Numero Marzo `10

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Numero Marzo `10
marzo '10
a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini
Numero Marzo '10
Numero Marzo '10
EDITORIALE
Calato il sipario da pochi giorni su un Festival di Sanremo squallido quanto poche volte
prima (con princpi farlocchi e pupi in ogni lago), e sempre più ostaggio dei cosiddetti talent
show, torniamo a occuparci di musica di un certo spessore e di una certa onestà, e lo
facciamo ancora una volta con un sommario ricco di nomi e di stimoli. Più che soffermarci
sulle interviste e sulle recensioni, però, ci preme attirare la vostra attenzione sulle sezioni
“Sul palco” e “Dal basso”. Nella prima trovano posto due report abbastanza particolari: il
doppio concerto capitolino degli Aidoru, nel quale la band romagnola ha mostrato sia il lato
più “colto” della propria personalità che quello maggiormente legato alla forma-canzone, e la
reunion delle Black Candy, formazione capace di infiammare gli animi di tanti ascoltatori
nonostante abbia prodotto solo un demo. Nella seconda, invece, si parla di un’interessante
iniziativa discografica legata a una scena, quella di Brescia, estremamente prolifica e ricca di
realtà notevoli.
Sperando di avervi incuriositi, non ci rimane che augurarvi come sempre buona lettura e,
naturalmente, buoni ascolti.
Aurelio Pasini
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Betzy
Stravagante intervista incrociata con Fabio Cussigh e Ru Catania, ovvero i responsabili
dell’interessante progetto Betzy, all’esordio con “Romancing The Bone” (Lady
Lovely/Audioglobe).
Quanto peso hanno avuto le coordinate geografiche, cioè il fatto che “Romancing
The Bone” sia stato ideato a New York e successivamente registrato in Italia?
FC: In America vivevo come il personaggio di un film: scendevo al negozio all’angolo alle tre
del mattino, con la vestaglia e le scarpe da ginnastica, compravo le sigarette e la birra, poi
tornavo sul divano a finire di guardare qualche partita di baseball. Ovvio che, quando sono
tornato in Italia e ho provato a fare la stessa cosa, non solo non ho trovato un negozio che
vendesse birra e sigarette a quell’ora di notte, ma oltretutto il mio vicino di casa, quando mi
ha visto uscire per strada in vestaglia, ha chiamato la Croce Verde convinto che fossi in
stato confusionale. Fu in quel momento che chiamai Ruggero e gli dissi: “Ciao Ru, sono in
commissariato a Udine, dicono che sono pazzo ma secondo me sono loro che non sono a
squadra... Ti va di fare un disco?”.
RC: Spesso accade che i gruppi scrivano in Italia e poi emigrino oltreoceano per
produzione, registrazione, mix e mastering, mentre con Betzy è accaduto l’esatto opposto.
Non per snobismo, è andata così per puro caso, non c’era nulla di meditato. Fabio non è
andato a New York per scrivere un album, ci è andato e basta. Poi, che lui e i suoi coinquilini
americani finissero a cantare sbronzi sotto a un tavolo, è stata un’evoluzione naturale. Per il
suono è accaduto il contrario: quando ho fatto sentire il disco a Rudy, che suona con me
nella WAH Companion ed è un produttore che stimo parecchio, mi ha detto “Bravo Ru, molto
bello, anche se a dirla tutta, ho capito dove volevi arrivare, ma non è proprio quella roba lì, ti
ci sei solo avvicinato”. Beh, sul momento gli avrei tirato un pugno sul naso, ma pensandoci a
posteriori non è una caratteristica del tutto negativa. Non ho le orecchie di un produttore
americano né i suoi mezzi. Forse è l’insieme delle due cose che mi ha stimolato e
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soddisfatto.
Come vi siete conosciuti, come si è innescata l’alchimia artistica e in che modo avete
proceduto lavorando fianco a fianco?
