GIOVANNI VERGA

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GIOVANNI VERGA
Naturalismo e verismo
La poetica di Verga e il Verismo italiano. Il modello con cui il Verismo italiano dove.e fare i conti fu quello di Zola, romanziere scienziato e realista, scri.ore “sociale” in lo.a contro le piaghe della società in nome del progresso e dell’umanità. Infa.i furono in primo luogo gli ambienti milanesi di sinistra, repubblicani e socialisti, a diffondere ed esaltare la sua opera (e non a caso il centro della diffusione di Zola fu Milano che, nella sua tradizionale apertura era la più vicina, per sviluppo economico e sociale, agli ambienti stranieri, e perciò più ada.a ad accogliere un prodo.o della realtà moderna come il Naturalismo positivista). La sinistra milanese però, se ebbe il merito di cogliere subito l’importanza delle nuove tendenze, rimase prigioniera delle sue aspirazioni confuse e dimostrò di non avere la forza culturale e l’altezza intelle.uale necessarie per costruire una teoria artistica organica e coerente e per dare vita a opere veramente valide, creando un nuovo linguaggio le.erario: le formulazioni teoriche rimasero infa.i generiche e approssimative.
Una teoria coerente ed un nuovo linguaggio furono invece elaborati da due intelle.uali conservatori, due “galantuomini” meridionali, che operavano nello stesso ambiente milanese, assorbivano le stesse sollecitazioni del Naturalismo francese e condividevano l’ammirazione per Zola, sia pur da diverse prospe.ive: Verga e Capuana.
Luigi Capuana, come critico le.erario del <<Corriere della Sera>>, ebbe una funzione dominante nel diffondere la conoscenza di Zola con la recensione delle sue varie opere. Ma in questi articoli, pur nell’esaltazione dell’opera zoliana, si coglie chiaramente un modo di intendere la le.eratura ben diverso da quello del Naturalismo francese. La “scientificità” non deve consistere nel trasformare la narrazione in esperimento per dimostrare tesi scientifiche, ma nella tecnica con cui lo scri.ore rappresenta, che è simile al metodo dell’osservazione scientifica, per quanto resti nei limiti che sono propri dell’opera d’arte. La scientificità insomma si manifesta solo nella forma artistica, nella maniera con cui l’artista crea le sue figure e organizza i materiali espressivi; e questa maniera si basa sul principio dell’impersonalità dell’opera d’arte: per questo l’impersonalità è il motivo centrale della poetica del Verismo italiano, in luogo dello sperimentalismo scientifico del Naturalismo francese.
Secondo la visione di Verga, la rappresentazione artistica deve conferire al racconto l’impronta di cosa realmente avvenuta; ma non basta che ciò che viene raccontato sia reale e documentato: deve anche essere raccontato in modo da porre il le>ore <<faccia a faccia col fa>o nudo e schie>o>>, in modo che non abbia l’impressione di vederlo a.raverso <<la lente dello scri.ore>>. Per questo lo scri.ore deve <<eclissarsi>>, cioè non deve comparire nel parlato con le sue reazioni sogge.ive, le sue riflessioni e spiegazioni. L’autore deve <<me.ersi nella pelle>> dei personaggi, <<vedere le cose coi loro occhi ed esprimerle colle loro parole>>. In tal modo la sua mano <<rimarrà assolutamente invisibile>> nell’opera, tanto che l’opera dovrà sembrare <<essersi fa>a da sé>>. Il le.ore avrà l’impressione non di sentire un racconto di fa.i, ma di assistere ai fa.i che si svolgono so.o i suoi occhi. A tal fine il le.ore deve essere introdo>o nel mezzo degli avvenimenti, senza che nessuno gli spieghi gli antefa.i e gli tracci un profilo dei personaggi, del loro cara.ere e della loro storia.
Come si vede, la teoria dell’impersonalità non è per Verga una definizione dell’arte,che pretende di negare realmente ogni rapporto tra creatore e opera, e tanto meno un’affermazione dell’indifferenza psicologica dell’autore nei confronti della sua opera, ma solo la definizione di un procedimento tecnico.
