la corte suprema di cassazione sezione lavoro - Sirs-Rer

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Cassazione Civile
LAVORO E PREVIDENZA (CONTROV.) - LAVORO (RAPPORTO)
Cass. civ. Sez. lavoro, 26-06-2000, n. 8702
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dai sigg. Magistrati:
Presidente - dott. Francesco AMIRANTE
consigliere - dott. Vincenzo MILEO
consigliere - dott. Paolino DELL'ANNO
consigliere - dott. Francesco Antonio MAIORANO
consigliere - dott. Giuseppe CELLENINO rel.
ha pronunziato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Centro Servizi Elettronici (CSE) srl, in persona del legale rappresentante elettivamente domiciliato in
Roma, via Franco Michelini Tocci, 50, presso l'avv. Carlo Visconti che, con l'avv. prof. Luigi
Montuschi, del Foro di Bologna, lo rappresenta e difende per procura a margine del ricorso,
(RICORRENTE)
contro
Brighi Costante, elettivamente domiciliato in Roma, via Bergamo 3, presso l'avv. prof. Amos
Andreoni che, con l'avv. prof. Piergiovanni Alleva, lo rappresenta e difende per procura a margine
del controricorso
(CONTRORICORRENTE)
avverso la sentenza del Tribunale di Bologna n. 228/97(R. G. n. 1199/94)
Udito il relatore, cons. Cellerino, all'udienza pubblica del 7 aprile 2000.
Uditi gli avv. Visconti e Alleva.
Udito il P.M., s.Procuratore generale dott. Massimo Fedeli, che ha chiesto l'accoglimento del ricorso
principale per quanto di ragione e il rigetto del ricorso incidentale.
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Fatto Diritto P.Q.M.
Svolgimento del processo
Con ricorso depositato il 3 settembre 1992, il sig. Costante Brighi, funzionano di secondo livello in
base al ccnl per il personale direttivo delle aziende di credito, impugnava davanti al Pretore-giudice
del lavoro di Bologna il licenziamento per giusta causa intimatogli il 7 agosto 1992 dal Centro
Servizi Elettronici, srl, società partecipata anche da alcune banche per l'elaborazione informatica dei
pertinenti dati gestionali (in breve: CSE), chiedendo l'annullamento del recesso, la reintegra nel
posto di lavoro, anche in via d'urgenza, e il risarcimento del danno.
Esponeva, secondo quanto si legge nella narrativa della sentenza gravata, che l'azienda aveva
ricollegato il licenziamento, nonostante le sue giustificazioni, alle contestazioni del 23 luglio, per
aver avuto un diverbio con un suo collega e del 24 luglio, con cui gli era stata addebitata la
cancellazione, con rilevante danno economico, di alcuni archivi elettronici del servizio da lui diretto.
Instaurato il contraddittorio, si costituiva il CSE che chiedeva, esaurita la fase urgente, il rigetto del
ricorso e l'accoglimento della domanda riconvenzionale, diretta ad ottenere la condanna del Brighi al
risarcimento del danno, indicato in circa L. 737 milioni, subito a causa della condotta contestatagli.
All'esito dell'istruttoria, integrata da consulenza, il Pretore rigettava il ricorso del Brighi,
condannandolo, in favore del CSE, al risarcimento dei danni, che liquidava in misura corrispondente
a 420 ore lavorative.
Sull'appello principale del Brighi, variamente e diffusamente articolato, e su quello incidentale della
società, diretto ad ottenere la condanna del lavoratore al pagamento dell'indicata somma di L. 737
milioni, "a titolo di risarcimento dei danni conseguenti e dipendenti dalla condotta colpevole
contestata al sig. Costante Brigi (*) e posta a fondamento dell'intimato licenziamento" (così in sede
di conclusioni riferite dalla sentenza d'appello), il Tribunale annullava il licenziamento, condannando
la società alla reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro, al pagamento delle mensilità e delle
contribuzioni previdenziali non corrisposte, e rigettava la domanda riconvenzionale.