FC: Io e Ru ci siamo conosciuti molti anni fa, in un backstage del “Rototom Sunsplash”: ero
sbronzo e ci provai spudoratamente con la sua ragazza dell’epoca, lui stranamente non si
irritò e mi piacque subito, ancora più della sua ragazza. Comunque, devo avergli fatto lo
stesso effetto perché poi ha lasciato lei ma non me. L’alchimia si basa fondamentalmente
sulla reciproca stima: lui è uno dei miei chitarristi preferiti in Italia, io sono uno dei suoi
fotografi preferiti. Fianco a fianco, nella vita e sul lavoro, siamo un po’ come Roger Moore e
Tony Curtis in “Attenti a quei due”. Lui è l'inglese, ovviamente.
RC: Ci siamo incontrati nel backstage del “Rototom Sunsplash”. Suonavo con gli Africa
Unite, c’era questo tizio che faceva le foto, mi era simpatico perché aveva i baffi, che dieci
anni fa non erano ancora tornati di moda... Prima che salissi sul palco, mi ha salutato
dicendomi: “Non ho il pass, amico, mi sa che mi buttano fuori”. Così gli ho dato il mio, senza
pensarci due volte. L’alchimia artistica è scattata quando mi ha prestato (a vita) la sua
maglietta dei Black Crowes. Lavorare insieme è stato quasi perfetto: Fabio aveva le idee
chiarissime sulle visioni, sui personaggi, paesaggi, profumi, influenze del disco, ma non ha
messo becco sugli arrangiamenti, sulla produzione e sul mix. Questo mi ha permesso di
lavorare serenamente e portare a temine delle versioni con molta libertà e senza stress,
anche se ovviamente abbiamo tenuto solo quelle che soddisfacevano entrambi. Quando sai
di avere la fiducia di chi ti sta accanto, lavorare è molto più facile e produttivo. Quando ti
rompono i coglioni a ogni click di mouse, diventa un disastro e non puoi venire a capo di
nulla.
Il disco si rifà a coordinate blues abbastanza ancestrali, ma al contempo riesce a
suonare assolutamente moderno grazie all’innesto di elementi sintetici: un connubio
che vi eravate prefissi sin da principio o che si è prospettato strada facendo?
FC: Si era partiti con l’idea di schiacciare REC e incidere un paio di chitarre sgangherate e
qualche calcio a un tamburo, farmi bere tutto quello che c’era in casa e mettermi in una
conca con il microfono peggiore. Poi, invece, Ru si è fatto prendere la mano e... non mi ha
messo nella conca!
RC: Era l’idea di base. Volevamo fare un album rock-blues, ma non volevamo diventare
patetici facendo finta di essere i Lynyrd Skynyrd. Non siamo i Lynyrd Skynyrd, ci siamo detti.
Ed è il 2010, ci siamo detti. Purtroppo, ci siamo detti.
Ogni canzone si differenzia dall’altra, ma l’impressione complessiva è quella di un
lavoro con una sua ben precisa, omogenea visione di fondo: come avete bilanciato
urgenza espressiva e successiva limatura del materiale?
RC: L’urgenza espressiva riguarda sicuramente la scrittura. La produzione è un processo
artistico più concettuale, anche se è stata molto ludica! Oltretutto sono fiero di avere usato
Ableton Live: è una DAW piuttosto anomala per registrare un album come “Romancing The
Bone”, ma ci ha permesso di giocare moltissimo con degli elementi insoliti.
FC: Ho bilanciato il tutto bevendo birrette allo “Cheznous”, il bar sotto casa di Ru, a
Pomaretto. Devo dire che è stato Catania a prendere le decisioni: gli facevo ascoltare i miei
provini e faceva su e giù, destra e sinistra con la testa.
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Nelle note per la stampa si legge che “Betzy racconta la storia del giovane peccatore
Frank McKlusky e del suo antagonista, il Reverendo Crawford, che ogni giorno cerca
di salvargli l’anima e di bere tutto il suo whiskey”. Ce ne parlate meglio?
RC: Io me ne lavo le mani. Chiedi al genio...