La tecnica narrativa di Verga. Nelle sue opere effe.ivamente l’autore di <<eclissa>>, si cala <<nella pelle>> dei suoi personaggi, vede le cose <<coi loro occhi>> e le esprime <<colle loro parole>>. A raccontare infa.i non è il narratore “onnisciente” tradizionale, che, come nel romanzo di Manzoni, riproduce il livello culturale, i valori, i principi morali, il linguaggio dello scri.ore stesso ed interviene continuamente nel racconto. Il punto di vista dello scri.ore non si avverte mai, nelle opere di Verga: la “voce” che racconta si colloca tu.a all’interno del mondo rappresentato, è allo stesso livello dei personaggi. Non è propriamente qualche specifico personaggio a raccontare, ma il narratore si mimetizza nei personaggi stessi, ado.a il loro modo di pensare e sentire, si riferisce agli stessi criteri interpretativi, agli stessi principi morali, usa il loro stesso modo di esprimersi. È come se a raccontare fosse uno di loro, che però non compare dire.amente nella vicenda e resta anonimo. Tu.o ciò si impone con evidenza al le.ore perché Verga rappresenta ambienti popolari e rurali e me.e in scena personaggi incolti e primitivi, contadini, pescatori, minatori, la cui visione e il cui linguaggio sono ben diversi da quelli dello scri.ore borghese. Inoltre, l’anonimo narratore non informa esaurientemente sul cara.ere e sulla storia dei personaggi, né offre de.agliate descrizioni dei luoghi dove si svolge l’azione: ne parla come se si rivolgesse a un pubblico appartenente a quello stesso ambiente, che avesse sempre conosciuto quelle persone e quei luoghi. Perciò il le.ore all’inizio dei Malavoglia e dei vari racconti si trova di fronte a personaggi di cui possiede solo notizie parziali o non essenziali, e solo a poco a poco arriva a conoscerli, a.raverso ciò che essi stessi fanno e dicono, o a.raverso ciò che altri personaggi dicono di loro. E se la voce narrante commenta e giudica i fa.i,non lo fa certo secondo la visione dell’autore, ma in base alla visione elementare e rozza della colle.ività popolare. Di conseguenza anche il linguaggio non è quello che potrebbe essere dello scri.ore, ma un linguaggio spoglio e povero, punteggiato di modi di dire, paragoni, proverbi, imprecazioni popolari, dalla sintassi elementare e talora scorre.a, in cui traspare chiaramente la stru.ura diale.ale.
L’ideologia verghiana. Verga ritiene dunque che l’autore non debba intervenire nell’opera perché non ha il diri.o di giudicare la materia che rappresenta. Ma perché non ne ha il diri.o? Per trovare la risposta occorre risalire alla concezione generale del mondo che ha Verga.
Alla base della sua visione stanno posizioni radicalmente pessimistiche: la società umana è per lui dominata dal meccanismo della <<lo>a per la vita>>, un meccanismo in cui il più forte schiaccia necessariamente il più debole. La generosità disinteressata, l’altruismo, la pietà, sono valori ideali, che non trovano posto nella realtà effe.iva.Gli uomini sono mossi dall’interesse economico, dalla ricerca dell’utile, dall’egoismo, dalla volontà di sopraffare gli altri. È questa una legge di natura, universale, che governa qualsiasi società, in ogni tempo e luogo, e domina non solo le società umane, ma anche il mondo animale e vegetale. Come legge di natura, essa è immodificabile: perciò Verga ritiene che non si possano dare alternative alla realtà esistente, né nel futuro, né nel passato, e neanche nella dimensione trascendente (la sua visione è rigorosamente materialistica e atea ed esclude ogni consolazione religiosa, ogni speranza di risca.o dalla negatività dell’esistente in un'ʹaltra vita).
Ma se per Verga la realtà, per negativa che sia, è data una volta per tu.e, senza possibilità di modificazioni, si può capire perché egli non ritiene legi.imo, per lo scri.ore che la rappresenta, proporre giudizi; ogni intervento giudicante appare inutile e privo di senso, e allo scri.ore non resta che riprodurre la realtà così com’è. La le>eratura non può contribuire a modificare la realtà, ma può solo avere la funzione di studiare ciò che è dato una volta per tu.e e di riprodurlo fedelmente.
È chiaro che un simile pessimismo ha una connotazione fortemente conservatrice. Vi si associa infa.i un rifiuto esplicito e polemico per le ideologie progressiste contemporanee, democratiche e socialiste, che egli giudica fantasie infantili o interessati inganni e causa di pericolosi rivolgimenti sociali. Però questo pessimismo conservatore non implica affa.o, nella visione di Verga, un’acce.azione acritica della realtà esistente. Anzi, proprio il pessimismo, pur impedendo di indicare alternative, consente a Verga di cogliere con grande lucidità ciò che vi è di negativo nella realtà. Anche se non dà giudizi corre.ivi, Verga rappresenta con grande acutezza l’ogge.ività delle cose, e le cose parlano da sé, eloquentemente. Non solo, ma proprio il pessimismo conservatore assicura a Verga l’immunità da quei miti che trionfano in tanta le.eratura contemporanea e la trasformano in mediocre veicolo di grossolana mitologia: innanzitu.o il mito del progresso, centrale nella cultura e nella mentalità diffusa del tempo; poi il mito del popolo, sia nella sua visione progressista che in quella romantico-­‐‑reazionaria e nostalgica. Anche se le opere veriste di Verga hanno per gran parte al centro la vita del popolo, non si riscontra la pietà sentimentale, tipica della le.eratura di secondo O.ocento, per le miserie degli “umili”, nella deprecazione retorica delle piaghe sociali. Tracce di una simile tematica unitaria e sociale si possono trovare nella materia in astra.o di alcune opere veriste di Verga: in Rosso Malpelo, ad esempio, che è la storia di un giovane orfano maltra.ato e incompreso; nei Malavoglia, che offrono un catalogo completo di tu.e le disgrazie che si possono accanire sul popolo paziente e laborioso. Tu.avia il duro pessimismo, la visione arida e desolata, che si concentra sugli aspe.i crudi della realtà, mortifica in Verga ogni possibile abbandono al patetismo umanitario; anzi, la scelta di regredire nell’o.ica popolare, di raccontare proprio dal punto di vista della lo.a per la vita, che nega ogni valore di umanità e altruismo, costituisce la dissacrazione più impietosa di ogni mito populistico “progressivo”. Ma in Verga non è presente neppure il populismo romantico e reazionario, proteso nostalgicamente verso forme passate di vita. Pur so.olineando la negatività del progresso moderno, Verga non contrappone ad essa il mito della campagna concepita come Eden di incorro.a autenticità, di una sanità e innocenza di vita ormai perdute, da indicare come antidoto alla società ci.adina moderna. Il pessimismo induce Verga a vedere che anche il mondo primitivo della campagna è re.o dalle stesse leggi del mondo moderno, l’interesse economico, l’egoismo, la ricerca dell’utile, la forza e la sopraffazione, che pongono gli uomini in costante confli.o fra loro.
