglia di migliorare la propria condizione economica e sociale, la famiglia Malavoglia allenta i legami con il mondo del passato dal quale proviene e cerca di entrare a far parte della civiltà moderna per assaporarne i piaceri e le comodità, ma il mondo moderno ha le sue leggi, terribili, e chi
non ha le unghie affilate, chi non è preparato alla lotta, è destinato inevitabilmente a soccombere. È questa
la drammatica fine dei Malavoglia.
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Non c’è dunque speranza per la povera gente? La conclusione, alquanto amara, è che per "salvarsi" occorre rimanere legati a quel poco che si ha, non rinnegare quello che si è sempre stati, non abbandonare la
propria famiglia, non desiderare di migliorare la propria sorte. Insomma, occorre mettere in pratica l’ "ideale
dell’ostrica" prospettato dal Verga in una sua novella (Fantasticheria): come le ostriche, bisogna rimanere
saldamente ancorati allo stesso scoglio; solo così è possibile salvarsi dai pericoli della vita.
MASTRO DON GESUALDO
È la storia di Gesualdo Motta, un manovale arricchito di Vizzini, che, desideroso di entrare a far parte della
buona società, sposa Bianca Trao, una nobile decaduta. Bianca, però, non ama Gesualdo: se lo ha sposato, è solo per ragioni economiche. Anche la nobiltà è ostile a quest’uomo a causa delle sue umili origini.
Mastro don Gesualdo, per quanto possa sembrare un vincente (infatti si è arricchito ed è riuscito perfino
a conquistarsi un titolo nobiliare diventando "don"), è, invece, un fallito, un VINTO, un uomo che ha perduto
su tutti i fronti nella sua vita: è un uomo che l’amore per la roba ha condannato alla solitudine, appena addolcita dalla vicinanza della fedele serva Diodata. Tutti lo sfuggono: i nobili, perché non vogliono contaminare i loro stemmi dorati con la giacca dell’antico muratore; i servi, gli umili, quelli del suo stesso ceto
d’origine, perché, ribellandosi alla sua condizione, Gesualdo ha tradito la sua gente, ha disprezzato la sua
origine e i valori in cui è stato allevato.
Significative, a questo proposito, sono le ultime pagine del romanzo, dedicate alla morte di Gesualdo. La
servitù non mostra il benché minimo rispetto per il padrone, ne disattende le richieste (in punto di morte
Gesualdo chiede di poter vedere la figlia, ma la sua richiesta non viene inoltrata) e si lascia andare a commenti e pettegolezzi irriverenti. Brutale è, infine, la battuta che chiude il romanzo: è mattina presto, Gesualdo è appena deceduto e al portinaio che chiede se è il caso di chiudere il portone del palazzo (in segno di
lutto) il domestico, cui è toccato il «regalo» di assistere all’agonia del padrone, risponde: «Sicuro, eh! È roba di famiglia. Adesso bisogna avvertire la cameriera della signora duchessa.» Per quelli del suo ceto di origine Gesualdo non merita rispetto neanche da morto: la morte di uno che ha i calli alle mani («Si vede
com’era nato… Guardate che mani!» commenta il cocchiere), ma che ha avuto la fortuna di arricchirsi e di
far la vita del gran signore, al pari di quelli che "signori" lo sono veramente, per nascita, non merita il disturbo della signora duchessa, la figlia di Gesualdo, che sta ancora riposando; è sufficiente informare la sua
cameriera la quale, quando la padrona si sveglierà, potrà darle, con comodo, la notizia.
LE NOVELLE
La 1^ novella che il Verga scrisse (nel 1874) è Nedda, definita dall’autore «bozzetto siciliano». Con questa
novella Verga cambia completamente il contenuto e lo stile della sua arte, abbandonando la letteratura tardo romantica e aderendo al Verismo. A Nedda seguirono altre novelle, riunite in raccolte. Le principali raccolte sono Vita dei campi, Novelle rusticane, Per le vie. I protagonisti di queste novelle sono sempre loro,
gli umili, i diseredati (pescatori, pastori, contadini), uomini semplici, che vivono per soddisfare i propri bisogni materiali. Emigrare, per loro, è un grave errore e chi lascia il proprio paese, sia che lo lasci perché costretto dagli eventi, sia che lo lasci per libera scelta, o non torna mai più (v. Luca dei Malavoglia), o torna
mutato in peggio (v. il giovane ‘Ntoni, che torna cambiato dal servizio militare prestato a Trieste: non vuole
più fare la vita semplice di prima, non sopporta più il paese e i suoi abitanti).
Anche il concetto di polizia e di giustizia, così come viene presentato dal nuovo stato unitario, è totalmente
estraneo a questa gente: essa non capisce perché la legge proibisca di fare certe cose e ne imponga altre.
Così il funzionario del Comune e il brigadiere (persone che hanno a che fare con la legge) sono odiati perché pretendono di governare e di far rispettare le regole a gente che, invece, vuole governarsi da sé e seguire le regole locali, da sempre rispettate da tutti.
I personaggi delle novelle, più ancora, forse, di quelli dei romanzi, sono creature selvatiche, che vivono secondo natura. La loro vita è regolata dall’alternarsi delle stagioni e le giornate sono scandite dalla posizione
del sole e delle stelle nel cielo. La loro psicologia è vicina a quella dell’animale e spesso i loro nomignoli
sono appellativi bestiali, di cui nessuno si offende: Rosso Malpelo è il figlio di un povero cavatore di rena,
che i compagni chiamavano con naturalezza Misciu (= Domenico) Bestia, ed è amico di un ragazzo soprannominato Ranocchio. A stabilire tali confronti col mondo animale sono inclini, per istinto, gli stessi personaggi: «Ora sono proprio solo al mondo» pensa Jeli quando gli è morta la madre «come un puledro
smarrito che lo possono mangiare i lupi»; e Rosso Malpelo, nel ricordare l’asino morto della cava, dice:
«Anche il Grigio ha avuto dei colpi di zappa … e anch’esso piegava sotto il peso e gli mancava il fiato per
andare avanti …»: in quell’«anche», martellato due volte, è da sottintendere il paragone «come me».