FC: Frank fa una vita semplice, gode di cose semplici, per anni si è occupato di
contrabbando di whiskey e tuttora, quando la posta è alta e il gioco vale la candela, porta
qualche bottiglietta aldilà del confine. Frank comunque ha un debole, e quel debole sono le
donne, ed è qui che entra in gioco il Reverendo, l’uomo che cerca di insegnargli che l’amore
equivale al rispetto e il rispetto è sito nella dedizione, che a sua volta provoca un forte senso
di compiacimento e benessere. Se accompagnata da una buona bottiglia di whiskey,
ovviamente.
La scelta di approdare alla Lady Lovely è stata immediata?
RC: Immediatissima, visto che la Lady Lovely siamo noi. Si può dire? Non si può dire?
Massì, chi cazzo se ne frega. Siamo nati per non dovere sottostare a nessun tipo di
dinamica. Infatti ci piace definirci “etichetta emancipata”, che è una furbata per dire che
siamo un gradino oltre l’indipendente, siamo liberi per quanto riguarda la produzione dei
dischi dei gruppi in cui suoniamo. Facciamo la musica che ci piace e la facciamo uscire per
noi stessi, quando siamo pronti. Cosa c’è di più bello? Come dici? Diventare ricchi? Ci
stiamo lavorando.
Da una parte le possibilità comunicative offerte dalla Rete stanno facilitando la
diffusione di nuove proposte, mentre dall’altra l’iperproduzione contemporanea rende
difficile poter emergere sul serio. Che ne pensate e come vi rapportate a una simile
situazione?
FC: Non ci penso più di tanto. Di solito affronto le cose per come sono e non per come
vorrei che fossero. Se la situazione non fosse questa, dubito ad ogni modo che un caprone
come me sarebbe riuscito a fare un disco.
RC: Direi che nella domanda hai già riassunto un concetto, che condivido. I mezzi sono OK,
ma c’è un surplus di produzioni. Come ci rapportiamo? Diciamo che cerchiamo di essere
come il prezzemolo in Rete, piano piano. Se vai a sentire dal vivo le band della Lady Lovely,
possono piacere o meno, ma di certo non sono un bluff. Ci sono un sacco di ragazzini che
partono con magliette, spillette, MySpace, Facebook, ufficio stampa... Noi siamo vecchi,
nessuno nella crew è sotto i trent’anni e quindi curiamo certi aspetti comunicativi, ma alla
fine quello che abbiamo dentro è la voglia di suonare e fare dischi. Se fosse altrimenti,
avremmo già smesso cento volte. La nostra forza è suonare.
Per tutta una serie di motivi, la vostra formula potrebbe funzionare anche all’estero:
ci sono possibilità in tal senso?
FC: Direi di sì, indubbiamente. Ma come dice una ragazza che mi piace molto: “Io non ho
fretta”.
RC: Ci stiamo muovendo, a piccoli passi per non romperci l’osso del collo, ma ci stiamo
muovendo.
Una curiosità: che significato ha la bizzarra fotografia di copertina, scattata dallo
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stesso Fabio?
FC: Ah, finalmente qualcuno che non mi chiede se mi sono portato a letto tutte le donne in
copertina. In realtà, si tratta di una citazione di “Electric Ladyland” di Jimi Hendrix. Non
sapevo se dare un volto a Betzy, così ho cercato di confondere le acque prendendo una
piccola parte di lei da ognuna delle ragazze che ho chiamato. È stato un inferno, far tacere
venti donne e due travestiti!
Avete dei concerti in programma?
FC: Vai tu, Ru?
RC: Sì, in via di definizione... Le prime date confermate sono il 4 marzo al Neon di Rimini,
l’11 marzo da Giancarlo ai Murazzi di Torino con a A Dog To A Rabbit e il 13 marzo
all’Espresso Italia di Pinerolo (TO). Per il resto, le aggiorneremo su www.ladylovely.it.
Per concludere, dobbiamo considerare Betzy come un progetto estemporaneo o
come il primo passo di un percorso in evoluzione?
RC: Diciamo che la formula dell’“etichetta emancipata” ci permetterà di fare come viene:
potrebbe essere un episodio unico, così come potremmo tornare in studio tra due settimane.
