Numero Gennaio `06

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Numero Gennaio `06
Numero Gennaio '06
EDITORIALE
Bentrovati a tutti, e benvenuti a quello che è il primo Fuori dal Mucchio non solo del
2006, ma anche della rimodernata veste grafica del nostro sito Internet. Grafica
completamente nuova, quindi, per la ormai consueta infornata di interviste,
recensioni e live report dedicati a un mondo, quello degli “emergenti, autoprodotti,
esordienti, sotterranei, di culto” italiani, che sembra infischiarsene di una crisi
sempre più evidente, vista la quantità sempre maggiore di CD che arrivano ai nostri
indirizzi.
Convinti, come ogni mese, di offrirvi una panoramica quanto mai esaustiva e
variegata di quanto succede nello Stivale, cogliamo l’occasione per anticiparvi che,
nelle prossime settimane, Fuori dal Mucchio diventerà ancora più ricco e interattivo,
con la possibilità per i gruppi di mettere a disposizione i propri brani in formato .mp3
e per i lettori di votare i loro dischi preferiti. Tutti progetti in fase di studio, e di cui vi
parleremo prossimamente in maniera più diffusa. Sono invece già in linea gli
arretrati del nostro inserto a partire dal luglio scorso, mentre i rimanenti verranno
inseriti a breve.
In cambio di tutto questo, vi chiediamo solo un piccolo sforzo: quello di registrarvi
nell’apposita sezione del sito. Un’operazione – naturalmente gratuita – che richiede
solo pochi minuti, e che permette di accedere a tutta una serie di servizi tra cui,
appunto, la possibilità di leggere e scaricare Fuori dal Mucchio.
Ciò detto, non indugiamo oltre, e vi lasciamo alla lettura, che ci auguriamo
gradevole e interessante.
Aurelio Pasini
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Fuori Dal Mucchio è a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini - online at http://www.ilmucchio.it
Numero Gennaio '06
Rosaluna
Musicomio
Wild Flower/Venus
Inizia con lo scricchiolante rumorìo di Gatto Ciliegia contro il Grande Freddo, il
nuovo capitolo discografico dei Rosaluna. Un lavoro che comunica “un’incertezza
che si attacca alla pelle”, come recita un verso di “Bologna”, e insieme,
curiosamente, una saldezza artistica di chi governa il timone senza flessioni.
Soffiando su una tastiera psichedelica cangiante, che abbraccia il tango-punk di “Le
parole migliori”, la tarantella elettrica e deformata di “Slide Show”, il post-pop-rock
din-don-dante di “Lei vorrebbe esserci” (mixato come il precedente da Lorenzo “Loz”
Ori dei Technogod). Il balcan prog-rock di “Žena” è solcato da modulazioni ritmiche
e sovrapposizioni di sonorità: qui si segnala la “balkan guitar” del musicista bosniaco
Mustafa Muce Cengic, membro dei No Smoking di Emir Kusturica, coinvolto
organicamente in tutto l’album, essendone il fonico e il co-produttore artistico
insieme a Marco Ambrosi. Quasi tutti i testi sono di Gabriella Ferrise, paroliera dietro
le quinte e voce soltanto sul pezzo iniziale “J.B.” (quello col Gatto Ciliegia). La
sequenza delle tracce disegna la geografia di un’irrequietezza inevitabile, iscritta in
un segreto DNA, secondo la poetica del “musicomio” (“suoni la tua canzone/ senza
una via d’uscita”), e come ben illustrato dal brano “Placido”, il più destabilizzante
dell’album nella sua esplicita, significativa alternanza tra 4/4 e 5/4.
Quarto appuntamento, luna rosa crescente (www.rosaluna.it).
Gianluca Veltri
Appaloosa
Non posso stare senza di te
Urtovox/Audioglobe
Immaginate le canzoni dei nostrani e mai dimenticati Confusional Quartet eseguite
dai Trans Am. O, se preferite, la colonna sonora di qualche poliziottesco dimenticato
rimaneggiata dai Devo. O, ancora, i Man Or Astroman che si mettono a fare
math-rock. Si potrebbe continuare, ma il concetto è questo: l’impatto dei livornesi
Appaloosa – qui al secondo lavoro, adeguatamente ottimizzato in studio da Giulio
Favero, demiurgo del suono One Dimensional Man – è di quelli che non possono
passare inosservati. Strutture ritmiche implacabili e geometriche, gestite da una
batteria precisissima e da un basso il più delle volte distorto, sulle quali si insediano
tastiere e sintetizzatori d’epoca, chitarre oscillanti tra surf e funk, inserti elettronici e
più raramente sample vocali: una miscela gestita con notevole senso della misura,
dato che basterebbe un passo falso per scivolare nell’autocompiacimento o cedere
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a toni eccessivi. Non accade in nessuno dei dieci brani di “Non posso stare senza di
te”, disco teso e coinvolgente lungo l’intera durata. Tra i momenti più riusciti e
meritevoli di segnalazione, una “Brigidino” che si fa efficace dichiarazione d’intenti
introduttiva, una “Ap(p)ache” dominata da un wah-wah funkadelico, l’azzeccatissima
e tortoisiana “4 Women” e la chiusura strepitosa, tra surf, desert-rock ed
electroclash di “Metal alle Hawaii”. Un rock strumentale estremamente fisico, che
pure non disdegna l’avventura e la ricerca, divertente ed eclettico (
www.appaloosarock.com).
Alessandro Besselva Averame
Babalot
Un segno di vita
Aiuola
La chiave di lettura del disco la si trova nelle note nel retro di copertina, nelle quali
si legge “R.I.P. i Babalot”. Se infatti, pur essendo la ragione sociale strettamente in
mano del solo Sebastiano Pupillo, l’esordio “Che succede quando uno muore”
(2003) poteva in qualche modo essere considerato un lavoro di gruppo, “Un segno
di vita” è in tutto e per tutto un disco solista. E il risultato più evidente è che
all’interno di quindici tracce c’è assolutamente di tutto: dal più tipico cantautorato
pop lo-fi (“Antifurto”, beckiana fino al midollo) al folk, dal rock’n’roll più sguaiato
all’elettronica più povera, sminuzzati e centrifugati con abbondanti dosi di ironia fino
a dar vita a un insieme imprevedibile e multiforme, che fa proprio della scarsa
omogeneità la sua carta vincente. Del resto, una creatività così straripante come
quella del Nostro non può venire imbrigliata e incanalata in percorsi predefiniti, ma
deve essere lasciata libera di spaziare a proprio piacimento, ché anche i momenti
all’apparenza più sfilacciati e incompiuti nascondono al loro interno intuizioni brillanti
e tutt’altro che banali. Come se non bastasse, poi, al termine delle quindici tracce
della scaletta si trovano qualcosa come dodici ghost-track, tra cui una cover per
chitarra acustica e vocoder di “Uomini” dei Ritmo Tribale, schegge di punk e un
remix della già ricordata “Antifurto” a opera di tale DJ Pancetta. Insomma, un CD
accattivante proprio perché dispersivo e non sempre a fuoco; se non (ancora)
geniale, per lo meno genialoide (www.aiuola.it).
Aurelio Pasini
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Verona Aid Concert
Verona Aid Concert
VideoRadio
Non è consuetudine di questa rubrica dare spazio alle raccolte, ma vista lo spirito
della proposta abbiamo deciso di fare un’eccezione. La scorsa primavera, grazie ad
un’iniziativa di Ruben, artista di cui vi abbiamo riferito in occasione della
pubblicazione dei suoi due album, ha organizzato una lunga maratona musicale di
beneficenza, per raccogliere fondi, in collaborazione con l’Unicef locale, a favore
delle vittime dello Tsunami. Iniziativa lodevole, ma accolta con il solito disinteresse
da Verona, città prolifica in fatto di proposte rock (e dintorni), ma soffocata da un
provincialismo che da sempre ne limita l’enorme potenziale culturale. Nonostante
una scarsa affluenza di pubblico, la manifestazione è riuscita perfettamente e le 33
canzoni, mostrano tanti volti della Verona musicale. Da una sempre più convincente
e popolare Veronica Marchi, ai noti Farabrutto, gli outsider Lulù Elettrica, Mr.Wilson,
Nonalogica e Regina Mab, i sempre attivi Nuovi Cedrini, passando per Ruben, John
Mario e Fabio Fiocco (un musicista che meriterebbe davvero almeno una
chance…), fino all’artiglieria pesante di Mothercare e Shelter Of Leech, senza
dimenticare Crvna, Poseidon, Maryposh (in coppia con la Marchi), Corky e
Modididire. Diversi stili, ma uguale intensità, per una qualità media di indubbio
valore. Confezionato con cura, “Verona Aid Concert”, è la fotografia quasi perfetta di
una scena musicale in fermento, a cui manca solo un pubblico attento. Problema
comune a tante città (www.videoradio.org).
Gianni Della Cioppa
Synthesis
Synthetic History
Andromeda Relix/Audioglobe
Agli inizi degli anni ottanta il nascente fenomeno della “new wave of British heavy
metal” raccoglie l’eredità del declinante hard-rock, in un’accelerazione di riff senza
compromessi, asciugato da residue tracce blues e progressive. Anche l’Italia non
tarda a seguire la scia con buone rappresentazioni, ed i ternani Synthesis sono fra i
nomi basilari di quella brillante stagione degli Eighties (1978 è addirittura il loro anno
di formazione) assieme ai vari Vanadium, Death SS, Crying Steel, Revenge, Steel
Crown, Dark Lord e tanti altri. Li ritroviamo ora sorprendentemente ancora in sella,
“fotografati” in un disco che raccoglie brani dal 1984 (“The Light” è tratto dalla
seminale compilation “Metallo Italia”) al 2005. Una storia, la loro, legata ad una
chiara matrice stilistica inglese, nonostante il più recente “Liberi e soli”,
orgogliosamente coerente e fuori dalle mischie modaiole, in un sovrapporsi di riff
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incalzanti, ritmi sostenuti, assolo veloci e lancinanti, nel nome del più classico e
primordiale heavy-metal, attrezzato di buona tecnica, melodie avvincenti. Strada
facendo, la saga metal ha acquisito svariate diramazioni estetiche ed espressioni
giustamente più evolute, ma non di rado ci sorge il sospetto che l’interpretazione più
genuina ed efficace rimanga quella degli inizi, quando la ritmica serrata e il duellare
delle due chitarre erano ancora l’immediatezza di una canzone rock, e a far la
differenza poteva bastare una voce epica ed elegante come quella di Roberto
Casini (www.andromedarelix.com).