Il verismo di Verga e il naturalismo zoliano. A questo punto sarà risultata evidente la profonda differenza che separa il verismo verghiano dal naturalismo di Zola. Nei romanzi di Zola la “voce” che racconta riproduce di norma il modo di vivere e di esprimersi dell’autore, del borghese colto, che guarda dall’esterno e dall’alto la materia; e questa voce narrante interviene spesso con giudizi sulla materia tra.ata, sia espliciti, che impliciti. Tra il narratore e i personaggi vi è un distacco ne.o, e il narratore lo fa sentire e esplicitamente. Questo nel Verga verista non avviene mai. Una parziale eccezione è costituita dall’Assomoir, dove Zola si propone di riprodurre il gergo particolare dei proletari parigini: in alcuni punti infa.i, anche la voce narrante si adegua alla mentalità e al linguaggio dei personaggi popolari e sembra dar voce ad un loro “coro”, che commenta gli eventi. Però il procedimento non è sistematico e totalizzante, come sarà in Verga, è solo una soluzione episodica e limitata. Per gran parte del romanzo sussiste una ne>a distinzione fra il piano del narratore e quello dei personaggi: il gergo è impiegato solo se e dove sono i personaggi popolari ad esprimersi.
L’impersonalità zoliana è quindi profondamente diversa da quella di Verga: per Zola l’impersonalità significa assumere il distacco dello scienziato, che si allontana dall’ogge.o di studio, per osservarlo dall’esterno e dall’alto; per Verga significa invece immergersi, “eclissarsi” nell’ogge>o. Per usare due formule efficaci proposte da Luperini, l’impersonalità di Zola è a parte subiecti, quella di Verga è a parte obiecti.
Queste tecniche narrative così lontane sono evidentemente la conseguenza di due poetiche e ideologie molto diverse. Zola interviene a commentare e giudicare dall’alto del suo punto di vista scientifico perché crede che la scri.ura le.eraria possa contribuire a cambiare la realtà ed ha piena fiducia nella funzione progressiva della le>eratura, come studio dei problemi sociali e stimolo alle riforme; dietro la regressione di Verga nella realtà rappresentata vi è invece, come sappiamo, il pessimismo di chi ritiene che la realtà data sia immodificabile, che la le.eratura non possa in alcun modo incidere su essa, e che quindi lo scri.ore non abbia il diri.o di giudicare e debba limitarsi alla riproduzione ogge.iva, sincera e spassionata, del dato.
Zola ha fiducia nella possibilità della le.eratura di incidere sul reale perché è uno scri.ore borghese democratico, che ha di fronte a sé una realtà dinamica, una società pienamente sviluppata dal punto di vista industriale, in cui i confli.i tipici del mondo capitalistico moderno hanno ormai raggiunto uno stadio avanzato, in cui esistono una borghesia a.iva e un proletariato comba.ivo e organizzato; di conseguenza lo scri.ore progressista in un simile ambiente si sente il portavoce di esigenze ben vive intorno a lui e sa di potersi rivolgere a un pubblico in grado di recepire il suo messaggio e di reagire a esso. Verga, invece, è il tipico "ʺgalantuomo del sud"ʺ, il proprietario terriero conservatore, che ha ereditato la visione fatalistica di un mondo agrario arretrato e immobile, estraneo alla visione dinamica del capitalismo moderno, e ha di fronte a sé una borghesia ancora pavida e parassitaria e delle masse contadine estranee alla storia, chiuse nella loro miseria e nei loro arcaici ritmi di vita, passive e rassegnate. Il fatalismo del "ʺgalantuomo"ʺ poteva poi trovare conferma nella realtà a.uale dell'ʹItalia, in cui gli inizi dello sviluppo capitalistico, lungi dal modificare le condizioni subumane delle masse popolari, del sud in particolare, non faceva che ribadirne l'ʹesclusione e l'ʹoppressione e render ancor più dura la loro vita.
