Il post con la pistola non è giusta causa di
Transcript
Il post con la pistola non è giusta causa di
un professionista accusato di avere ottenuto avere ottenuto da un ente pubblico delle indennità in assenza dei illecitamente indennità da un ente pubblico presupposti prescritti. primo momento perché consideperché confiscate come reddito La vicenda lato sulla base della documenta- nella sua nozione aziendalistica - decurtando dai ricavi i costi e cui si chiedeva lo scomputo per effettuate le trattenute fiscali e Questa disposizione stabilisce toposte a tassazione in base al Te- fitto del reato di truffa, suscettida fatti, atti o attività qualificabili trattava di somme mai material- misura cautelare disciplinata dall’articolo 321 del Codice penale. Può essere disposto dal giudice (dal Gip se le indagini sono ancora in corso) su richiesta del Pm. Possono essere oggetto di sequestro preventivo le cose pertinenti al reato, se la loro libera disponibilità può aggravare le conseguenze del reato o agevolare la commissione di un altro reato. Inoltre, possono essere oggetto di sequestro preventivo le cose di cui è consentita la confisca; tra queste, c’è il profitto del reato. Lavoro. Condannata a risarcire il dipendente l’azienda che lo ha allontanato per una foto su Facebook Il post con la pistola non è giusta causa di licenziamento Marisa Marraffino pNon è legittimo licenziare un dipendente perché ha pubblicato una propria fotografia su Facebook mentre impugna un’arma. Lo ha stabilito il Tribunale di Bergamo (giudice Lapenta) con la sentenza 684 del 14 settembre scorso, che ha accolto il ricorso del lavoratore e condannato la società a risarcire il danno. La pronuncia Per il giudice la condotta, pur rappresentando un utilizzo improprio del social network, non è così grave da «svilire drasticamente il rapporto fiduciario con il da- tore di lavoro non avendo ripercussioni di rilievo sulla prestazione lavorativa». A nulla sono valse le considerazioni dell’azienda, che ha spiegato di avere già subito l’omicidio di una dipendente nei propri spogliatoi e che per questo voleva prevenire situa- L’INDICAZIONE Se lo scopo dell’immagine non è intimidatorio né genera ansia tra i colleghi il datore può solo irrogare una sanzione meno afflittiva zioni analoghe, oltre alla tensione tra i dipendenti. Per il giudice pubblicare un contenuto su Facebook equivale a inviarlo agli altri dipendenti se il profilo è pubblico. In questo caso, infatti, «la pubblicazione di un post o la condivisione di un’immagine implica l’accettazione da parte del mittente del potenziale libero accesso al materiale condiviso da parte di una cerchia indeterminata di persone». La sentenza ribadisce l’orientamento ormai condiviso anche dalla Cassazione - secondo il quale le informazioni personali pubblicate sui social network circolano onli- ne come se raccontate in una pubblica piazza. Tuttavia, la condotta va valutata in concreto e se lo scopo della fotografia non è intimidatorio né è in grado di generare negli altri dipendenti uno stato di collettiva apprensione, non si può irrogare il licenziamento, ma solo una sanzione disciplinare meno afflittiva. I precedenti La sentenza si inserisce all’interno di un filone giurisprudenziale che a più riprese ha affrontato il tema dei licenziamenti causati dai social network. A legittimare l’espulsione del lavoratore, per i giudici, sono soprattutto le frasi offensive rivolte al datore di lavoro. Così non solo perde la causa ma è anche condannato a risarcire il danno morale patito dall’azienda il lavoratore che accusa il proprio datore di praticare «becere tecniche di mobbing». Per il Tribunale di Milano non c’è dubbio che la frase sia denigratoria e leda l’immagine dell’azienda. A pagare è il lavoratore, condannato a risarcire 500 euro per ogni giorno di pubblica visibilità del messaggio (Tribunale di Milano sentenza 1848 del 22 giugno 2016). Giustificano il licenziamento queste altre somme, l’ente truffapresupposti, di attivare il seque- ranzia delle pretese civili delle © RIPRODUZIONE RISERVATA IN ESCLUSIVA PER GLI ABBONATI Le sentenze commentate in pagina www.quotidianodiritto.ilsole24ore.com anche gli accessi ripetuti ai social network durante l’orario di lavoro. Il datore può stampare la cronologia e il tipo di accesso a internet del computer dei dipendenti, senza che ciò implichi alcuna violazione della privacy. Per il Tribunale di Brescia, legittimano il licenziamento 16 accessi al giorno, di cui 12 a Facebook (su tre ore di lavoro), trattandosi di un uso improprio dello strumento di lavoro idoneo a incrinare la fiducia col datore di lavoro (Tribunale di Brescia, sentenza 782 del 13 giugno 2016). Allo stesso modo il datore può licenziare il dipendente assente per infortunio che pubblichi sul proprio profilo le foto delle vacanze alle Maldive o in locali notturni (Tribunale di Napoli, decreto 6655 del 24 febbraio 2015). © RIPRODUZIONE RISERVATA