Loris Furlan
Tomviolence
Tomviolence
Black Candy/Audioglobe
Che succederebbe se metteste su un bel disco pop e lo suonaste al rallentatore?
Gli squittii delle trombe suonerebbero come un lamento; gli archi, da festosi, si
farebbero estenuanti e malinconici; la voce adolescente che intrecciava versi tra
capriole vocali e saltelli narrativi prenderebbe la forma del parlato e il timbro
profondo del crooner; le chitarre si (di)storcerebbero in una smorfia. E il tutto
risulterebbe molto simile al debutto dei Tomviolence.
Se il post-rock in Italia assume sempre più nitidamente le coordinate di un
movimento e se questo movimento declina di volta in volta il genere in direzioni
leggermente differenti, allora il sestetto in questione non fa eccezione, ma forse
possiede una marcia in più. Le nove tracce del self-titled, infatti, attingono non tanto
al solito stock Slint – June Of 44 – Mogwai, quanto a quella setta di formazioni
d’eccezione come Dirty Three o primi Low, band in grado di mutare il pop in un
esercizio di pena e pazienza. Così il sound dei Tomviolence, attraverso episodi
come “Too Steaming To Impress” oppure “To Set Something Convivial” evoca un
atmosfera molto vicina allo slow core più armonioso e piuttosto distante dal post
rock classico; certo, i crescendo full-sound e i ricami distorti delle chitarre non
mancano (come in “Quite Good Not Song”), ma, anche qui, è più facile che ci si trovi
nelle terre della pop-psichedelia del nordovest americano, che nella geografia
immobile di Louisville. E, sinceramente, va davvero bene così (www.tomviolence.it).
Marina Pierri
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Psycho Sun
Silly Things
Urtovox/Audioglobe
Il curriculum dei salentini Psycho Sun ci presenta una band dal passato non privo di
soddisfazioni. Partecipazioni al Tora! Tora! e due pubblicazioni Oltremanica
precedono questo “Silly Things”, vero e proprio secondo disco: 37 minuti di puro
rock'n'roll con punte di garage (“Corvette” e “Blonde”), psichedelia anni '80 (“About
Your Man” - dal retrogusto Paisley – o “Ben And Cicely”, ispirata a “La banda dei
brocchi” di Coe) e un appeal melodico che li avvicina a certo power-pop (soprattutto
nell'eco Weezer dell'iniziale “Lovers”).
Alla luce di questo, possiamo tranquillamente affermare che se il disco continuasse
con la qualità proposta nelle prime due canzoni - la già citata “Lovers” e “What’s
Going On” - ci troveremmo davanti a un capolavoro pop. In questi estratti l'armonia
è irresistibile e le distorsioni non fanno altro che potenziarne l'impatto. Purtroppo
così non è per gli altri. Perché accanto ad episodi davvero ispirati (“The King”,
“Blonde”) troviamo degli esercizi di stile nemmeno troppo riusciti come “Something
Is Happening”, rockettino senz'arte né parte, la title-track - una ballata acustica
decisamente fuori contesto - e il conclusivo “Walzer Nice Plan”, indecifrabile
electro-walzer buttato lì quasi per caso.
Bicchiere mezzo pieno, quindi. Gli Psycho Sun dimostrano qualità e talento
melodico ma non riescono ancora a focalizzare in tutto e per tutto i loro obiettivi.
Non mettessero troppa carne al fuoco sarebbero dei fenomeni, e le prime due
canzoni di “Silly Things” sono qui a dimostrarcelo (www.psychosun.it).
Hamilton Santià
Stefano Maria Ricatti
Ad ore piene
Storie di Note
Ribellandosi alle scontate catalogazioni, Stefano Maria Ricatti da compositore e
musicista si fa cantautore. Dopo una carriera gloriosa col Nuovo Canzoniere Italiano
e sodalizi con Ernesto De Martino, Gualtiero Bertelli, jazz e folklore progressivo, a
50 anni è giro di boa che rappresenta anche vita nuova e nuove scommesse, non
soltanto somme e consuntivi. Bilanci fa rima con slanci, e al musicista è tornata la
voglia di guardare avanti, “ancora bello dritto in piedi”. Accompagnato dal
RicattiEnsemble, che da decenni traduce in suoni le sue intuizioni, Ricatti sforna
dodici episodi di canzone d’autore artigianale, di ricercata semplicità. Sono canzoni
riscaldate da una vena di pietas sorridente, rivolta a un gran bel viavai di umanità,
“chi coltiva un gran deserto/ chi si occulta a viso aperto”, il single illanguidito dalla
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solitudine (“la sera svuota, rimani tu”), il fuggiasco (“cancella ogni traccia e gli occhi
di un padre”).
Al di là dell’ottima qualità cameristica degli arrangiamenti e delle soluzioni
melodiche, sorprendono le liriche, la capacità di Ricatti di costruire con pochi tratti
situazioni pregne e vivide. In “Ulissi di mari in eclissi” racconta la retta piena di
incertezze di un cammino che non è mai univoco (“la cultura la si acquista metro a
metro”); in “Chi”, senza voler atteggiarsi a moralista, ricorda a ciascuno di noi le
false libertà che ci impoveriscono, “dove tu non conti niente, dove tutto ti è
concesso” (www.storiedinote.com).
Gianluca Veltri
Tributo italiano a Joe Strummer
Tributo italiano a Joe Strummer
Radioclash
È una questione di cuore, questa. Si, perché quando ormai tre anni fa Joe
Strummer se ne è andato una fredda mattina di dicembre, ha lasciato un vuoto che
difficilmente potrà essere colmato in futuro. Ecco quindi che da un paio d'anni i
ragazzi di Radioclash organizzano “10.000 giorni di rock‘n’roll”, il tributo italiano alla
voce – e mente – dei Clash. La prima edizione, datata dicembre 2004, ha visto
riuniti sul palco dell'Estragon di Bologna Gang e Yo Yo Mundi, Tupamaros e Klasse
Kriminale, Klaxon e Linea in un ideale abbraccio: nessuna star, nessun ordine
d'importanza, ognuno ha semplicemente interpretato qualcosa di Joe alla propria
maniera, per ricordarlo e ricordare soprattutto le sue idee. Va da sé che la serata è
stata indimenticabile, talmente bella che pareva assurdo non immortalarla in un
disco, ovviamente autoprodotto e disponibile sui siti Internet www.radioclash.it e
www.punkadeka.it. Dentro ci troviamo di tutto, da una commovente “Garageland”
acustica a opera Gang fino a “White Man In Hammersmith Palais” firmata Radio
Brixton, ma anche “Police And Thieves” e “Stay Free”, rispettivamente appannaggio
di Linea e Klasse Kriminale. Il risultato non è sempre omogeneo, ma in operazioni
del genere l'importante è lo spirito, e ci fa piacere che venga fuori così potente da
questa musica. Ah, dimenticavo: i proventi andranno a Strummerville, l'associazione
benefica creata dei suoi amici per ricordarlo nella maniera migliore. Criminale
sarebbe lasciarsi sfuggire il frutto di tanta passione (www.radioclash.it).
Giorgio Sala
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Ganaian
The Thomas Sankara CD
il manifesto
Ci sono opere necessarie, e “The Thomas Sankara CD” è una di queste, e non lo
diciamo per l’affanno di stare sempre dalla parte giusta. È necessario come un
dovere morale e civile, prima ancora che artistico. Perché questo è l’album di
un’esistenza scritta da un grande uomo con le parole pronunciate durante la sua
vita breve e importante e spazzata via, fissata in un ipnotico incastro sonoro di
parole e musica. L’uomo è Thomas Sankara, presidente del Burkina Faso, il
presidente più povero e incorruttibile del mondo, assassinato a 38 anni da un
commando militare a Ougadougou nel 1987.
Il disco di Alfonso Anagni alias Ganaian scaturisce dalla lettura del libro di Marinella
Correggia “Thomas Sankara, il presidente ribelle”. I discorsi coraggiosi e innovatori
di Sankara sono stati incastrati nei suoni di Ganaian. Ne è nato un lavoro vibrante,
fosco, di elettronica lenta, a metà strada tra ambient ed etnica, privo di retorica, in
cui la cronaca si fa drammatica storia. Un atto politico di denuncia oggettiva contro il
neocolonialismo, senza sbavature terzomondiste: quando si sente la voce del
presidente ammazzato dire ”ogni volta che un africano compra un’arma lo fa per
usarla contro un altro africano” e, presumibilmente respingendo al mittente laute
offerte, “non si può essere dirigenti ricchi di un paese povero”, un brivido corre lungo
la schiena. Special guest Eugenio Finardi in “Set da people free”. Un disco
emozionante (http://musica.ilmanifesto.it).
Gianluca Veltri
John Mario
Viaggiare!