A fronte dei vicendevoli motivi d'impugnazione il Tribunale, richiamati i due addebiti da cui era
scaturito il licenziamento, osservava, anzitutto, in relazione alle eccezioni di natura procedimentale
svolte in quella sede dalla difesa del Brighi, che era "francamente improbabile" che il CSE fosse
venuto a conoscenza della seconda contestazione, concernente l'erronea cancellazione, dalle
memorie dell'elaboratore, di importanti dati bancari, con danni rilevanti per il Centro e per gli Istituti
di credito consorziati, solo in concomitanza con il diverbio, oggetto della prima accusa, né avesse
precisato come e quando avesse appurato l'avvenuta cancellazione, avendone la società sottaciute le
circostanze, con comportamento "che mal si concilia con le esigenze di correttezza e di buona fede".
D'altra parte, il Tribunale, d'ufficio, ravvisava un grave difetto procedimentale della contestazione
per esservi descritto il solo fatto materiale, senza la precisazione della norma contrattuale o legale di
riferimento e delle sanzioni applicabili, segnalando, al riguardo, che il contratto collettivo
"ultimamente acquisito agli atti" prevedeva solo l'elenco delle sanzioni applicabili, senza alcun
collegamento con le violazioni disciplinari. Pertanto dichiarava, motu proprio, la nullità del recesso,
anche perché il Brighi si era limitato, in sede di giustificazioni, a contrastare i fatti, non anche la loro
rilevanza sul piano delle sanzioni applicabili, tenuto conto che al diverbio non erano seguite vie di
fatto e che la cancellazione dei dati informatici non era dipesa da dolo.
Quanto alla domanda riconvenzionale, pur ritenuta astrattamente compatibile con il comportamento
colposo del lavoratore, il Tribunale, oltre a non condividere il giudizio risarcitorio del Pretore,
fondato sul tempo necessario per ricostruire i dati cancellati, moltiplicato per la fatturazione oraria
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delle prestazioni del calcolatore, argomentava di doverne determinare l'incidenza solo in base alla
perdita subita, in quanto l'eventuale ricostruzione dei dati cancellati sarebbe stata effettuata
"pacificamente" di "notte o durante i fine settimana", "in orari in cui il calcolatore non era impegnato
in altre attività", non potendo comprendersi nel danno anche i costi generali di ammortamento,
manutenzione, deterioramento, ecc., dell'elaboratore, la cui attività viene svolta automaticamente,
una volta impostati i dati.
In questo quadro il Tribunale, tenuto conto che non era emerso che fosse stato denunciato, dalla
Banca d'Italia o dalle banche consorziate del CSE, un danno, che reputava comunque concretamente
valutabile in "misura modesta", in relazione al costo di ripristino dei dati, e che la contestazione
aveva evidenziato la cancellazione della elaborazione di una serie di dati grezzi", rigettava,
"astraendo da ogni problematica di colpa" ed essendo mancata la prova dei "meri costi
materiali" (energia elettrica, usura dei macchinari, numero di ore di funzionamento, ecc.), la pretesa
risarcitoria del CSE, rifiutandola anche sotto il profilo equitativo, non essendo "stata fornita la prova
dell'impossibilità di fornire la prova diretta".
Contro la sentenza del Tribunale il Centro Servizi Elettronici propone ricorso per cassazione,
illustrato con due motivi.
Resiste Costante Brighi con controricorso e ricorso incidentale condizionato, cui si oppone il CSE,
con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
Con il primo mezzo d'impugnazione il Centro Servizi Elettronici, srl, espone la violazione e falsa
applicazione dell'art. 7, comma secondo, l. 20 maggio '70, n. 300, in relazione agli artt. 99 e 112,
cod.proc.civ., e all'art. 24, comma secondo, cost., per avere la sentenza, d'ufficio, non avendone le
parti discusso nel corso del processo, o se ne fosse doluta la difesa del lavoratore, dichiarato nullo il
licenziamento, non essendo stata, all'atto della contestazione, indicata la sanzione applicabile.