Comunque, è una bella esperienza che sta ottenendo riscontri positivi, per cui non vedo
perché dovremmo seccarla sul nascere.
FC: Cara Elena, a questo non so rispondere ora ma penso che se mi invitassi a bere un
paio di birre nel pub vicino a casa tua non faticheresti a strapparmi qualsiasi tipo di
confessione. Aloha, baby!
Contatti: www.myspace.com/betzybetzy
Elena Raugei
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Curtis Jones & The Gossip Terrorists
Curtis Jones & The Gossip Terrorists, partenopei influenzati da David Bowie e dalla nuova
ondata revival new wave sulla scia di Interpol e Editors, dopo i due EP autroprodotti
“Wolftown” e “Vade Retro Baby” escono sulla lunga distanza con“The Assassination of
Alabama Whitman” (Discipline/Venus). Curtis Jones è accompagnato da Vincent Piccirillo
(chitarra), Danny Rivera (basso) e Jim Kowalski (batteria).
Band angloamericane come Interpol ed Editors hanno riportato in auge certe sonorità
del passato, innovandole ma rimanendo ben ancorate ai vecchi canoni. In America e
Inghilterra è una conseguenza diretta della tradizione musicale di quei paesi. Ma come
si suona, così, in Italia?
Semplicemente facendo proprie le grandi lezioni della musica internazionale, che
costituiscono un linguaggio universale, potenzialmente comprensibile da chiunque;
naturalmente un percorso simile è più facile nei paesi in cui quel linguaggio è nato e si è
sviluppato, ma non per questo deve essere precluso a chi, pur vivendo in territori dalla
tradizione differente, ha sempre rivolto lo sguardo al di là della Manica e dell’Atlantico con
interesse e passione.
Non c'è forse il rischio di passare per i soliti emuli di gruppi stranieri sull'onda del
momento?
Casomai i riferimenti sono alle band internazionali del passato più che a quelle in voga oggi;
comunque è un rischio che siamo disposti a correre. D’altra parte presupponiamo che buona
parte del pubblico a cui ci rivolgiamo possieda un certo background che implica il
superamento di certi pregiudizi; solo così si può apprezzare appieno il risultato del lavoro di
persone che mettono in ciò che fanno tutto il proprio entusiasmo e il proprio amore per il
rock’n’roll.
Curtis come Ian, Jones come David Robert. Le influenze sono già nel nome, insieme
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alla citazione tarantiniana del titolo dell'album. Quanto passato musicale,
cinematografico e, in generale, artistico c'è nel vostro modo di comporre e di
scrivere?
Il nostro progetto nasce come omaggio alla grande storia del rock; in tal senso non si può
prescindere dal passato - anzi: è proprio lì che troviamo le coordinate da seguire per riuscire
a far arrivare al pubblico il nostro messaggio musicale e non solo. E tra l’altro sono
personalmente convinto che nulla di quello che si fa oggi nella musica sia totalmente scevro
dall’influenza del passato, per cui tanto meglio dichiararlo apertamente.
Giacca e cravatta fanno parte del progetto?
Fanno parte della nostra immagine, che non è semplicemente una posa assunta tanto per
darsi un tono ma rientra in un’ottica più ampia che è quella della comunicatività a 360°.
Dal modo di raccontare storie alla forma delle canzoni, dal sound dell’album all’immagine, fa
tutto parte di quello che vogliamo sia considerato il nostro “stile”.
Sul comunicato stampa si dice che le canzoni scritte erano una sessantina. Ne avete
scelte undici. Con quale criterio si seleziona un sesto del repertorio per i quaranta
minuti di un disco come il vostro?
Ho selezionato i brani che secondo me all’interno di un album non solo si facevano più
apprezzare singolarmente ma andavano anche a comporre il quadro generale che meglio
rispecchiava la nostra intenzione di partenza, che era quella di legare con un sottile filo
rosso una serie di storie di amore e malavita raccontate in modo quasi “cinematografico”.
E qual è la sorte dei cinquanta pezzi scartati?