Ustioni Edizioni
Non è un debuttante, John Mario, ma solo recentemente è entrato nei reticolati del
business nazionale, scoprendo i semplici meccanismi che permettono di diffondere
la propria musica. La sua apparizione al festival “Verona Aid Concert”, ne ha
certamente aumentato la visibilità, non solo locale. Ma prima un po’ di storia: John
Mario nasce ventisei anni fa a Chievo, la frazione di Verona che da qualche anno ha
restituito il sorriso all’Italia pallonara con il suo misto di purezza, bel gioco e
semplicità. Il Nostro studia chitarra e canto, contribuisce ai gruppi Home e
Vinciperdi, raccogliendo anche alcune soddisfazioni. Nel 2001 debutta in proprio
con il CD “Les Moods”, dove finalmente può dare sfogo a tutto il suo amore per la
canzone d’autore americana, in bilico tra Dylan, Springsteen e John Cougar
Mellancamp. Dopo una serie di concerti arriva la folgorazione: il passaggio al
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cantato in italiano, una via immediata per raccontare le piccole grandi storie che
sgorgano dalle sue canzoni. Storie che quasi sempre hanno un’anima malinconica
(“Temporale” e “X maggio”), tra nostalgie di un’infanzia lontana e felice (“Ciliegie”) e
le ombre del futuro, tra strada (“Notte”) e sentimenti (“Momenti di un’estate III”) tutti
da decifrare. In possesso di una buona vocalità, John Mario addobba il proprio
repertorio con arrangiamenti semplici e indovinati, con intarsi di soffuse tastiere,
senza mai appesantire la struttura, per un risultato finale gradevole e incoraggiante,
a cui manca solo un pizzico di personalità. Restiamo sintonizzati (www.johnmario.it)
Gianni Della Cioppa
Macromeo
Macromeo
Aiuola
L’omonimo EP di esordio del bolognese Macromeo (al secolo Michele Stefani)
rappresenta la sintesi riuscita di due visioni distinte – ma evidentemente
complementari – di intendere la materia pop: quella di altrettante realtà
discografiche. Da un lato, l’Aiuola, l’etichetta “piccola ma curata” che lo ha
pubblicato, e che si muove lungo la linea che divide la tradizione italiana con le
istanze tipiche della scena indie. Dall’altro, la Riotmaker, con tutto il suo bagaglio di
hip hop, tecnologia più o meno povera e riferimenti sonori e tematici – alti o bassi,
poco importa – agli anni ’80. Un approccio, quest’ultimo, ben rappresentato dagli
Amari, che non a caso hanno partecipato a vario titolo alla realizzazione del
dischetto in questione. Il quale, venendo finalmente al dunque, contiene cinque
canzoni nel senso più classico del termine, registrate in un contesto prettamente
casalingo e all’insegna di un techno-pop immediato e, insieme, estremamente
curato, in cui i tappeti di gommosi sintetizzatori e i battiti sintetici ben si sposano con
melodie appiccicose (in senso buono, s’intende) e liriche intrise di stupita dolcezza,
sensibilità e ironia. Difficile giudicare lo spessore di un artista da un quarto d’ora di
musica, ma anche così l’impressione è quella di un autore dotato e in grado di
mescolare con buona perizia gli ingredienti a sua disposizione, dando vita a
quadretti sonori piacevolissimi e variegati, dall’intimismo di “Tutto inutile” alla
divertita “Tutto è così semplice” fino alla notevole “Gommarosa” (www.aiuola.it).
Aurelio Pasini
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Groove Squared
Groove Squared
Evolution Music Europe
Groove Squared è una sigla che raduna gli sforzi congiunti di Dj Paco, alias Paco
Terio, dj barese con due album alle spalle, attivo da più di un decennio nei circuiti
dell’acid jazz italiano e della house, e del tastierista Paolo Achenza, fondatore del
quotato Paolo Achenza Trio. Abbiamo detto acid jazz, ed effettivamente il principale
mondo sonoro di riferimento è quello, ma il merito del progetto è quello di riuscire a
far risuonare una tradizione consolidata e ormai conservatrice attraverso un senso
del groove che attinge principalmente alla house e alla techno ma che si colora di
tanto in tanto di quegli umori che caratterizzano la scuola mitteleuropea del
downtempo. A dare manforte al duo, altri personaggi di primo piano della scena
pugliese,come il fiatista jazz Gaetano Partipilo e la cantante Stefania Di Pierro, già
al lavoro con Nicola Conte. Il Fender Rhodes di Achenza sottolinea i momenti più
efficaci e diretti, come “Porn-O-Funk” e “Iena”, gli interventi di Partipilo e della Di
Pierro, in brani come la sinuosa e appena un po’ patinata “Music For A Film” o
“Thanks Duke”, offrono al disco la necessaria varietà di registri per farne qualcosa di
più di una semplice compilation di groove-oriented music. Se amate l’acid jazz, la
scuola viennese e chiunque si ponga l’obbiettivo di insinuare calore umano nelle
macchine senza limitarsi a gestire tappezzerie musicali da aperitivo, questo
potrebbe essere il disco che fa al caso vostro (www.pacodj.com).
Alessandro Besselva Averame
Ex-P
Ancora Saigon
Fratto 9 Under The Sky/Goodfellas
“Ancora Saigon”, ancora Fratto9 Under The Sky, ancora post-rock. Oppure,
post-apocalisse, oppure semplicemente altro.
In vita dal 2004, il trio che va sotto il nome di Ex-P porta avanti una formula sonora
ai limiti del tribale, del dilaniato e, a tratti, del programmaticamente sgradevole. Per
sparpagliamento apparente e disordine regolato si fanno paragonare a dei Larsen
Lombriki scarnificati, ai lavori del Mike Patton più sperimentale o a dei Bachi da
Pietra senza cantato. Due bassi in prima linea, assenza quasi totale di chitarre,
percussioni che preparano a un rituale indefinito che si conclude col sacrificio della
melodia: le parole chiave sembrano essere improvvisazione, jazz-noise, caos in
punta di piedi. E di questo, le due parti della title-track parlano chiaramente,
spingendo l’ascoltatore – specie se avvezzo agli stilemi del caso – a confrontarsi
con l’affermazione perentoria, ma quasi non decrittabile, che passa per il clarino
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inquieto della interessante “Ho scritto t’amo sulla spiaggia”. Appena più tardi, il
banjo di “Punto interrogativo” serpeggia fuori contesto sul dialogo accorato di basso
e batteria, per poi ricomparire mascherato in “Zaratustra Reprise”, per undici minuti
finali che suggellano una tracklist solo formalmente divisa in otto parti (realmente
“Ancora Saigon” assomiglia a un’unica suite).
Gli Ex-P si tirano fuori dal cerchio del post-rock con un piede solo ma con un gesto
deciso. E appaiono, con ben poco margine di dubbio, un progetto di qualità (
www.fratto9.com).
Marina Pierri
MoRkObOt
MoRkObOt
Lizard-Airbag/Audioglobe
Una biografia che pare un racconto di fantascienza. Guidati da Lin, Lan e Len, i
MoRkObOt dicono di provenire da una delle più antiche galassie del cosmo e sono
qui per sottomettere anche la Terra al suono delle loro note sadiche a base di deliri
psichedelici. Credeteci o no, questo esordio suona proprio come i tre presunti
extraterrestri raccontano: un rock liquido e magmatico, dove il suono si fa confuso e
caotico e procede tra note fangose, accordi colloidali e improvvisi raggi di luce, se
non melodici, perlomeno umani. Immaginate un incrocio tra i primi e più allucinati
Black Sabbath, dove il blues si fa primordiale, gli Hawkwind con il loro incedere
lisergico e un fragoroso tocco di moderno noise, con Tool, Shellac, God e i recenti
Black Mountain nel cuore – ovviamente nero. Il compito di amalgamare questa lava
fusa di influenze tocca al noto Fabio Magistrali, che sembra aver stabilito un dialogo
costruttivo tra due linguaggi – terrestre ed extra – apparentemente incomprensibili.
Se a un primo ascolto il CD suona assai violento anche per chi ha dimestichezza
con queste timbriche, già dal secondo si aprono squarci di linearità, per poi
approdare ad un senso costruttivo emozionale, quasi a testimonianza che il rock, in
tutte le sue forme, rimane comunque una musica fatta di sensazioni, più che di
logica. Intelligentemente, i MoRkObOt evitano di dilungarsi e sintetizzano le loro
dieci tracce – non chiamiamole canzoni – in poco meno di quarantacinque minuti,
mossa vincente che conferisce all’album una vitalità altrimenti a rischio (
www.morkobot.com).
Gianni Della Cioppa
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Zetazero
Ripartire da zero
Blend’r/Self
Pop scanzonato e leggero, canzoncine da tre minuti o poco più con lo scopo
(dichiarato) di attaccarsi addosso come il chewing-gum sotto le scarpe, ritornelli a
presa rapida che puntano a stupire attraverso giochi di parole, (mal)celate pretese
intellettuali e buffi nonsense ad effetto. Che l’album d’esordio degli Zetazero sia un
prodotto studiato per piacere a un pubblico più ampio dei quattro gatti che
bazzicano di solito il sottobosco dell’indie italiano è innegabile fin dalla scelta del
primo singolo: “Amore al buio” è una filastrocca ballabile, ruffiana e divertente, che
in un colpo solo si fa beffe di Subsonica e Bluvertigo trasformandoli in un allegro
fenomeno da baraccone. I più snob certamente storceranno il naso all’ascolto
dell’elettro-pop senza pretese del duo siciliano, di fronte ai suoni puliti e senza troppi
spigoli delle trame chitarristiche e alla voce chiara e spesso carica d’effetti; ma
canzoni come “C’est la vie” e “Confondimi” sembrano uscite dalla penna del Max
Gazzè più ispirato. A ben vedere, quindi, non è né nelle (legittime) velleità
commerciali né nei riferimenti al synth-pop (XTC e Todd Rundgren, mica Duran
Duran e Spandau Ballet!) che risiede il limite di “Ripartire da zero”, bensì in una
ricerca melodica che non sempre riesce a piazzare il guizzo vincente ma che, grazie
alla produzione attenta di Mario Conte, non scade mai nella noia. Insomma, se tutto
ciò che si chiede alla musica sono una cinquantina di minuti di svago, il disco svolge
egregiamente il suo mestiere e val bene un ascolto (www.blend-pme.com).