GIOVANNI VERGA (1840-­‐‑1922)
Il periodo preverista. Giovanni Verga nacque a Catania nel 1840, da una famiglia di agiati proprietari terrieri. Compì i primi studi presso maestri privati e scrisse il primo romanzo a sedici anni, Amore e patria, intriso di patrio.ismo e gusto le.erario romantico. I suoi studi superiori non furono regolari: iscri.osi a dicio.o anni alla facoltà di legge a Catania, non terminò i corsi, preferendo dedicarsi al lavoro le.erario e al giornalismo politico (con i denari datigli dal padre per concludere gli studi pubblicò a sue spese un secondo romanzo, I carbonari della montagna, 1861-­‐‑62). Questa formazione irregolare segna la sua fisionomia di scri.ore, che si discosta dalla tradizione di scri.ori le.eratissimi e di profonda cultura umanistica: i testi su cui si forma il suo gusto in questi anni, più che i classici italiani e latini, sono gli scri.ori francesi moderni di vasta popolarità, ai limiti con la le.eratura di consumo, come Dumas padre (I tre mosche9ieri) e figlio (La signora delle camelie). E queste le>ure di intrigo e sentimentali, insieme coi romanzi storici italiani, lasciano un'ʹimpronta sensibile nei suoi primi romanzi. Nel 1864 lascia la provincia e si reca una prima volta a Firenze, allora capitale del Regno. Vi torna nel 'ʹ69 deciso a soggiornarvi a lungo, consapevole del fa.o che per diventare scri.ore autentico doveva liberarsi della sua cultura provinciale e venire a conta.o con la vera società le.eraria italiana. Nel fra.empo aveva ancora pubblicato il romanzo Una peccatrice, fortemente autobiografico, che in toni enfatici e melodrammatici narra la storia di un intelle.uale piccolo borghese di Catania, che conquista il successo e la ricchezza ma vede inaridirsi l'ʹamore per la donna sognata e adorata, e ne causa così il suicidio. A Firenze termina Storia di una capinera (1871), romanzo sentimentale e lacrimevole, storia di un amore impossibile e di una monacazione forzata, che gli assicura un notevole e duraturo successo. Nel 'ʹ71 si trasferisce a Milano che era allora il centro culturale più vivo della penisola e più aperto alle sollecitazioni europee. Qui entra in conta.o con gli ambienti della Scapigliatura. Finisce il romanzo Eva, storia di un giovane pi.ore siciliano che a Firenze brucia le sue illusione e i suoi ideali artistici nell'ʹamore per una ballerina, simbolo della corruzione di una società "ʺmaterialista"ʺ, tu.a protesa verso i piaceri, che disprezza l'ʹarte e l'ʹasservisce al suo bisogno di lusso. A questo romanzo polemico, che ha le cara.eristiche di una confessione autobiografica, seguono romanzi d'ʹanalisi di passioni mondane: Eros, storia del progressivo inaridirsi di un giovane aristocratico, corro.o da una società raffinata e vuota, e Tigre reale, che analizza il traviamento di un giovane innamorato di una donna "ʺfatale"ʺ, divoratrice di uomini, e la sua redenzione segnata dal ritorno delle serene gioie della famiglia. I due romanzi (usciti entrambi nel 'ʹ75) confermano il successo di Verga e sono salutati dalla critica come esempi di "ʺrealismo"ʺ, di analisi ardita e impietosa di piaghe psicologiche e sociali.