Alcuni fanno parte del nostro spettacolo dal vivo, che prevede una scaletta lunga circa il
doppio rispetto al disco; altri li abbiamo “nel cassetto” in attesa di farne uscire qualcuno,
magari come b-side o in altra veste. Sicuramente però nessuno dei cinquanta farà parte del
prossimo album, che verrà concepito ex novo.
La lingua usata è l'inglese. Eppure ci sono voluti quasi due anni per cesellare e
rimodellare i testi. Quanto di questo lavoro impegnativo e meticoloso pensate possa
arrivare al pubblico italiano?
Sicuramente c’è una parte di pubblico italiano che ha un approccio più approfondito nei
confronti di quello che ascolta – che si tratti di leggere e tradurre un testo o di documentarsi
sulla biografia di un musicista per capire meglio il suo percorso artistico – ed è quella la
parte di pubblico che godrà di più del nostro lavoro. È un album fatto da chi ama la musica
per chi ama la musica.
Quante e quali cose sono cambiate dai tempi dell'autoproduzione dei primi due EP a
quelli sotto etichetta dell'ultimo album?
È cambiata la formazione, è aumentata la fiducia nel progetto, è migliorato il modo di
lavorare – avendo alle spalle un’etichetta e un team di lavoro eccezionali – e abbiamo un
pubblico sempre più numeroso. L’unica cosa che non è cambiata di una virgola è
l’entusiasmo e il piacere di fare musica.
Le etichette indipendenti sono ancora così importanti in un periodo storico in cui i
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volumi di vendita sono sempre e comunque irrisori e, in generale, la musica non
passa necessariamente per il disco come oggetto fisico?
Sono, se possibile, ancora più importanti perché in un mercato in ginocchio, o quantomeno
in mutazione, al di là del discorso della scomparsa del supporto fisico in favore del digitale,
le major tendono a puntare soltanto su investimenti “sicuri”, per cui senza il gradino
intermedio delle indipendenti si verrebbe a creare una frattura insanabile tra musica di serie
A e musica di serie B, cioè tra major da una parte e autoproduzione e autodistribuzione
dall’altra. Sarebbe una prospettiva pericolosissima perché impedirebbe uno sviluppo
“verticale”, dal basso verso l’alto, della carriera di un musicista.
Qual è il futuro di Curtis Jones & The Gossip Terrorists dopo “The Assassination of
Alabama Whitman”?
Nell’immediato, gireremo un video per il secondo singolo estratto dall’album, che è “Space
Invaders”; contemporaneamente continueremo a viaggiare per l’Italia portando in giro il
nostro show, magari con qualche puntata all’estero. Più a lungo termine, una volta portati a
termine questi impegni inizierò a lavorare sul nuovo materiale per il prossimo disco, per il
quale c’è già più di un’idea.
Contatti: www.myspace.com/curtisjonesandthegossipterrorists
Marco Manicardi
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DJ Myke
Ne avevamo parlato già su carta, nelle pagine di “Soundlab”, ma è bene tornarci sopra su
“Hocus Pocus” (Men In Skretch/Venus): un progetto che merita davvero l’attenzione di tutti.
Perché riesce ad essere trasversale mantenendosi autentico, riesce ad essere complesso
senza diventare involuto. Perché si prende dei rischi e delle sfide, e questa è una cosa che
dalle nostre parti non si vede tanto spesso. Nasce tutto dall’hip hop e dal rap – l’artefice
principale della faccenda, DJ Myke, è chiaro in tal senso, così come chiara è la sua biografia
artistica (da un decennio e passa uno dei migliori turntablist italiani, virtuoso di scratch e
quant’altro). Ma chiare e interessanti sono anche le sue parole, con uno sguardo a
trecentosessanta gradi sulla musica che gira intorno...
So che gli artisti lo trovano spesso seccante, ma noi giornalisti dobbiamo sempre
trovare dei punti di riferimento, quando parliamo di un disco o di un artista...
Ma guarda che è normale, figurati.
...e nel caso di “Hocus Pocus” mi è venuto da citare U.N.K.L.E., soprattutto il primo
disco.