In particolare, osserva che la nullità, per violazione dell'art. 7, St. lav., del licenziamento, era stata
limitata e si era esaurita, in primo grado, con il superamento della questione della legittimazione del
soggetto (direttore) deputato a intimare il recesso, ed evidenzia l'improponibilità, per violazione
dell'art. 437, secondo comma, cod. proc.civ., delle argomentazioni avversarie, espresse per la prima
volta in appello, sulla modificazione dei motivi di licenziamento e sulla tardività della contestazione
disciplinare, in quanto, su dette questioni, s'era formato il giudicato implicito e, comunque, era
inammissibile, in grado d'appello, la prospettazione di ulteriori motivi di nullità del recesso.
In quest'ottica, rileva che non è consentito al giudice, tenuto conto del principio dispositivo del
processo e di quello della corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato, non trovando applicazione in
sede processuale l'art. 1421, cod.civ., riaprire ed esaminare d'ufficio la questione della violazione
dell'art. 7, cit., sotto il profilo dell'omessa indicazione della sanzione, quale requisito dell'addebito,
non essendone necessaria la previsione, secondo la stessa giurisprudenza della Corte.
Sostiene, nel secondo motivo di ricorso, in relazione al rigetto della domanda riconvenzionale di
risarcimento del danno, la insufficiente e contraddittoria motivazione, nonché la violazione dell'art.
1223, cod.civ., in relazione all'art. 360, nn. 3 e 5, cod.proc.civ., contestando l'esclusione del mancato
guadagno dalla valutazione del danno, posto che, per determinarne l'ammontare, andava
commisurato il tempo delle elaborazioni inutili disposte dal Brighi, che poi aveva dovuto cancellarle,
e, più in generale, protesta l'adesione acritica del Tribunale alle tesi difensive del lavoratore, e
l'apodittica valutazione della modesta entità del danno effettivo sofferto, resa senza considerare,
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doverosamente, perché emergente da ampia documentazione, richiamata dalla consulenza rinnovata
in grado d'appello, l'inutile impiego di risorse umane e tecnologiche fatto dal Brighi, che aveva poi
cancellato i dati immagazzinati, per la loro evidente inutilità.
Per parte sua, il Brighi, con il controricorso, richiamata la correttezza della decisione del Tribunale,
per aver escluso qualsiasi ipotesi dolosa nei suoi comportamenti, sottolinea la legittimità della
dichiarazione, d'ufficio, della nullità del recesso (art. 1421, cod.civ.), reputando inammissibile la
prospettazione, sollevata da controparte, della questione risarcitoria, che reputa correttamente risolta
dal Tribunale, anche in considerazione della valutazione di merito, esplicitata in sentenza, circa la
mancanza di giusta causa del recesso.
D'altra parte, con ricorso incidentale condizionato, il Brighi, denunciando error in procedendo e
difetto di motivazione, ripropone le censure, sottoposte in sede d'appello al Tribunale (che non le
aveva affrontate, essendo risultate assorbite dalla decisione), della modificazione e della tardività
della contestazione, da un lato sottolineando che l'accusa iniziale aveva riguardato la distruzione
dell'elaborazione ARS 2-Banca d'Italia, mentre in corso di causa ne era stato modificato il contenuto,
introducendo la mancata elaborazione del programma; dall'altro ricordando che il CSE conosceva sin
dal 90/91, e non solo dal luglio/agosto 92, che egli aveva elaborato il sistema ARS 2- Centrale rischi,
in luogo del ARS 2- Banca d'Italia.
Contro queste censure la difesa del CSE oppone, nell'ulteriore controricorso, l'inammissibilità della
deduzione, sia perché il Brighi era risultato completamente vittorioso in appello, sia perché le
richiamate eccezioni (di modifica e tardività della contestazione) erano state proposte per la prima
volta nell'atto d'appello ed erano, oltretutto, infondate nel merito, in quanto "omissione e distruzione
degli archivi erano vicende indissolubilmente connesse e consequenziali", mentre la tempestività
dell'addebito, secondo quanto diffusamente emerso nella fase di merito, era asseverata dal fatto che il
CSE era venuto a conoscenza della cattiva gestione del sistema tra l'aprile e il giugno 1992.
Tanto premesso, ritiene la Corte che il primo motivo di ricorso possa essere valutato
congiuntamente, per l'evidente intreccio che l'interseca, con le questioni (di modificazione e di
tardività della contestazione) sollevate dalla difesa del Brighi nel suo ricorso incidentale.