L'ʹapprodo al Verismo: Rosso Malpelo (1878) e Vita dei campi (1880). Dopo un silenzio di tre anni, nel 1878 esce un racconto che si discosta fortemente dalla materia e dal linguaggio della sua narrativa anteriore: si tra.a di Rosso Malpelo, la storia di un garzone di miniera che vive in un ambiente duro e disumano, narrata con un linguaggio nudo e scabro, che riproduce il modo di raccontare di una narrazione popolare. È la prima opera della nuova maniera verista, ispirata ad una rigorosa impersonalità. La nuova impostazione narrativa inaugurata nel 'ʹ78 da Rosso Malpelo è continuata da Verga in una serie di altri racconti, raccolti nel volume Vita dei campi (1880): ad esempio Cavalleria rusticana, La lupa, Fantasticheria. Anche in questi racconti spiccano figure cara.eristiche della vita contadina siciliana e viene applicata la tecnica narrativa dell'ʹimpersonalità, che consiste nell'ʹ"ʺeclisse"ʺ dell'ʹautore e nella regressione della voce narrante entro il punto di vista del mondo popolare. In queste novelle si può trovare ancora traccia di un a>eggiamento romantico, di un idoleggiamento nostalgico di quell'ʹambiente arcaico come di una sorta di paradiso perduto di autenticità e innocenza. Il ciclo dei Vinti e I Malavoglia. Parallelamente alle novelle Verga concepisce il disegno di un ciclo di romanzi, che riprende il modello già affermato dai Rougon-­‐‑Macquart di Zola. A differenza di Zola però Verga non pone al centro del suo ciclo l'ʹintento scientifico di seguire gli effe.i dell'ʹereditarietà, bensì la volontà di tracciare un quadro sociale passando in rassegna tu>e le classi, dai ceti popolari alla borghesia di provincia all'ʹaristocrazia. Criterio unificante è il principio della lo>a per la sopravvivenza, che lo scri.ore ricava dalle teorie di Darwin sull'ʹevoluzione delle specie animali ed applica alla società umana: tu.a la società è dominata da confli.i d'ʹinteresse, ed il più forte trionfa schiacciando i deboli. Verga però non intende soffermarsi sui vincitori di questa guerra universale e sceglie come ogge>o della sua narrazione i <<vinti>>. I Malavoglia (1881)
Il romanzo è il primo del ciclo dei vinti. L'ʹazione ha inizio all'ʹindomani dell'ʹunità, nel 1863, e me.e in luce come un piccolo villaggio siciliano sia investito dalle tensioni di un momento di rapida trasformazione della società italiana. La trama:
Presso il paese di Aci Trezza, nel catanese, vive la laboriosa famiglia Toscano, soprannominata Malavoglia. Il
patriarca è Padron 'Ntoni, vedovo, che vive presso la casa del nespolo insieme al figlio Bastiano, detto
Bastianazzo, il quale è sposato con Maruzza (la Longa). Bastiano ha cinque figli: 'Ntoni, Luca, Filomena (detta
Mena o Sant'Agata), Alessio (detto Alessi) e Rosalia (detta Lia). Il principale mezzo di sostentamento è la
"Provvidenza", una piccola imbarcazione utilizzata per la pesca.
Nel 1863 'Ntoni, il maggiore dei figli, parte per la leva militare. È la prima volta che un membro della famiglia
dei Malavoglia parte per la leva nell'esercito del Regno d’Italia e sarà questo evento (che rappresenta l'irruzione
del mondo moderno in quello rurale della Sicilia contemporanea) a segnare l'inizio della rovina della famiglia
stessa. Per far fronte alla mancanza, Padron ‘Ntoni tenta infatti un affare comprando una grossa partita di lupini
(peraltro avariati), da un suo compaesano, chiamato Zio Crocifisso per via delle sue continue lamentele e del suo
perenne pessimismo. Il carico viene affidato al figlio Bastianazzo perché vada a venderlo, ma durante il viaggio
la barca subisce naufragio e Bastianazzo muore. A seguito di questa sventura, la famiglia si ritrova con una
triplice disgrazia: è morto il padre, principale fonte di sostentamento della famiglia, mentre il debito dei lupini è
ancora da pagare e la Provvidenza va riparata. Finito il servizio militare, 'Ntoni torna malvolentieri alla dura vita
di pescatore alla giornata, e non dà alcun sostegno alla già precaria situazione economica del nucleo familiare.
Le disgrazie per la famiglia non terminano. Luca, uno dei nipoti, muore nella battaglia di Lissa (1866) e nuovi
debiti costano alla famiglia anche la perdita dell'amata Casa del nespolo: la reputazione e l'onore della famiglia
peggiorano fino a raggiungere livelli umilianti. Un nuovo naufragio della "Provvidenza" porta Padron 'Ntoni ad
un passo dalla morte; Maruzza, la nuora, muore invece di colera. Il primogenito 'Ntoni decide di andare via dal
paese per far fortuna, ma, una volta tornato ancora più impoverito, perde ogni desiderio di lavorare, dandosi
all'ozio e all'alcolismo.
La partenza di 'Ntoni costringe nel frattempo la famiglia a vendere la Provvidenza per accumulare denaro al fine
di riacquistare la Casa del nespolo, mai dimenticata. La padrona dell'osteria Santuzza, già desiderata dallo sbirro
Don Michele, si invaghisce invece di 'Ntoni (che intanto entra nel giro del contrabbando), mantenendolo
gratuitamente all'interno del suo locale. La condotta di 'Ntoni e le lamentele del padre la convincono a distogliere
le sue aspirazioni dal ragazzo, e a richiamare Don Michele all'osteria. Ciò diventa origine di una rissa tra i due
pretendenti, che sfocia nella coltellata di 'Ntoni al petto di Don Michele, nel corso di una retata anticontrabbando. 'Ntoni finisce dunque in prigione e Padron 'Ntoni, accorso al processo e sentite le voci circa la
relazione tra Don Michele e sua nipote Lia, sviene esanime.'Ntoni riesce a evitare una forte condanna per motivi
"d'onore": l'avvocato lascia intendere che la rissa fosse scoppiata perché 'Ntoni voleva difendere la reputazione
della sorella Lia, della quale Don Michele si era invaghito ma che Lia aveva respinto.