Enzo Zappia
Hello Daylight
Gemma
Acid Soxx
Potremmo cominciare questa recensione dalla fine, occupandoci di "Cuore di
cane", il video di Diego Lazzarin allegato a "Gemma". In parte perché il suddetto
video - obiettivamente piuttosto inquietante - merita più di un'occhiata distratta, data
l'originalità e la pregevole fattura; in parte perché lo stesso ci pare ben
rappresentare la musica degli Hello Daylight. Una musica intensa, colorata, talvolta
piacevolmente caotica, che parte dal concetto di psichedelia e indaga le numerose
variabili stilistiche proprie del genere, spingendo talvolta sul pedale dell'elettronica,
espandendo in qualche caso le trame acustiche e le voci, giocherellando spesso
con tastiere e campionamenti.
Dal calderone ribollente del gruppo spunta fuori il nome di Björk quando si parla di
linee melodiche sintetiche, dei Blues Explosion nel momento in cui si affronta il tema
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"ossessioni post-industriali", della new-wave e di certo pop mainstream anni Ottanta
in occasione delle virate armoniche più impostate. Il tutto abilmente mixato in una
formula dal forte impatto emotivo.
L'esperienza d'ascolto passa dai toni decisamente "high" di "Soft Medea" alle
reiterazioni ritmiche di "Big Mistake" e "Mr. Nowhere Song", dalle pacatezze eteree
e scratchate di "Winters Tale" ai suoni minacciosi di "National Gallery", dai vaghi
sapori rétro di "Urethra" alle contorsioni stilistiche della ghost-track conclusiva,
dando vita ad un otto volante stilistico dal cuore caldo e dall'inaspettata
immediatezza (www.hellodaylight.com).
Fabrizio Zampighi
The Vendetta
Terror Nation
Brutus
Partiamo subito dalle dolenti note: purtroppo “Terror Nation” consta solo di sei brani
per diciotto striminziti minuti di musica; gli unici a guadagnarci sono i nostri
padiglioni auricolari, già messi a dura prova in così poco tempo. L'esordio
discografico dei Vendetta è però talmente bello ed ispirato che gli si perdonerebbe
quasi tutto. Ma andiamo con ordine: nato come Bloodline nel 2002, il gruppo cambia
formazione e nome un paio d'anni fa, perdendo per strada anche la propria identità
individuale, con tanto di sostituzione dei nomi dei componenti con anonime sigle e il
passamontagna calato ai concerti.
Musicalmente, siamo in un vasto territorio che comprende la furia hardcore e il
sound dei Judas Priest, l'Oi! ed il punk white trash, un mix molto energico ma ben
congegnato e che fa sì che brani come “I Hate You” e “Tonight” siano praticamente
perfetti per un concerto in cui mettere a dura prova ossa e corde vocali. Considerata
anche la natura di esordio di “Terror Nation”, il suo ascolto mette in luce capacità
rare di questi tempi, e non è un caso che i Vendetta abbiano condiviso un tour in
compagnia dei torinesi Woptime, altra forza della natura di cui andare orgogliosi, e
che abbiano già in programma tour europei e non solo.
Continua, dal basso, la riscossa del movimento punk italiano: siamo davvero in
buone mani (www.brutusrecords.com).
Giorgio Sala
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Stefano Panunzi
Timelines
ReS/Silenzio
Accompagnato da uno stuolo di importanti e rinomate collaborazioni, il tastierista
romano Stefano Panunzi si presenta con un disco di rara eleganza e finezza
espressiva. L’ex Japan Mick Karn, col suo lirico fraseggio di basso, è l’ospite di
rilievo, tuttavia solo un tassello di un mosaico ricco di policromie, intessuto di
delicate essenze ed atmosfere post-new-vave, tanto care alla frangia più colta e
creativa riferibile, tanto per citare dei nomi illustri, a David Sylvian e Tuxedomoon.
Impressiona favorevolmente Panunzi perché musicista vero, con una pregevole
concezione compositiva e dell’equilibrio sonoro, con un tastierismo mai
protagonista, bensì mirabile fondale luminoso nell’evidenziare i tratti solistici del sax
e clarinetto di Nicola Alesini (“Everything 4 Her”, “Forgotten Story”), della splendida
tromba di Mike Applebaum (“No Answer From You”, “The Moon And The Red
House”, “Tribal Innocence”, Something To Remember”, “I’m Looking For”). Tessiture
lievi ed eclettiche, impreziosite anche dalla melodiosa presenza vocale di Sandra
O’Neill (“Timelines”) e della giapponese Haco (“Web Of Memories”), nel contesto di
un disco sempre coerente, intimistico, dalle soffuse inclinazioni jazz. Potremmo
parlare altresì di una nobile attitudine pop dalla straordinaria raffinatezza e
leggerezza che vorremmo talvolta ascoltare anche dai canali divulgativi più visibili, e
che la trevigiana ReS ha avuto il merito di condividere e proporre, quale fiore
all’occhiello della sua recente avventura discografica (www.res-net.org).
Loris Furlan
Flora
Flora
Lizard-Airbag/Audioglobe
Tenaci e convinti, Paolo Nicastro e Fabrizio Lusitani, rispettivamente
bassista/cantante e chitarrista dei Flora, hanno sempre creduto nelle loro possibilità,
tanto da tenere alta la tensione anche nei momenti difficili, nel girovagare di
musicisti che entrava ed usciva dal gruppo. Oggi, dopo ben sette anni di frenetica
attività, i Flora sono un quintetto stabile che meritatamente arriva alla meta
dell’esordio discografico ufficiale. Un traguardo raggiunto dopo il premio come
miglior gruppo al concorso “Muzak”, la cui giuria era composta da personaggi come
Manuel Agnelli e Cristina Donà. Oggi i Flora, si definiscono post-rock/jazz, dove il
primo termine fluttua tra armonie arpeggiate e il secondo si fa largo, in un’ottica
moderna, attraverso sonorità vorticose ma sempre dominate da una melodia di
fondo che rende l’ascolto costantemente gradevole. Cosa non mi convince nei Flora
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è l’utilizzo della voce, che appare fuori registro, anche per una timbrica incostante.
Va però detto che il CD è quasi interamente strumentale, e che gli interventi vocali
sono ridotti al minimo. Meglio allora perdersi nei fraseggi di tastiere e vibrafono che
si alternano un po’ ovunque o nel sassofono sensuale che tratteggia una superba
“15/8”, sorta di colonna sonora per un’alba nebbiosa che comunque, finalmente
arriva. Non ci sono virtuosismi nei Flora, ogni nota sembra scritta perché
necessaria, ed è questa la forza di “Bianco, Baltico e Florakiki” e dell’intero album,
frutto maturo di un’esperienza ancora in divenire (www.lizardrecords.it).
Gianni Della Cioppa
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L’Enfance Rouge
Teoria e pratica di una rivoluzione autarchica. L’Enfance Rouge di François Régis
Cambuzat e Chiara Locardi, ensemble da un po’ di tempo allargato a trio con
l’ingresso in pianta stabile di un batterista atipico e versatile come Jacopo Andreini,
fa uscire con “Krško – Valencia” (Wallace/Audioglobe) quello che è probabilmente il
suo disco più rock. Un rock che comunque mantiene addentellati avanguardistici e
sperimentali, e che soprattutto non addomestica il proprio linguaggio ruvido,
lacerante. Ecco alcune considerazioni di François e Chiara, poco accomodanti ma
trasparenti come la musica alla quale sono associate.
Ancora una volta avete scelto come titolo la partenza e l'arrivo di un itinerario
geografico che poi, a ben vedere, è anche esistenziale. Rispetto alle
precedenti tappe del vostro continuo viaggio nomade, che genere di tappa,
una tappa che raccoglie più di due anni di esperienze, è quest'ultima?
Krško è in Slovenia, Valencia nella Catalunya spagnola. Sono due città che
abbiamo amato, anche se ormai tutto l’Occidente ci sembra uguale. Potevamo
anche chiamarlo “Vilnius-Siviglia” o “Stockolm-Trapani”: ci si trovano lo stesso
dentifricio e la stessa mentalità. Ed è questo che ci fa impazzire: dal nord al sud
dell’Occidente pensano tutti solo ai propri interessi, a quello che si potrà finalmente
comprare. Siamo tuttavia degli ottimisti, crediamo nella gente, ed ovviamente
auspichiamo l’autodeterminazione dei popoli. La nostra fortuna è quella di viaggiare
tanto, soprattutto fuori dall’Italia del “no future”. Così scopriamo tante sacche di
resistenza, da Valencia a Krško, da Swinoujscie a Tunisi. E poi c'è la libertà:
guadagnare poco, essere parco, ma poter vivere come si vuole, come si deve.
“Libertà” è la parola.
È un disco più compatto, più rock dei precedenti. Da quando è entrato in
formazione un batterista solido e creativo come Jacopo Andreini è cambiato
l'assetto musicale del gruppo, il vostro modo di interagire e di lavorare sul
materiale?
L’Enfance Rouge è un gruppo rock, con tutto l’impegno fisico che implica questa
parola. E’ stato difficile trovare un compagno stabile. In passato tutti i batteristi
provati, dopo un solo mese di tour, rimpiangevano il baretto sotto casa o la
precarietà della vita, se non il proprio letto o la pasta della mamma. Dei veri “pain in
the ass”, come si dice in inglese. Jacopo è curioso, creativo, amabile, positivo,
dolce, colto, preparato, aperto, anarchico ed è anche un batterista. La musica si fa,
allora, da sé.
Sul vostro sito parlate di questo lavoro tirando in ballo l'eventualità che
possa essere il vostro ultimo "disco politico". Che intendete dire? Mi pare che
la vostra musica abbia sempre trattato la politica dal punto di vista di una
pratica quotidiana, senza proclami, parlando spesso dei luoghi non
apertamente politici in cui si muove. Inoltre, da un certo punto di vista, è
possibile, come fate voi, tentare di rovesciare certi schemi anche attraverso il
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potere eversivo del linguaggio e del suono. O non è più così?