In relazione a queste ultime devono essere condivise le osservazioni d'inammissibilità illustrate dalla
difesa della CSE nel suo controricorso. Esse, infatti, non appaiono di carattere preliminare, sotto il
profilo processuale (v. Cass., 24 settembre '94, n. 7849), rispetto alla questione (di incompletezza
della contestazione), su cui la sentenza ha fondato la dichiarazione di nullità del recesso.
Inoltre sono state proposte dalla parte risultata totalmente vittoriosa nella fase di merito, sicché,
sorgendo l'interesse ad impugnare dalla soccombenza, neppure implicitamente rinvenibile all'interno
della sentenza d'appello, questa parte non può dolersene.
Così delineato l'ambito del problema, merita, per contro, di essere accolto il motivo del ricorso
principale, non potendo essere trascurato il principio di diritto, condiviso dal Collegio, secondo cui,
qualora il lavoratore abbia dedotto, con il ricorso introduttivo di primo grado, l'illegittimità del
licenziamento (oltre che per difetto di giusta causa o giustificato motivo), anche per motivi di nullità
dell'atto per difetto di riferibilità al Centro, essendo stato il direttore a manifestare il recesso,
costituisce domanda nuova quella proposta in appello per ottenere l'accertamento della nullità del
licenziamento medesimo per l'inosservanza, a vano titolo, della procedura prevista dall'art. 7, dello
Statuto, in quanto quest'ulteriore prospettazione del petitum comporta la deduzione di un'altra,
diversa causa petendi, con l'inserimento di un fatto nuovo a fondamento della pretesa e di un diverso
tema d'indagine e di decisione. D'altra parte l'esame di tale domanda, o l'accertamento ex officio
della nullità, anche ad altro titolo, della contestazione, non può ritenersi fondato sul principio,
estensivamente inteso, dell'art. 1421, cod.civ., circa la rilevabilità d'ufficio della nullità (del
contratto) in ogni stato e grado del giudizio, in quanto esso, quale regola cardine dei rapporti
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contrattuali interpersonali, a carattere paritario, va rapportato alle regole, di carattere pubblicistico e
sovraordinato, del processo e, segnatamente, coordinato con i principi della domanda e della
corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato (artt. 99 e 112, cod.proc.civ.), i quali escludono che il
giudice possa dichiarare di sua iniziativa, spontaneamente, una nullità il cui accertamento
presuppone l'esercizio di una azione diversa da quella in effetti proposta (giurisprudenza costante: v.
Cass., 16 aprile '99, n. 3810, 15 febbraio '96, n. 1173; 16 giugno '94, n. 5883; 9 gennaio '93, n. 141;
15 febbraio '91, n. 1589; 26 marzo '90, n. 2018).
D'altra parte, e solo per completezza, essendo la questione già esaurita dalla precedente
argomentazione, quanto all'addotta, ex officio, incompletezza della contestazione, perché esplicitata
senza la previa indicazione delle sanzioni applicabili, reputa la Corte, rifacendosi a precedenti, da cui
non v'é motivo di discostarsi (v., ad es., Cass. 23 maggio '89, n. 2465), che, tranne il caso, qui non
emerso, né oggetto di esplicita, corrispondente censura, in cui la disciplina collettiva concretamente
applicabile ne imponga il richiamo, non sia necessaria la contestuale menzione delle sanzioni
disciplinari astrattamente applicabili, ma solo la definizione dei fatti, da descrivere nella loro
oggettività materiale, nella specie evidenziati nella lettera (nelle lettere) di contestazione originarie,
cui, correlativamente, si innesta il motivo del recesso e, più in generale, l'adozione della misura
disciplinare (v. Cass., 25 febbraio '98, n. 2045; 23 gennaio '98, n. 624).
Come più sopra ricordato il Tribunale aveva, invece, ritenuto che "l'art. 58 del ccnl per il personale
direttivo delle aziende di credito...riporta...l'elenco delle sanzioni, ma non quello degli illeciti da
sanzionare...".