Beh, grazie! Ti dirò, è un onore. In generale ti posso raccontare che ascolto talmente tanta
roba che faccio fatica a focalizzarmi solo su un genere e sì, in tal senso il confronto con
U.N.K.L.E. ci sta. Sia chiaro, non è che mi voglia mettere allo stesso livello di James Lavelle.
La cosa è semplice: io arrivo da un approccio molto hip hop, dove prima di tutto c’è poca
teoria e molta pratica. Mi viene da fare una cosa? La faccio. Questo è.
Ma sapevi fin da quando hai iniziato a lavorarci che “Hocus Pocus” sarebbe stato un
progetto compiuto, ovvero che sarebbe diventato un disco?
Sì. Sono una persona testarda. Se decido di fare una cosa, la porto sino in fondo.
Perfettamente consapevole che posso metterci un sacco di tempo, che ci vorrà un po’, ma
questo non mi scoraggia mai. Chiaro che il risultato finale è diverso da quello che potevo
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immaginarmi all’inizio, ma anche questo è sempre da mettere in conto. Che ne so, ospiti che
sul disco ci sono e a cui invece all’inizio non avevo proprio pensato... Lucariello in tal senso
è un buon esempio, inizialmente non era nella mia lista, poi però il mio socio Aladyn se n’è
venuto fuori dicendo “Qua manca un po’ di Napoli, secondo me Lucariello sarebbe perfetto”,
e l’abbiamo chiamato, restando poi molto contenti del suo contributo.
Hai mai avuto la preoccupazione che si stesse accumulando troppa roba? Troppi
stimoli, troppi ospiti, troppe idee...?
Assolutamente no. La musica per me è un’esperienza totalizzante, col risultato che mi
sembra che non basti mai, e che le idee in essa non bastino mai. Quindi semmai ho sempre
avuto la preoccupazione contrari: che non ci fosse abbastanza roba. Poi comunque “Hocus
Pocus” non è il mio disco: io ho diretto la cosa, l’ho gestita, ho dato il tocco finale, ma il
contributo prima di tutto di DJ Aladyn e di Svedonio (quest’ultimo fondamentale per quanto
riguarda il livello compositivo) e poi di tutti gli ospiti è stato a dir poco decisivo. Col risultato
che abbiamo fra le mani, credo, un disco complesso, sfaccettato. Un disco che non vuole
finire nelle mani di chi ascolta solo un determinato genere, o almeno non solo in quelle. Il
mio ascoltatore medio lo immagino come un ascoltatore. Nel senso più puro del termine, non
so se mi spiego.
Il tuo background di provenienza è comunque hip hop... basti dire che con Aladyn
come Men In Skratch siete una crew di prestigio assoluto per quanto riguarda il
turntablism, vi siete fatti e vinti le vostre gare, il DMC, eccetera...
Certo, e non dimenticherò mai che questa è la mia provenienza. Proprio per questo
approfondisco il concetto: esattamente l’hip hop dovrebbe essere il genere musicale che ti
dà più libertà, che ti permette di pescare ovunque. Per questo negli anni passati sono stato
criticato dai molti – all’epoca erano molti – puristi dell’hip hop. Che ne so, quando assieme a
Fibra, Nesli e Lato come Men In Skratch abbiamo dato vita al progetto Piante Grasse:
spiazzammo molti. Fummo anche criticati. A pensarci oggi, pare assurdo, gli stessi che ci
criticavano sono spesso e volentieri i primi a cercare le contaminazioni.
Per quanto riguarda invece il pop? Perché in “Hocus Pocus” non c’è solo una bella
fetta della scena rap italiana, ci sono anche featuring come Max Zanotti e Diego
Mancino.