Siamo in guerra. Tutto il resto è provocazione.
Avete inciso per molte etichette, ora siete approdati alla Wallace. Come mai
avete scelto di affidarvi a loro?
La dedizione di Mirko Spino è unica. Il suo catalogo è il più vasto e interessante che
si possa trovare in Italia, e rispecchia la sua mentalità. La carta è bianca ed i
meccanismi non sono commerciali. Siamo tutti liberi.
La vostra musica attinge ad un background musicale vastissimo, è sufficiente
leggere l'elenco di fonti di ispirazione, che appare sul vostro sito, per
rendersene conto. Tra le righe, nell'andatura rock'n'roll di “Palais Bourbon”, e
in alcuni passaggi del testo di “Pantocrator”, mi pare di aver colto dei
riferimenti a Serge Gainsbourg. Una icona pop francese ma, a modo suo, un
sovversivo e un anarchico...
Gainsbourg scriveva stupendamente, ma preferiamo Abdurahman Waberi.
Un commento sull’Italia odierna?
Un paese dove l’arte non conta. Figuriamoci la musica. Fare il musicista non è mai
stato considerato un mestiere, da tua nonna come dal governo. La maggioranza dei
locali o club non sono pensati per la musica, hanno una acustica ed un
equipaggiamento quasi sempre pessimi e al di sotto dello standard europeo, ma
anche di quello bosniaco. Ad esempio ci sono forse cinque club italiani all’altezza
dell’Abraševic di Mostar, in un paese 50 volte più povero del nostro. In Italia, tra una
pizza e un concerto, si sceglie ovviamente la mozzarella. Sembra che qui gli
assessorini provinciali o regionali pensino di più ai loro cinquemila euro di stipendio
mensile che ad una vera politica culturale. L’aggregazione e lo sviluppo sociale è
tutt’altro che una priorità in questo paese di soli bianchi.
Qualche idea sui prossimi vostri spostamenti (musicali, geografici…), oppure
la tabella di marcia è, come immagino sia, su base rigorosamente quotidiana?
No, la tabella non è su base rigorosamente quotidiana, tutto il contrario. Siamo
indipendenti ed anarchici, due cose che presuppongono una organizzazione ferrea
e a lungo termine. Siamo costretti a definire ed pianificare le tournée con almeno sei
mesi di anticipo. Ora siamo finendo il booking per la nostra tournée promozionale in
Europa: più di novanta date in buone condizioni (logistica e cachet) dalla Spagna
alla Svezia, fino al prossimo maggio. Per aprire i nostro concerti abbiamo invitato
Justin Broadrick (Napalm Death, Godflesh, Jesu, Final). Abbiamo appena firmato
con una delle più grosse agenzie francese, la Soyouz. Suoniamo da cinque anni nei
locali europei più importanti e nei più grossi festival europei, come quello di Dour in
Belgio, che arriva a fare 350.000 spettatori, e la fortuna non c’entra niente. L’Italia
franata è solo una piccola base e di per sé non può essere e non sarà mai un
mercato unico. La resistenza non si può improvvisare.
Alessandro Besselva Averame
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Contatti : www.enfancerouge.org
Rosaluna
Incontro con Marco Ambrosi, chitarrista dei Rosaluna, all’indomani dell’uscita di
“Musicomio” (Wild Flower/Venus), quarto episodio nella parabola del gruppo
calabro-bolognese. Una chiacchierata che svela nuovi propositi e non maschera le
amarezze, come vedrete.
In cosa consiste la poetica del “musicomio”?
La parola è presa in prestito da un romanzo di Massimo Carlotto, in cui l’autore
racconta di un negozio di dischi con questo nome. Non avendo mai trovato un modo
per definire la nostra musica abbiamo cominciato a dire che il nostro genere
musicale era un musicomio… Abbiamo iniziato facendo post-rock, continuato con il
folk, siamo passati per la canzone d’autore e il pop e siamo finiti nel progressive,
senza mai aver deciso nulla prima.
Suonate la “musica d’autore che deve ancora venire”?
Pensiamo che la nostra musica racchiuda tanto già detto in passato, ma che non
esista nessun artista uguale a noi. Abbiamo sempre pensato fosse un pregio ma
credo che, in questo panorama artistico, sia solo un difetto.
Ho trovato molto interessante “Placido”. È spiazzante, deviata. È punk’n’roll
con la fisarmonica, è cattivella, ritmicamente ha una modulazione sul
ritornello.
Sono contento che citi questo brano. Insieme a “Zena” e “Rumori di nebbia” è,
secondo me, quanto di più vicino al musicomio. È un pezzo punk senza neanche
una chitarra elettrica e poi c’è quella fisarmonica! È stato il nostro modo di
descrivere con i suoni gli eventi bellici degli ultimi quattro anni.
Parliamo delle collaborazioni presenti in “Musicomio” che contribuiscono a
dare al disco la sua fisionomia. Com’è nato il lavoro insieme a Mustafa Cengic
dei No Smoking?
Muce è prima di tutto un amico e poi un collaboratore… lo conosciamo da anni e ci
ha insegnato tanto. È un peccato che un tale artista non abbia anche qui da noi la
popolarità che ha nella ex-Jugoslavia.
E con Gatto Ciliegia?
Siamo andati a trovarli a Torino e tra un bicchiere di vino e chiacchiere hanno
accettato di farci questo regalo. Per me sono uno tra i migliori gruppi italiani e sono
fiero di averli avuti nel nostro musicomio.
Due brani sono stati remixati da Lorenzo “Loz” Ori e Y:DK dei Technogod.
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Cosa gli avete chiesto?
Lorenzo ha mixato insieme a me e Muce alcuni brani del disco e in studio gli
abbiamo chiesto di metterci un po’ delle sue “diavolerie”. Dopo questa esperienza è
nata un’amicizia sia con lui che con George, il suo socio artistico… Adesso stiamo
per terminare insieme un nuovo progetto etno-elettronico che si chiama
“RàmSazìzz’”.
Quali sono i musicisti che vi piacciono?
I gruppi storici degli anni ’70, i grandi del jazz. Ascoltiamo dalla musica popolare
calabrese ai gruppi di tradizione africana. Amiamo tutti a dismisura De Andrè e
andiamo a vedere i Motorpsycho ogni volta che suonano in Italia.
Siete arrivati al vostro quarto album. Siete diventati grandi, la vostra vita è
ormai matura. Non è più un gioco, se mai lo è stato…
La risposta è complicata. Nel panorama indipendente italiano la musica è un lavoro
senza salario e, dunque, agli occhi di tutti è un gioco. Noi siamo diventati grandi di
età, ma non come artisti, perché anche se la media di età del nostro gruppo è 25
anni, si è maturi solo quando si diventa famosi, e noi non lo diventeremo mai. La
parabola dei Rosaluna dopo questo album non è sicuro possa continuare, non
perché ci siamo stancati. Solo perché abbiamo finito i soldi. I musicisti, fino a un
certo livello, non li paga nessuno e le etichette indipendenti non guadagnano niente.
Siete calabresi, di stanza a Bologna. Che succede a Bologna? Che idea hai
della polemica in cui è coinvolto Cofferati?
Bologna è cambiata tantissimo e a quanto ci dicono i nostri amici è cambiata ancora
di più se pensiamo agli anni ’70 o ’80, in cui era un mito per migliaia di giovani.
Bologna, malgrado quello che si possa dire, è una delle città più “chiuse” d’Italia. È
una città borghese e quanto è successo con Cofferati era inevitabile perché chi lo
ha votato vuole sicurezza per la sua bella vita. Quando si è candidato Cofferati
siamo stati contenti, più volte il suo entourage ci ha invitato a suonare,
rigorosamente gratis, per sostenerlo, ma una volta eletto non abbiamo visto nessun
cambiamento né per noi e né per la “musica” a Bologna. Comunque non è la nostra
città. Noi, in quanto calabresi, abbiamo problemi molto più gravi da risolvere…
In Calabria è sempre vivo, in chi è rimasto lì, un senso di rimpianto e
rimprovero verso chi se n’è andato. Il senso è in breve: perché non si rimane
tutti a cambiarla, la Calabria, anziché fuggire via?
È vero! Noi torneremo in Calabria e, se ce lo faranno fare, creeremo uno spazio per
fare musica e per dare ai ragazzi le possibilità che noi abbiamo avuto stando fuori
dalla nostra terra. La vita non ha senso se stai fuori dal tuo vero mondo, è giusto
partire per vedere e conoscere come funziona fuori, ma bisogna tornare e provare a
cambiare le cose per sentirsi veramente realizzati. Questa è la vera sfida, riuscire a
fare quello che sappiamo fare in Calabria, perché a noi non è mai interessato
suonare per diventare famosi o guadagnare montagne di soldi, ma solo vivere per
suonare.
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Gianluca Veltri
Contatti: www.rosaluna.it
PAY
Rocambolesco in certi casi è un eufemismo. Altre volte no: per esempio, è senza
dubbio rocambolesco riuscire a strappare quattro chiacchiere con i PAY, nella
persona di Ariel, il primo giorno dell'anno. Abbiamo così approfittato della loro
gentilezza per parlare di “Federico Tre” (Punkrocker’s/Venus), la prima – e unica –
punk-rock opera italiana: una folle avventura, di quelle che solo loro avrebbero
potuto intraprendere, e che solo loro avrebbero potuto scrivere e suonare così bene.
Ecco quanto è venuto fuori.
Partiamo dalle cose più ovvie ma necessarie: perché un concept-album?
L'idea di raccontare una storia in musica ci girava in testa da parecchio tempo: è
uno di quei progetti un po' folli e un po' da sbruffoni che a noi piace intraprendere. È
stata un'impresa molto interessante da affrontare; a metà lavorazione ci siamo
anche un po' “spaventati” perché abbiamo temuto che fosse un'idea al di sopra delle
nostre possibilità, ma con un paio di aggiustamenti siamo riusciti a portarla a
termine. Ti dirò di più: il risultato finale ci ha convinti a tal punto che, per il futuro,
non ci dispiacerebbe portare avanti il concetto di proporre una storia in ogni disco.