Né, per altro verso, il Collegio ritiene convincente, nell'economia del presente giudizio, il richiamo a
quelle sentenze di questa Sezione, fra cui va annoverata anche la n. 3157 del 24 maggio '85, citata
dalla difesa del Brighi, (ma v., anche, ad es., 4 novembre '88, n. 5974), secondo cui occorre indicare,
"con riguardo alle effettive inadempienze del lavoratore" accanto "alle condotte perseguibili in via
disciplinare, le correlative sanzioni", dovendo, anche questo profilo, del tutto condivisibile in
particolari contesti contrattuali e processuali di riferimento, coinvolgere ab origine il tema in
contestazione e non già essere frutto di una innovativa escogitazione della sentenza, neppure
sottoposta alla verifica del confronto argomentativo delle opposte tesi delle parti, in conformità al
principio dispositivo del processo, dal quale è inopportuno, oltreché erroneo, discostarsi.
Pertanto, questo primo motivo di ricorso, deve essere accolto, mentre, corrispondentemente, vanno
dichiarati inammissibili i motivi del ricorso incidentale condizionato, sopra ricordati.
Quanto al secondo mezzo del ricorso principale, che censura la sentenza per non aver accolto la
domanda (riconvenzionale) risarcitoria nei confronti del Brighi, pur riconosciuta compatibile dalla
sentenza gravata ("La dichiarazione di nullità del licenziamento per nullità della contestazione non
esime dall'esame della richiesta del CSE di risarcimento dei danni: anche un fatto colposo che non
giustifica il licenziamento comporta in via di principio il risarcimento del danno secondo le regole
generali"), valgono le seguenti osservazioni.
Nel contratto di lavoro subordinato il lavoratore si obbliga, ottenendo in corrispettivo la retribuzione
pattuita (o definibile ex art. 36, cost.), non alla realizzazione di un opus, come nel contratto di
appalto, ma a collaborare nell'attività dell'impresa, mettendo a disposizione di chi assume il rischio
del risultato, in conformità a quel potere d'iniziativa e di direzione, il proprio lavoro intellettuale o
manuale (art. 2094, cod.civ.).
D'altra parte, il contenuto della prestazione lavorativa non è generico e indifferenziato, ma si
riconnette immediatamente ai doveri di diligenza e di fedeltà, funzionali e proporzionali, in relazione
alla posizione rivestita all'interno dell'impresa, al corretto espletamento della collaborazione.
La giurisprudenza è ormai convinta da tempo (v. Cass., 20 luglio '66, n. 1964) che la violazione degli
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obblighi di fedeltà e diligenza non esaurisca il potere (gerarchico) di reazione del datore di lavoro
con l'applicazione delle sanzioni disciplinari, ma coesista, sul piano contrattuale, con la pretesa
risarcitoria, quale conseguenza dell'inadempimento.
La questione che si pone, allora, in questa diversa ottica, riguarda l'analisi della condotta colposa,
non in funzione del venir meno dell'elemento fiduciario, che permea e supporta il rapporto di
collaborazione in un determinato contesto dell'attività aziendale e dà luogo all'esercizio del potere
disciplinare, ma in funzione dell'adempimento / inadempimento delle reciproche obbligazioni
contrattuali.
Questa valutazione, pertanto, si pone su un piano distinto, anche se parallelo rispetto all'altra, poiché
l'evento deve essere calibrato non più sul versante della fiducia, emergente nel rapporto di lavoro
sotto il profilo dell'art. 2119, cod.civ., ma sull'accertamento della condotta colposa, in funzione della
prestazione pattuita, per violazione degli obblighi di diligenza e correttezza, la cui dimostrazione,
che non può essere presunta sulla base della prova del venir meno dell'elemento fiduciario, fa
integralmente, e distintamente, rispetto all'altra vicenda, carico al datore di lavoro, costituendo
elemento costitutivo della sua ulteriore pretesa, e, come tale, va analizzata, nei limiti della
prevedibilità (art. 1225, cod.civ.), secondo un criterio di normalità, che si pone come misura del
danno risarcibile.