Beh, il pop... Trovo che i generi musicali siano usati spesso e volentieri impropriamente; o
almeno, capita che sfuggano alle loro coordinate iniziali. Quanti brani, nati assolutamente in
contesti e con intenti non pop, sono diventati pop? Vale anche il contrario. Sia come sia,
affrontare la componente melodica trovo che sia in ogni caso una bella sfida. Prendiamo la
musica italiana: la nostra tradizione, quella assolutamente melodica, trattata in un certo
modo potrebbe diventare molto interessante anche per chi non è un consumatore dozzinale
di musica – il problema è che quasi sempre è prodotta di merda. Gli americani, gli inglesi,
ma anche gli indiani sono riusciti a rendere interessante e contemporanea la loro tradizione
melodica, noi invece non ci siamo riusciti, o ci siamo riusciti con progetti artistici come quello
della Pausini che sono diventati il nostro biglietto da visita all’estero. È un peccato. Ci
sarebbero ancora molti margini. Per quanto riguarda gli ospiti che dicevi, sia Diego che Max
li ho conosciuti quando io e Aladyn abbiamo fatto qualche set coi Rezophonic; su Mancino
comunque avevo già ottime referenze che mi erano state date da Fabri Fibra.
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C’è qualche personaggio del pop italiano con cui ti piacerebbe collaborare?
Mmmmh... una cosa che ho sempre pensato è che sarebbe bello far fare ad Elisa delle
cose estreme, penso che il risultato sarebbe molto interessante.
Domanda finale, e te la faccio in questo considerandoti come DJ: è finito il live di
“Hocus Pocus”, ora ti tocca prendere il possesso della console per un DJ set – qual è
il pezzo con cui inizi, qual è quello da mettere nel momento di massima adrenalina, e
qual è quello con cui chiudere la serata.
Apro con “Breathe” dei Prodigy. Tocco il culmine col remix di Sebastian di un pezzo dei
Rage Against The Machine. Chiudo – e l’ho fatto più volte davvero – con una poesia di
Remo Remotti...
Contatti: www.myspace.com/reversemyke
Damir Ivic
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Hana B
Sbarcati a Londra ormai tre anni fa, gli eporediesi Hana B pubblicano ora il loro primo album
in inglese, “Ruin's Hotel” (Summer Dawn/Family Affair), disco cui contribuiscono la
produzione di James Loughrey e gli arrangiamenti di Davide Rossi, un lavoro sospeso tra
energia rock e melodie di ampio respiro. Abbiamo intervistato Fabrizio Vitale, voce della
band, cercando di fare un bilancio dell'ultimo trienni, facendoci raccontare la genesi del
nuovo lavoro.
Si parla spesso di fare armi e bagagli e cercare fortuna all'estero, ma voi ad un certo
punto lo avete fatto davvero...
Eravamo saturi del mondo musicale italiano, sinceramente non ce la facevamo più, e così
abbiamo deciso di trasferirci in Inghilterra, ormai tre anni fa più o meno. È stata una mossa
che ha sconvolto completamente le nostre vite ma direi che ha portato i suoi frutti, nel senso
che, dopo un primo attimo di smarrimento, ha portato a questo disco, di cui siamo molto
contenti. Dal punto di vista della registrazione abbiamo lavorato in uno dei migliori studi di
Londra e forse del mondo, con produttori inglesi che la sanno lunga, e anche a livello di
qualità artistica siamo molto contenti del risultato. La scelta, sul lungo periodo, ha funzionato.
Non è stato facile, in primo luogo deciderlo, ma ad un certo punto abbiamo deciso di
rischiare il tutto per tutto. Abbiamo anche provato a fare altre cose, ma abbiamo visto che
non ci riuscivano, e quindi abbiamo capito che forse la musica era l'unica risposta al nostro
malessere. Non è facile tuttora, nel senso che alcuni aspetti della vita quotidiana non sono
semplici, ma andandocene dall'Italia abbiamo detto addio a tanti suppellettili, a false
modestie e ipocrisie. Senza falsa modestia crediamo di avere per le mani un prodotto che
può competere a livello internazionale, quindi ci rincuoriamo per il nostro atto di coraggio.
Un paio d'incontri, soprattutto, sono stati fondamentali: James Loughrey che ha
prodotto il disco e Davide Rossi che ha contribuito agli arrangiamenti.