Com'è nata la storia del dittatore Federico Tre? E com'è stato per te scrivere
una “sceneggiatura” da svilupparsi brano dopo brano?
Prima di mettermi all'opera ero convinto che sarebbe stato un compito lungo e
difficile, ma una volta che ho avuto la storia in testa si è rivelato più facile del
previsto. Non sono dovuto intervenire troppo sull'idea di fondo, e questo mi ha
semplificato il lavoro, tant'è vero che, a parte qualche dettaglio, come ti dicevo sono
molto soddisfatto del risultato finale. Sulla nascita della storia non c'è molto da dire:
è nata e me la sono trovata in testa. La cosa interessante è che io ho pensato a
Federico come a un nazifascista, ma mi sono accorto che ognuno ne ha una propria
chiave di lettura: c'è chi lo vede nel medioevo e chi lo vede fortemente agganciato
alla nostra attuale situazione. È bello scoprire che quello che hai scritto ha una vita
propria e si può adattare a molteplici interpretazioni.
Ho trovato questo disco molto “teatrale”, se mi passi il termine: credi sia
dovuto più alla scrittura o agli ospiti presenti?
Il risultato finale credo sia stato molto influenzato dalla presenza di Freak Antoni e di
Alberto Camerini. L'idea di chiamare proprio loro per questo disco era legata agli
anni '70, quasi ad avere un collegamento con l'epoca d'oro dei concept-album, e
abbiamo discusso molto sulla reale possibilità di inserirli, per poi farci convincere
definitivamente da Olly. Devo dire che si è rivelata la scelta giusta: sono due
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personaggi geniali che, per il loro essere e la loro storia, si sposano alla perfezione
con quello che sono e che vorremmo fossero i PAY. Non so quanto questo abbia
influito o meno sulla teatralità del soggetto, ma è certo che ha dato un valore
aggiunto al nostro lavoro.
Hai accennato ad Olly prima: qual è stato il suo ruolo?
Per la prima volta nella storia dei PAY, io e Mr. Pinguino abbiamo permesso ad una
persona esterna di intervenire direttamente nella fase di registrazione, con
possibilità di modificare quanto da noi pensato: Olly si è assunto questo compito e si
è comportato alla grande. È stato utile avere costantemente un parere che non
fosse il nostro: ci ha fatto vedere le cose da diverse angolazioni, e inoltre ci ha tolto
dall'impasse in qualche occasione. È un ragazzo eccezionale che dà l'anima in tutto
quello che fa, e si è rivelato molto importante per noi.
Qual è stata la vostra reazione quando avete visto che “American Idiot” dei
Green Day, oltre che essere un'opera rock, era un successo mondiale?
Si può vedere questa situazione in due modi: pensare alla sfortuna di qualcuno che
ti “ruba” un'idea di pochi mesi oppure ragionare che, a Varese come in America,
forse questo era il momento giusto per mettere in piedi una cosa del genere.
L'intuizione che abbiamo avuto, con modi radicalmente diversi, è stata che non
serve essere gli Who o i Pink Floyd per raccontare una storia lunga tutto un disco. E
che il momento fosse positivo per questo genere di cose lo dimostra il fatto che,
negli ultimi mesi, questa carta sia stata giocata da P.F.M. ed Edoardo Bennato, solo
per rimanere dalle nostre parti.
Il mercato è in crisi perenne, ma quello che vedo è una generale mancanza di
idee: non credi che siano operazioni come queste a ridare speranza al futuro
della musica?
Non sono tanto d'accordo, anche perché le leggi di mercato dimostrano che la
domanda cresce quando l'offerta è semplificata e facilitata. Ciò che so, però, è che i
PAY, e io personalmente, hanno la coscienza a posto: abbiamo fatto qualcosa che
va in una direzione diametralmente opposta, zeppo di idee e denso di significati,
qualcosa di oggettivamente fighissimo (risate generali, NdI) e di cui siamo
orgogliosi. La reazione della gente al momento ci soddisfa in pieno, per cui non so
che altro potrei volere di più da quello che faccio.
Giorgio Sala
Contatti: www.ammore.net
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(P)neumatica
Per il loro secondo album, “Ultimi attimi” i cagliaritani (P)neumatica si presentano più
incisivi, più colorati, con un altro produttore, con un nuovo chitarrista; solo l’etichetta
è rimasta la stessa. Il disco esce infatti nuovamente per la label sarda Desvelos
(con distribuzione Audioglobe). Per saperne di più, ecco il resoconto di una
chiacchierata con il cantante e chitarrista Maurizio Rocca.
Vogliamo ricordare ricordiamo come è nata la band?
Ci siamo incontrati in birreria col bassista e abbiamo deciso di provare a formare il
gruppo. Qualche anno fa, abbiamo partecipato al concorso regionale “Sottosuoni”
vincendolo. Poi, nel 2003 François Cambuzat è stato il produttore del nostro primo
disco edito da Desvelos, mentre “Ultimi attimi” è stato prodotto da Giorgio Canali.
Tra una cosa e l’altra, esistiamo ormai da dieci anni anche se l’unico componente
presente dall’inizio sono io. Si sono susseguiti degli avvicendamenti e alla fine
quest’ultima è una formazione che esiste da già da sei anni circa, a parte l’innesto
dell’ultimo chitarrista.
Ecco, come mai avete cambiato chitarrista?
Perché, purtroppo, Riccardo Chessa ha dovuto lasciare per problemi familiari. Gli è
subentrato un nome storico della scena hardcore cagliaritana, Davide Ragazzo, che
quindi viene da un giro musicale molto diverso da quello che noi facciamo.
Sorprendentemente però si è adattato benissimo, lasciando sentire la sua impronta
in “Ultimi attimi”.
Confrontando la grafica dei due cd, le copertine rivelano il vostro cambio
d’immagine. Se sul primo disco omonimo c’era una finestra con le inferriate
sul nero, in “Ultimi attimi” c’è il disegno colorato di un bambino sul bianco.
Quanto siete cambiati?
Hai centrato il punto. Sono due dischi completamente diversi sia come produzione
che come concezione e, ovviamente, come grafica. Il primo è molto più introspettivo
e anche la produzione risulta più cupa, quindi quel tipo di copertina andava bene per
quel tipo di suono. Poi, tutti i gruppi, ci siamo evoluti. Nel primo disco parlavamo
d’amore nel suo modo più brutto di manifestarsi, dalle delusioni alle ansie. In
questo secondo album invece, la tematica principale è il tempo. Le sonorità sono più
solari ed energiche, grazie anche al supporto di Giorgio Canali, e l’argomento
principale è il rendersi conto del tempo che passa. Per la copertina, abbiamo
chiamato un’illustratrice cagliaritana secondo me molto brava, Giorgia Atzeni, che
ha disegnato un bambino quasi satanico con un chiodo piantato nella testa. Tra
l’altro, l’ha realizzata interamente con la mano sinistra pur non essendo mancina.
Quali sono state le differenze di produzione artistica?
Cambuzat e Canali sono due produttori completamente diversi, soprattutto
tecnicamente. Tieni conto che il primo disco del 2003 è stato registrato in una casa
di campagna, i suoni sono ambientali perché François predilige le riprese di quel
tipo. Quindi si sono sfruttati tutti gli ambienti delle stanze che c’erano a disposizione.
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Inoltre, è stato fatto completamente in analogico e a tracce. Di contro, “Ultimi attimi”
è stato registrato in studio in presa diretta, per avere un suono più duro e
aggressivo, e completamente in digitale. Era quello che cercavamo: avevamo
l’esigenza di un taglio completamente diverso. Una volta finito di registrare, abbiamo
rivisto ogni singola canzone e vi ho trovato come delle fotografie, gli ultimi scatti che
abbiamo deciso di fermare del nostro periodo musicale.
Come avviene la ricerca della melodia? Lavorate insieme finché non viene
fuori la canzone?
Siamo uno di quei gruppi che quasi vive in sala prove. Ognuno porta un’idea e si
cerca di svilupparla tutti assieme. Può partire da un giro di batteria, da un giro di
chitarra o da un ritornello, poi ognuno cerca di inserirsi mettendoci la sua parte
migliore e si cerca di sviluppare il brano e di strutturarlo. Molto spesso i testi sono
giù scritti precedentemente, quindi cerco di adattarli oppure di usare il testo più
consono all’umore della musica che si sta suonando in sala.
A che cosa ti ispiri visto che sei tu a occuparti delle liriche?
Se ti dicessi che scrivo testi riguardanti gli altri sarei un bugiardo. Solitamente si
tratta d’esperienze vissute in prima persona, e la musica tutta dovrebbe essere così.
Mi reputo una persona normalissima con un determinato tipo di esperienze da
trentenne che cerco di mettere su carta e poi in una canzone sperando vengano
condivise da chi mi ascolta.
Ma c’è una canzone italiana che avresti voluto scrivere tu?
Ce ne sono molte. Forse, più di tutte, “Precipito” di Giorgio Canali.
Come vivete la musica nella vostra regione?
In Sardegna c’è molto fermento ma il nostro problema principale è quello di venire
“in continente” – come dicono alcuni di noi – a suonare. Ci sono molti gruppi che
secondo me meriterebbero più attenzione. Fare il disco non è difficile ma avere la
possibilità di andare in tour è sempre un grosso problema per le band sarde.
Con Desvelos quali sono i rapporti contrattuali?
Desvelos è un’etichetta fatta dai gruppi per i gruppi! Conosco Giuseppe Pionca da
quando avevamo cinque anni e giocavamo insieme nello stesso oratorio. Quindi
direi che non ci sono rapporti contrattuali in senso stretto: siamo un gruppo di amici
appassionati di musica rock.