Ormai vecchio, il salmodiare di Padron 'Ntoni si fa sconnesso e i suoi proverbi (che accompagnano tutta la
narrazione) iniziano a venire pronunciati senza cognizione di causa; per motivi anche di sopravvivenza (non è
più in grado di lavorare), si decide di ricoverarlo in ospedale. Lia, la sorella minore, vittima delle malelingue e
del disonore, lascia il paese e finisce prostituta a Catania. Mena, a causa della vergognosa situazione della
sorella, sceglie di rinunciare a sposarsi con compare Alfio, di cui è innamorata, e rimane in casa ad accudire i
figli di Nunziata e di Alessi, il minore dei fratelli, che nel frattempo si era sposato con la Nunziata, e che,
continuando a fare il pescatore ricostruisce alla fine il nucleo familiare e ricompra la "casa del nespolo".
Acquistata la casa, ciò che resta della famiglia farà visita all'ospedale al vecchio Padron 'Ntoni, per informarlo
della compravendita e annunciargli un suo imminente ritorno a casa. È questa l'ultima gioia per il vecchio, che
muore proprio nel giorno del suo agognato ritorno: neanche il desiderio di morire nella casa dov'era nato viene
dunque esaudito. Quando 'Ntoni, uscito di prigione, ritorna al paese e alla casa del nespolo, si rende conto di non
poter restare a causa del suo passato, per quanto Alessi lo inviti a farlo: con il suo comportamento egli si è auto-
escluso dal nucleo familiare, rinnegando sistematicamente i suoi valori; è costretto ad abbandonare la sua casa
proprio quando ha preso consapevolezza che era l'unico luogo in cui era possibile vivere degnamente.
La storia e la modernità si presentano innanzitu.o come la coscrizione obbligatoria, che so.rae braccia al lavoro, me.endo in crisi la famiglia come arcaica unità produ.iva: proprio dalla partenza di 'ʹNtoni per il servizio militare prende le mosse la vicenda e iniziano le serie di difficoltà economiche e sventure che rompono l'ʹequilibrio tra la famiglia Toscano e il sistema sociale del villaggio; a ciò si aggiungono poi le tasse, la crisi della pesca, il treno, il telegrafo, le navi a vapore, che suscitano reazioni ostili nella mentalità immobilistica dei paesani. I Malavoglia sono così costre.i a diventare <<negozianti>>, da pescatori che erano sempre stati; e, in conseguenza del fallimento della loro iniziativa, subiscono un processo di declassazione, passando dalla condizione di proprietari di casa e barca a quella di nullatenenti, costre.i ad <<andare a giornata>> per vivere. Questo mondo del villaggio può apparire immobile solo perché i fa.i narrati, in obbedienza al principio di impersonalità e alla tecnica dell'ʹeclisse dell'ʹautore e della regressione, sono presentati nell'ʹo.ica dei personaggi stessi: è la visione sogge.iva degli a.ori della vicenda che rende l'ʹimmagine di una realtà statica, perché così essi sono abituati a concepirla.
Il personaggio in cui essenzialmente si incarnano le forze disgregatrici della modernità è il giovane 'ʹNtoni. Egli è uscito dall'ʹuniverso chiuso del paese, è venuto in conta.o con la realtà moderna, conoscendo la metropoli del continente, Napoli; per questo non può più ada.arsi ai ritmi di vita ancestrali del paese, acce.are il suo fatalismo immobilista, rassegnarsi pazientemente a un'ʹesistenza di fatiche e miserie. Emblematico è il suo confli>o col nonno, che, in opposizione a lui, rappresenta invece lo spirito tradizionalista per eccellenza, l'ʹa.accamento a una visione arcaica e ai suoi valori. So.o l'ʹazione di queste forze innovatrici la famiglia di disgrega. È vero che Alessi alla fine riuscirà a ricomporre un frammento dell'ʹantico nucleo familiare; ma ciò non implica un ritorno perfe.amente circolare alla condizione iniziale: Bastanazzo, Luca, Maruzza, padron 'ʹNtoni sono morti, 'ʹNtoni e Lia sono lontani, Mena ha rinunciato al matrimonio per il disonore. Non solo, ma il romanzo non si chiude affa.o con questa parziale ricomposizione dell'ʹequilibrio, bensì con la partenza di 'ʹNtoni dal villaggio. È un finale emblematico: il personaggio inquieto, che aveva messo in crisi quel sistema, se ne distacca per sempre, allontanandosi verso la realtà del progresso, delle grandi ci.à, della storia. Il suo percorso sarà continuato da Gesualdo, che non avrà più nulla del tradizionalismo immobilista della realtà arcaica rurale, ma sarà l'ʹesponente più tipico del moderno, con il suo dinamismo e la sua intraprendenza da self-­‐‑made man.