Ne consegue che la parte deve fornire le prova di questo contesto, e il giudice non può prescindere
dall'esame delle circostanze rilevanti per la sua dimostrazione e definizione, tenuto conto che si tratta
pur sempre di colpa contrattuale, e non aquiliana (v. Cass., 19 aprile '97, n. 3395; 21 maggio '93, n.
5778).
In altre parole non si può sostenere che il lavoratore, cui sia stato addebitato un determinato
comportamento come fonte del licenziamento, debba essere, per ciò stesso, onerato dalla prova che
l'evento dannoso, subito dalla azienda, non sia dovuto a sua colpa, perché ciò significherebbe porre a
suo carico il rischio dell'impresa, invertendo altresì ingiustificatamente il principio dell'onere della
prova, per contro assegnato al soggetto che assume l'inadempienza, secondo la regola generale
sancita dall'art. 2697, cod.civ..
Orbene, tutta questa analisi, essenziale per la corretta valutazione dell'elemento soggettivo in un
contesto di responsabilità contrattuale, è stata trascurata dal Tribunale.
Infatti non solo si legge (v. sentenza, punto 5, ultimo periodo) che "ogni problematica relativa alla
materialità dei fatti, e all'effettiva esistenza dei fatti materiali dedotti nella seconda delle due
contestazioni, a rigore rimane assorbita", in seguito alla nullità della contestazione, sicché va qui
rilevato che rimane incerto, né viene delineata la misura dell'inadempimento dedotto, ma é, altresì,
risultata evanescente la colpa, perché, secondo quanto sostiene la sentenza, "anche astraendo (il
giudizio di responsabilità contrattuale: n.d.r.) da ogni problematica della colpa, le voci di danno
esposte dal CSE non potrebbero essere addebitate al signor Brighi" (v. ivi, punto 7).
Più in particolare, il Tribunale, invertendo il normale metodo di valutazione del risarcimento del
danno, inteso come formula omnicomprensiva. ha escluso, con argomenti di cui non si comprende il
motivo conduttore, anche perché avulso, per quanto riferito, dall'analisi della responsabilità
soggettiva, di dover affrontare, in seguito all'appello del Brighi, sia l'accertamento dell'an, sia la
misura del risarcimento, come strutturato nelle sue componenti essenziali (art. 1223, cod.civ.),
eludendo, in questo contesto, l'elemento, coessenziale, ai fini della definizione del quantum, della
prevedibilità del danno, limitandosi, in ultima analisi, a ritenere ingiustificato l'ammontare della
pretesa, contrapponendo questo giudizio apodittico alla tesi del CSE, che dà, a sua volta, per
scontata, l'affermazione della responsabilità del Brighi, anche sul piano dell'inadempimento.
Pertanto questo secondo motivo deve essere accolto nel limiti testé riferiti.
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In conclusione il Tribunale di Forlì, cui quale giudice pari ordinato la presente causa va rimessa
anche per la regolamentazione delle spese di questo giudizio, dovrà con pienezza di poteri
d'indagine, ripercorrere interamente il giudizio d'appello, sia in relazione al contestato licenziamento
che alla conclamata inadempienza, accertando, sul piano del rapporto di lavoro, la rottura
dell'elemento fiduciario e, sul piano contrattuale, non solo "la materialità" dei fatti, la cui entità è
risultata "assorbita" dalla decisione dirimente del Tribunale, ma, soprattutto, esclusa ogni ipotesi
dolosa, l'esistenza della colpa del Brighi e la misura del danno risarcibile, tuttora in contestazione,
definendo, quindi, le opposte pretese versate in giudizio sulla base dei principi di diritto sopra
enunciati.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi. Accoglie il ricorso principale e dichiara inammissibile quello incidentale.
Cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, al Tribunale di Forlì.
Così deciso in Roma il 7 aprile 2000.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IN DATA 26 GIU. 2000
(*) ndr: così nel testo.
c.c. art. 1225
c.c. art. 1421
c.c. art. 2104
c.c. art. 2119
c.p.c. art. 99
c.p.c. art. 112
c.p.c. art. 414
c.p.c. art. 420
c.p.c. art. 434
c.p.c. art. 437
L. 20/05/1970 n. 300, art. 7
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