Chi paga però?
Organizziamo collette e ci arrangiamo con pochissimi soldi. Nasce tutto dal
volontariato. Ad esempio, abbiamo fatto il video di “Goodbye Charlie” con un amico
che ha portato una telecamera, un altro amico che lavora nel cinema, e un teatro
che ha collaborato. Volontariato a tutti gli effetti. Purtroppo a volte non paga
nessuno perché non ci sono soldi e ognuno mette quello che può.
Francesca Ognibene
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Contatti: www.p-neumatica.it
Tuma
Cantautore atipico con DNA tropicalista, un’anima pop, devote dediche a Fred Neil
in repertorio e infiltrazioni elettroniche negli arrangiamenti, il salentino Giorgio Tuma
ci perla del suo notevole album d’esordio pubblicato da L’Amico Immaginario
(distribuzione Audioglobe), “Uncolored (Swing’n’Pop Around Rose)”, e dei suoi
progetti futuri.
Non credo che all’origine di tutto ci sia un semplice rigetto del contesto
musicale in cui sei cresciuto, però mi chiedo che ruolo abbia avuto la
presenza di una musica salentina in qualche modo “istituzionalizzata” (dalla
taranta ai Sud Sound System) nel far emergere esperienze come la tua, quella
di Populous e Studio Davoli.
Nessun ruolo. Credo che la mia musica, e vale anche per Populous e Studio Davoli,
nasca semplicemente dall’amore sconsiderato per i miei dischi di formazione.
Magari l’oppressiva presenza di certe musiche avrà fatto sì che mi dedicassi ancor
più al mio immaginario musicale. Il Salento è alla periferia dei circuiti musicali,
abbiamo grandi difficoltà ad organizzare eventi e molte volte la risposta del pubblico
è sconfortante. Questo induce a rintanarsi nel proprio mondo e a rimasticare nel
miglior modo possibile la realtà circostante.
La mia impressione è che il disco funzioni, al di là dei riferimenti quantomeno
eclettici e ben amalgamati, grazie alla leggerezza con cui sei riuscito a trattare
le canzoni. I brani sono stati rivestiti di strumenti ed elettronica, ma sempre in
un'ottica di sottrazione.
È vero. Anzi, oggi toglierei ancora più elementi. Ci tengo a precisare che non mi
riconosco più di tanto in questo disco perché avrebbe dovuto uscire nel 2003. Le
canzoni hanno quattro anni e tante cose mi sembrano ingenue. Comunque credo di
essere riuscito, nonostante gli scarsi mezzi, ad esprimere, in un lessico pop a me
vicino, il dispiacere e la gioia di un amore non corrisposto. “Uncolored” è un amore
senza colore che, in quanto non corrisposto, provoca dispiacere. E la mia musica è
un’altalena (“Swing’n’Pop”) di gioia e dolore. Ringrazio L’Amico Immaginario per
aver dato una possibilità a questo disco, che rischiava di non venire mai pubblicato.
Siccome hai ribattezzato il gruppo che ti accompagna Os Tumantes,
immagino che i Tropicalisti siano stati un punto di riferimento decisivo. Tu
però arrivi da ascolti ben diversi, che cosa ti ha spinto a rallentare il passo e
togliere peso alla musica?
È stata una cosa naturale, un bisogno di dare una mia versione, spuria, di tutta la
musica ascoltata e assimilata fino a quel momento. È successo tutto per gioco: ero
follemente innamorato di una ragazza, la Rose del titolo, e ho iniziato per gioco a
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scrivere canzoni su di lei. Con l’aiuto dei miei amici (Studio Davoli e Os Tumantes) è
diventato un disco. Se fosse uscito nel 2003, il mio tentativo di far colpo su di lei
sarebbe andato in porto. Per quanto riguarda il mio riferimento al Tropicalismo, è
vero, amo il Brasile e ho ribattezzato il mio gruppo così proprio perché come gli Os
Mutantes cerco di mischiare samba, bossa, folk e soul. Ora sono molto più
brasiliano di tre anni fa, e ho un gruppo meraviglioso. Il mio grande sogno è di fare
uscire un disco nuovo con le canzoni di oggi.
In un brano come “Shu Panda”, nonostante la scelta dell'inglese, si sente una
eco del Morricone più lounge, e qua e là serpeggia una certa atmosfera da
Studio Uno, ovvero quello che era l'easy listening italiano al suo meglio, un
approccio artigianale al pop che si è un po' perso. In questo senso
“Uncolored” è un disco dalle radici italiane...
Assolutamente sì. Amo alla follia Piero Piccioni, Piero Umiliani, Armando Trovajoli.
Ho cercato per anni dischi di colonne sonore italiane che, paradossalmente, trovavo
in Germania e Giappone. Sono rimasto stupito e affascinato da quei suoni
modernissimi e fuori dal tempo. Jazz, elettronica, pop e bossa venivano mischiati
con un gusto unico e italiano. Bastano tre note per riconoscere Piccioni, e sono
enormemente dispiaciuto del fatto che alla fine tutto quel fenomeno di riscoperta
della library music e della cosiddetta incredible strange music – ho sempre odiato il
termine lounge – si sia rivelata per molti una moda passeggera. Il mio intento era,
all’epoca, di mischiare i suoni italiani con la mia forte passione per Nick Drake, Tim
Buckley, Tim Hardin, Fred Neil e Jobim. Poi mi hanno influenzato molto compositori
come Bernard Hermann ed Henry Mancini, ma anche sperimentatori e visionari
come Les Baxter, Juan Esquivel, Raymond Scott, Brian Wilson, Van Dyke Parks e i
Free Design.
Il SudEst studio, dove è stato mixato il tuo disco, è anche una sorta di
quartier generale per molti gruppi e musicisti, quasi una factory musicale. È
così?
Il SudEst è parte fondamentale della nostra musica. Conosco Stefano (Manca, NdI)
dai tempi del liceo, quando entrambi suonavamo punk rock. Lo studio è arrivato
quattro o cinque anni dopo. Lui aveva questo casolare dismesso che insieme ad
altri ragazzi di Campi ha rimesso in sesto. È qualcosa di più di un semplice studio.
Senza l’aiuto fondamentale di Stefano e di Populous il mio disco non sarebbe mai
stato mixato, gliene sarò sempre grato.
Concerti?
Ho fatto una sola data questa estate con gli Os Tumantes, al Give Me Indie Festival.
Non faccio quasi niente da “Uncolored”, solo canzoni nuove che mi piace definire
“indie samba”. Ho constatato con dispiacere che suonare in Italia è quasi
impossibile, ma con molta fatica sono tuttavia riuscito ad organizzare qualche data
per la fine di febbraio, a Roma, Milano e Torino.
Alessandro Besselva Averame
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Contatti: www.tumamusic.com
Dilaila
I Dilaila sono recentemente saliti sugli altari della critica con il secondo disco,
"Musica Per Robot" (Ilrenonsidiverte/Audioglobe). Del loro sound ipnotico e del loro
stile abrasivo ma poetico, a metà tra l'ultima Nada e i Radiohead di "The Bends",
abbiamo già parlato qualche mese fa su queste stesse pagine virtuali. Le parole
della band invece, ci introducono nel loro mondo e tutto quello che gli gira attorno:
dalla nuova etichetta discografica ai nuovi progetti multimediali. Non particolarmente
logorroiche ma sicuramente non banali, ecco le risposte alle nostre domande e
curiosità.
Le vostre nuove canzoni sembrano molto più ragionate rispetto agli esordi. I
contorni sono più definiti. Cos'è cambiato nel gruppo nei tre anni che
separano "Amore + psiche" da "Musica per robot"?
Abbiamo imparato a conoscerci ancora meglio. Sentivamo da tempo l'esigenza di
fare musica senza compromessi, che rispecchiasse solo ed esclusivamente il nostro
gusto. Con "Amore + psiche" ci eravamo riusciti solo in parte. Questi tre anni sono
serviti a trovare il coraggio per farlo fino in fondo ed è così che è nato "Musica per
robot".
Come siete entrati in contatto con Ilrenonsidiverte? E come si è sviluppata la
collaborazione?
Ilrenonsidiverte nasce dall'esigenza di pubblicare due dischi: il nostro e "Bailamme
generale" dei Gea. Un progetto comunque spontaneo, fatto di persone e
indipendente nel vero senso della parola. Possiamo tranquillamente affermare che
“Il re “vive sulle affinità, non soltanto musicali, tra tutti quelli che ci lavorano, dal
primo dei responsabili all'ultimo dei musicisti.
Con questo secondo disco veicolate un certo messaggio. Molto scuro e
introverso. Com'è stata la reazione del pubblico? Qualcuno potrebbe
intimidirsi dal senso di claustrofobia che sembra attanagliare le canzoni.
Le persone dall'animo claustrofobico sono più di quante si pensi, in realtà. Abbiamo
voluto fare un disco che parlasse a loro e per loro, ben sapendo comunque che gli
amanti di atmosfere più solari o grintose ci avrebbero detestato. Non vorremmo che
questo fosse interpretato come una forma di snobismo: niente di tutto questo.
Soltanto un modo di esprimerci per condividere un certo tipo di umore e riconoscersi
tra simili.
Come nascono le vostre canzoni? La componente personale sembra
fortissima.
Ciò che hai avvertito non riguarda uno di noi in particolare. Negli anni abbiamo
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sviluppato una sorta di personalità di gruppo che affiora nelle canzoni. Detto questo,
non abbiamo metodi particolari se non quello di parlare moltissimo, per ore ed ore,
al fine di definire suoni e arrangiamenti.
Le due tradizioni musicali cui vi rifate (da un lato, un rock-pop che volge
all'Inghilterra dei Radiohead, dall'altro una canzone d'autore introspettiva e
tendente al pessimismo, mi viene in mente l'ultima Nada) non sono state
coniugate da molti gruppi italiani. Che rapporto avete con la cosiddetta
“scena”? Vi ci trovate? Vi ci riconoscete?