Dai Malavoglia al Gesualdo. Nel 1883 escono le Novelle rusticane, che ripropongono personaggi e ambienti della campagna siciliana, in una prospe.iva però più amara e pessimistica. Nel 1884, poi, Verga tenta l'ʹesperienza del teatro col dramma Cavalleria rusticana, tra.o da una novella di Vita dei campi, che o.iene un successo clamoroso per la rappresentazione di costumi esotici e passioni primitive.
Mastro don Gesualdo (1889)
Nel 1889 esce infine il secondo romanzo del ciclo dei Vinti, Mastro don Gesualdo, storia dell'ʹascesa sociale di un muratore che, con la sua intelligenza ed energia, accumula enormi ricchezze, ma va incontro a un tragico fallimento nella sfera degli affe.i familiari.
La trama:
La vicenda inizia durante le prime luci dell’alba, quando scoppia un incendio in casa Trao, dove vivono Don
Ferdinando, don Diego e la sorella Bianca, un tempo ricchi, ma ora ridotti in miseria. Nel parapiglia generale, i
due fratelli cercano Bianca, mentre mastro don Gesualdo tenta di convincere la gente a spegnere il fuoco,
preoccupato che si possa estendere fino a casa sua. Bianca viene scoperta dal fratello con un uomo, Don Ninì, figlio della baronessa Rubiera, una loro parente ricca.
Per riscattare l'onore della sorella, don Diego chiederà alla baronessa Rubiera di acconsentire alle nozze fra
Bianca e Ninì, ma la baronessa, anche lei piegata dalla logica dell'accumulo materiale, non acconsente perché
Bianca, pur essendo nobile di nascita, è povera.
A sposare Bianca sarà invece Gesualdo che aspira a consacrare con un titolo di nobiltà il suo successo
economico di imprenditore agricolo. Per far ciò rinuncerà a Diodata, una trovatella da cui Gesualdo ha avuto due
figli che non ha riconosciuto né sostenuto economicamente. Bianca, contro il volere dei fratelli, acconsente alle
nozze per riparare alla relazione colpevole con il cugino baronetto.
Il matrimonio con Bianca si rivela per il protagonista un "affare sbagliato": la donna lo respinge, il suo fisico
debole riesce a dargli solo una figlia e non gli procura neanche i rapporti amichevoli con la nobiltà del paese.
Bianca ha una figlia, Isabella, che nonostante sia nata dalla precedente relazione che la donna ha avuto con il
cugino Ninì (e gli assomiglia in modo impressionante), viene accettata da Gesualdo.
La bambina, educata in collegio fra compagne di estrazione sociale alta, si vergogna a tal punto delle umili
condizioni del padre da farsi chiamare con il cognome della madre. Divenuta grandicella ritorna al paese natale a
causa della diffusione del colera, e lì si innamora di Corrado la Gurna, un poeta spiantato. Gesualdo, data la
condizione poco agiata del ragazzo, si oppone al loro rapporto, e così la figlia decide di scappare con Corrado.
Il protagonista, dopo aver fatto esiliare il ragazzo, riesce a organizzare un matrimonio di riparazione fra la figlia
e il duca de Leyra, un nobile palermitano decaduto che vivrà alle spalle del suocero sperperando tutte le sue
sostanze. Da qui ha inizio il declino di Gesualdo, che nella quarta parte del romanzo, poco dopo la morte della
moglie, si ammala ed è costretto a trasferirsi nel palazzo della figlia a Palermo, dove assisterà impotente alla
dilapidazione delle sue sostanze; sarà quindi preso dai rimorsi (nei confronti di Diodata e dei suoi figli, a cui non
può lasciare nulla in eredità), e si renderà conto della mancanza di comunicazione fra lui e la figlia. Consumato
dal cancro, Gesualdo muore solo, tra l'indifferenza cinica dei servitori, in una stanza appartata del palazzo dei
Leyra, lontano dalla sua casa e dalla sua terra.
Nel Gesualdo Verga resta fedele al principio dell'ʹimpersonalità, per cui il narratore deve essere "ʺinterno"ʺ al mondo rappresentato. Però nel nuovo romanzo il livello sociale di questo mondo, in obbedienza la piano del ciclo, si è elevato rispe.o ai Malavoglia e alle novelle: non si tra.a più di un ambiente popolare, ma di un ambiente borghese e aristocratico. Di conseguenza anche il livello del narratore si innalza, coincidendo di fa.o con quello dell'ʹautore reale. Non si verificano più, pertanto, le deformazioni e gli effe.i di straniamento che cara.erizzavano la rappresentazione delle <<basse sfere>> della società e che scaturivano dall'ʹo.ica "ʺdal basso"ʺ del narratore. Il narratore nel Gesualdo riprende i suoi diri.i, ha uno sguardo lucidamente critico, un sarcasmo corrosivo nel descrivere ambienti e figure, nel me.ere in luce bassezze, meschinità del protagonista e degli altri personaggi.