Normalmente siamo piuttosto critici nei confronti della realtà italiana e spesso
diciamo un po' provocatoriamente che non esiste alcuna scena e ci chiamiamo fuori.
L'impressione è che gli artisti interessanti siano casi isolati e che manchi in Italia
una vera tradizione rock. In questo senso non ci sentiamo parte di alcun movimento.
Immagino siate soddisfatti del vostro lavoro. Come è stata l'accoglienza del
pubblico, degli addetti ai lavori e dei colleghi?
L'accoglienza ci ha davvero emozionato: tolte pochissime persone, che non sono
riuscite ad instaurare alcun rapporto con il disco ma che non biasimiamo, tanti
hanno dichiarato di essere rimasti quasi sconvolti dall'ascolto, altri hanno
scomodato il titolo di "disco dell'anno" e altri ancora addirittura dicono di essere stati
in qualche modo "cambiati" da "Musica per robot". Pensavamo di aver fatto un disco
intenso per noi - e sì, ne siamo molto soddisfatti - ma non ci aspettavamo certo di
avere un impatto così grande sul lato più intimo delle persone. E' stata una bella
soddisfazione.
Non fate moltissime date. E comunque sempre circoscritti alla vostra zona.
Come mai?
Noi amiamo suonare dal vivo, ma ci piace farlo quando esistono determinate
condizioni. Spesso in Italia ti viene proposto di tenere degli showcase, magari in
forma acustica, e per una band dalle tinte psichedeliche come la nostra non è facile
adattarsi a questi contesti. Rischiare di snaturare il tuo sound non è esattamente il
massimo. Ma stiamo comunque studiando un modo per proporci, laddove serve, in
formazione ridotta senza perdere il nostro carattere sonoro.
Avete in cantiere qualcosa in particolare? So che avete pubblicato un EP
scaricabile da Internet, ne state preparando un altro e state lavorando a un
video.
Esatto! Per quanto riguarda il video, siamo ancora in una fase embrionale e il
progetto vedrà la luce, probabilmente, in primavera. In questo momento siamo
invece molto concentrati sui brani che andranno sul nuovo EP. Hanno un compito
arduo: avere ancora un sound alla "Musica per robot" e nel contempo iniziare a
definire quale sarà la direzione sonora futura... Vedremo.
Hamilton Santià
Contatti: www.dilaila.it
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Società del Caveau
Un linguaggio multiforme, quello della Società del Caveau, capace di unire
post-rock, jazz e progressive, ben esemplificato dal debutto “Anice”
(autoprodotto/Audioglobe) Musica che sul palco si trasforma in un’esperienza
fascinosa, forte di una cooperazione tra chi suona – Brian, Matteo, Gelo, Fabio,
Michele – e chi si occupa di trasporre le note in immagini (Fanto).
Cosa potete dire a proposito della ragione sociale del gruppo?
MATTEO: La prima formazione aveva optato per il nome "caveau". Poi scoprii quasi
casualmente le "società del caveau" originali, nate in Francia nel 1729. Una sorta di
associazioni all’interno delle quali gruppi di persone si ritrovavano per fare musica e
recitare poesie.
FABIO: Oltretutto, il termine "società" ci sembra molto adatto alle dinamiche interne
al gruppo, dal momento che non esiste un leader e tutto è frutto di un lavoro corale.
Società del Caveau rappresenta uno spaccato di musica piuttosto
sperimentale, che riesce a conciliare post-rock ed elementi riconducibili ad
una certa tradizione cantautorale, pur non perdendo minimamente in
credibilità. Quanto è frutto di un ragionamento preciso e quanto invece è da
imputare all’istinto?
BRIAN: L'istinto è sicuramente essenziale perché non comporta filtri, mentre alla
ragione è riservato il compito di mediare tra il contributo dei singoli e il lavoro del
gruppo.
FABIO: In realtà non si tratta di un ragionamento preciso. Suoniamo quello che ci
piacerebbe ascoltare e che più o meno consciamente proviene dai nostri differenti
retroterra culturali. Per Gombrich (Ernst, storico dell'arte austriaco, NdI) si tratta solo
di capire quando l'opera che si sta creando è "a posto", quando ha raggiunto quella
sua specifica "simmetria". Un' esperienza che non è interamente esprimibile a
parole.
FANTO: L'istinto è la molla naturale che spinge ogni componente del gruppo ad
esprimersi: la videocamera è il mezzo che io in particolare utilizzo per raccontare
come il ragionamento "vede" questi nostri istinti lasciati liberi di agire.
Una caratteristica del suono a marca Società del Caveau è una parte ritmica
mutante, capace di adottare con facilità stili differenti anche all’interno dello
stesso brano. Sembra quasi che in sede di scrittura tutto nasca
dall’interazione tra batteria e basso…
GELO: In parte è vero. Prima c'è la creazione dei riff e della struttura base, e solo
successivamente l'arrangiamento. La prima fase parte nel 90% dei casi da session
improvvisate tra me, Matteo e Fabio. Attraverso un successivo lavoro di finitura
creiamo la prima versione del brano, che ancora è "nuda" ma comunque dalla
struttura compiuta. Con Brian completiamo la quasi totalità dell'arrangiamento e
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infine, con Michele, inseriamo quelle parti che andranno a dare colore dove
necessario.
BRIAN: Questa è la particolarità del gruppo che, a mio modo di vedere, mantiene
l’attrattiva maggiore. Nonostante richieda a volte uno sforzo non indifferente da
parte mia, riesco comunque a contribuire grazie a suoni di synth o parti di cantato.
Volenti o nolenti rappresentate una città, Ravenna, che in passato si è distinta
per una scena musicale a metà strada tra le facilonerie di un punk melodico
senza troppe pretese - capace tuttavia di produrre buoni risultati come la
felice esperienza dei Pitch - e un movimento hardcore in grado di guadagnare
consensi anche all’estero. Come vi ponente nei confronti del territorio che vi
ha dato i natali e come si è evoluto, a vostro modo di vedere, il rock
ravennate?
BRIAN: Mia madre è scozzese, quindi il mio sangue non è solo ravennate.
Rientrare nella scena cittadina sarebbe stato seguire un'onda, cosa che credo
abbiano fatto in molti. Per quanto mi riguarda non mi sono mai sentito rappresentato
fino in fondo dai gruppi locali.
FABIO: La nostra musica è molto distante dalle sonorità "solite" delle band
ravennati, sonorità in cui evidentemente non ci riconosciamo. Ritengo che il
problema maggiore del nostro territorio sia la mancanza di attenzione per forme
musicali nuove o insolite. Lo dimostra il fatto che le soddisfazioni maggiori le
abbiamo raccolte fuori da Ravenna – Bergamo, Ferrara, Crema, la Sicilia…
Cosa dobbiamo aspettarci in futuro dalla Società del Caveau? Sofismi per un
elite di estimatori della complessità applicata alla musica, semplificazioni
formali che riconducano il suono del gruppo sui binari di un rock più
immediato o magari l’adozione a oltranza di un modello espressivo sulla
falsariga di quello già ascoltato in “Anice”?
BRIAN: Sicuramente l'anima di "Anice" è ancora viva e non rimarrà certo in
disparte, pur nell’ottica di una implementazione del suono con nuovi elementi.
FABIO: Stiamo lavorando ormai da un anno sui nuovi pezzi e abbiamo registrato un
nuovo promo. Il suono è mutato e questo era inevitabile, anche solo per il
consolidarsi dei rapporti tra i musicisti. Credo che il risultato sia comunque una
musica fruibile, lontana da sperimentazioni fini a se stesse o stereotipi.
GELO: In "Anice" i pezzi racchiudono molte identità e lo stesso dicasi per i nuovi
brani. Lo stile della Società emerge comunque dal nuovo materiale benché lo stesso
evidenzi anche suoni inediti. La formula musicale che ci contraddistingue ci
consente comunque di evolvere, senza mai abbandonare la strada maestra.
MATTEO: Di certo continueremo a sviluppare la nostra musica in una direzione
lontana dalla consueta forma-canzone.
Fabrizio Zampighi
Contatti: www.societadelcaveau.it
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The Green Man + The Well Of Sadness
Linux Club, Roma, 21/12/2005
Anche per coloro che hanno perso memoria degli antichi riti pagani, è stato
possibile celebrare l’ultimo solstizio d’inverno presenziando al concerto dei Green
Man al Linux Club di Roma. Eppure, a dispetto delle attitudini esoteriche del gruppo
milanese, il pubblico accorso sembrava assai più interessato a mostrare il proprio
look post-punk che non a ricerche spirituali di sorta.
Ad ogni modo, il Linux Club sta divenendo un piacevole punto di ritrovo per tutto il
popolo nerovestito della capitale. Non a caso il locale ha messo in cartellone nomi
d’eccezione dell’underground post-industriale: tra gennaio e febbraio sono infatti
attesi Circus Joy, DBPIT, Deither Craft e Spectre.
La serata del 21 dicembre si è aperta con un breve set di The Well Of Sadness,
acronimo dietro cui si nasconde il giovane Daniele Giustra, per l’occasione
spalleggiato dal percussionista dei Green Man. L’impronta stilistica – sia del
concerto, sia del recente CD-R “Tarantella For The Death” – è indubbiamente quella
dei Death In June: basi preregistrate con campionamenti e tastiere, tamburi marziali,
testi declamati con enfasi, in italiano e inglese. Nulla di innovativo, dunque, benché
emerga un certo carattere, a mio avviso foriero di un’imminente maturazione
artistica.
Inizialmente i The Green Man non cambiano registro; poi, per fortuna, imbracciano
la chitarra acustica e lasciano emergere le radici più propriamente folk del loro stile.
E mostrano ancor più inventiva quando al forte impatto guerresco si sovrappongono
alcune divagazioni di gusto orientale, che ben si sposano con i surreali filmati
proiettati sullo sfondo.
Fabio Massimo Arati
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