Ciò non vuol dire che Verga ripristini il narratore onnisciente dei romanzi del primo O.ocento, tornando indietro rispe.o alle sue rivoluzionarie innovazioni narrative. Il narratore del Gesualdo non dà esaurienti informazioni sugli antefa.i, o ritra.i e storie dei personaggi, come fa Manzoni nei Promessi sposi: ne parla come se il le.ore li conoscesse già da sempre, come aveva già fa.o nei Malavoglia.
I Malavoglia sono un romanzo corale, si è de.o, che vede in scena una folla fi.issima di personaggi. Di questi, sono i membri della famiglia Malavoglia sono visti dall'ʹinterno, in modo tale che se ne possano cogliere pensieri e sentimenti. Tu.i gli altri abitanti del villaggio sono visti sempre e solo dall'ʹesterno: sono descri.i i loro gesti e riportate le loro parole ma non vengono mai analizzati e spiegati i moventi psicologici dei loro a.i. Il Gesualdo ha invece al centro una figura di protagonista, che si stacca ne.amente dallo sfondo popolato di altre figure. A questa centralità dell'ʹeroe si adeguano i procedimenti narrativi: per gran parte la narrazione è focalizzata sul protagonista. Il punto di osservazione coincide infa.i con la sua visione, cioè noi vediamo i fa.i a.raverso i suoi occhi, come li vede lui. Lo strumento per eccellenza di questa focalizzazione è il discorso indire>o libero, mediante cui sono riportati i pensieri del protagonista. È un modulo narrativo che, a partire da Madame Bovary di Flaubert, si sta affermando nel secondo O.ocento.
Nel Gesualdo, la bipolarità si sposta all'ʹinterno di un unico personaggio: Gesualdo, pur dedicando tu.a la sua vita alla conquista della <<roba>>, conserva tu.o sommato in sé un bisogno di relazioni umane autentiche, ma non arriva mai a praticare fino in fondo i valori, non è mai veramente un personaggio "ʺmalvogliesco"ʺ. Gli impulsi generosi e i bisogni affe.ivi sono sempre soverchiati dall'ʹa.enzione gelosa all'ʹinteresse, al calcolo cinico, dal gesti privo di scrupoli. La roba è il fine primario della sua esistenza e ciò lo porta ad essere disumano. Quei residui di idealismo romantico che si trovavano in Vita dei campi e anche nei Malavoglia, sono qui del tu.o scomparsi. Verga è passato ad un verismo rigorosamente conseguente ed il suo pessimismo è divenuto assoluto. Dalla lo.a epica per la roba Gesualdo non ha ricavato che odio, amarezza e dolore; sinché questo fru.o amaro si somatizza nel cancro allo stomaco, che lo corrode portandolo alla morte. E proprio perché conserva in se un'ʹesigenza di affe.i autentici e di moti generosi, può assumere coscienza di questo totale fallimento del suo ambizioso disegno e di tu.a la sua esistenza (in questo è diverso dal Mazzarò della novella La roba, che nella sua completa alienazione nella logica dell'ʹinteresse, non era in grado di rendersi conto della sua inevitabile sconfi.a di fronte alla morte, tanto da voler portare con sé la <<roba>> nell'ʹaldilà).
L'ʹultimo Verga. Dopo il Gesualdo Verga lavora a lungo al terzo romanzo del ciclo, La duchessa di Leyra, ma il lavoro non sarà mai portato a compimento. Del romanzo ci resta solo il primo capitolo. Gli ultimi due romanzi del proge.o iniziale, L'ʹonorevole Scipioni e L'ʹuomo di lusso, non saranno neppure affrontati. Le ragioni non sono facili da definire: dove.ero combinarsi tra loro l'ʹinaridimento dell'ʹispirazione e la stanchezza dello scri.ore ormai vecchio, le difficoltà di affrontare con il metodo prescelto gli ambienti dell'ʹalta società e le psicologie complesse e raffinate.
Dal 1893 Verga è tornato a vivere a Catania, lasciando definitivamente Milano: è anche questo un dato significativo, che rivela una sostanziale rinuncia alla le.eratura; tu.e le sue opere erano state ideate a Milano, in un clima fervido di idee e iniziative, aperto a tu.e le sollecitazioni della cultura moderna europea. Verga aveva sempre sentito come fosse impossibile per lui scrivere nell'ʹambiente della provincia. Pubblica ancora novelle di ambiente mondano e lavora ancora per il teatro, ma si tra.a di opere stanche che non aggiungono nulla di nuovo alla sua produzione e testimoniano semmai un'ʹinvoluzione. Dopo il 1903 lo scri.ore si chiude in un silenzio pressoché totale. La sua vita è dedicata alla cura delle sue proprietà agricole ed è ossessionata dalle preoccupazioni economiche. Le le.ere di questo periodo mostrano un inaridimento assoluto, anche della passione più importante della sua vita, per la contessa Dina Castellazzi di Sordevolo. Le sue passioni politiche si fanno sempre più chiuse e conservatrici, ma in un sostanziale distacco da ogni interesse politico militante. Muore nel 1922, l'ʹanno della marcia su Roma e della salita al potere del fascismo.