Assolutamente sì. Con James tutto è iniziato parecchio tempo fa, ha sentito la nostra
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musica in tempi non sospetti diciamo, sì è appassionato a quello che facevamo ed è nata
un'amicizia. All'epoca addirittura io cantavo ancora in italiano, quindi ha colto nella musica
qualcosa che probabilmente lo ha molto colpito, e la collaborazione dura tuttora. Con Davide
il nostro incontro è stato davvero sopra le righe. Non avevamo idea di chi fosse, poi abbiamo
letto di un italiano, un italiano di Torino peraltro, vicino a casa quindi, che collaborava con
nomi importantissimi come Coldplay, Royksopp, Siouxsie, allora lo abbiamo contattato via
MySpace. Lui ci ha confessato che appena ha letto il nostro messaggio si è chiesto chi
diavolo fossimo. Poi gli abbiamo linkato un paio di pezzi che gli sono piaciuti molto, così ci
ha contattato, dicendoci che era impegnatissimo ma che avrebbe voluto lavorare con noi.
Abbiamo iniziato a lavorare alla preproduzione sia con James che con Davide, e anche con
lui si è stretta un'amicizia importante. Dagli incontri con Davide vengono sempre fuori cose
particolari, ad esempio quando eravamo in studio abbiamo conosciuto tutti quanti Nick
McCabe, il chitarrista dei Verve, lui e Davide hanno fatto amicizia e poi hanno fondato un
gruppo insieme. È anche questo il bello di Londra.
Gli arrangiamenti d'archi sono integrati nel tessuto dei brani, non si tratta di un
arricchimento successivo.
Sì, questo nasce dal fatto che Davide è veramente un artista, non si limita ad arrangiare, si
comporta da musicista. È stato un incontro a tratti simbiotico, e lui si è comportato molto
poco da arrangiatore di archi e molto più musicista, ha una capacità di calarsi nella musica
come pochi altri.
Il dualismo tra rock e ballata, tra violenza e tranquillità, presente fin dagli inizi,
continua a far parte della vostra musica.
Il mischiare la violenza sonora con l'armonia e la dolcezza fa sicuramente parte del nostro
DNA e sarà così fino a quando suoneremo. Sono sicuramente cambiate molte cose, nel
senso che l'approccio, se vogliamo, ora è più anglosassone, è un po' più rock e molto meno
pop... è difficile parlarne perché per noi è davvero un mondo diverso, “Camera oscura”, che
è uscito nel 2006, era più una prova di registrazione che un album vero e proprio, per quel
che mi riguarda, con “Ruin's Hotel” è uscito fuori qualcosa di compiuto. A distanza anche di
un anno e mezzo dal momento in cui lo abbiamo registrato, e a due anni da quando lo
abbiamo iniziato, lo riascolto ogni tanto e continua ad emozionarmi, e così penso che
abbiamo fatto bene ad aspettare così tanto. Rispetto al primo è cambiato il nostro
immaginario, e si sente.
Com'è stata accolta finora la vostra musica in Inghilterra?
Abbiamo suonato in lungo e in largo qui, a Londra, Manchester, Leeds, Liverpool... tutto
molto positivo, il pubblico inglese ha forse la nomea di essere un po' snob e razzista ma non
è assolutamente così, anzi, nei posti più importanti vale davvero la qualità del live, della
performance, soprattutto se vai verso Nord la qualità di chi suona diventa alta. Suonando a
nord siamo diventati amici del gruppo che suonava prima di noi, e loro continuano ad
incoraggiarci, si è creato un bel rapporto. Io mi sono sentito spesso snobbato di più a Milano
o Torino rispetto all'Inghilterra.
Contatti: www.myspace.com/hanabofficial
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Alessandro Besselva Averame
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Numero Marzo '10
Mamuthones
“Sator” è il nuovo disco dell'ex Jennifer Gentle Alessio Gastaldello. Qualche parola con il
diretto interessato per capire cosa avvicina i Mamuthones a concetti come religione,
psichedelia, attitudine e krautrock.
Se “The First Born” (A Silent Place, 2008) trafficava con un ambient etereo,
immaginifico ma piuttosto malleabile, “Sator” (Boring Machines, 2010) sembra virare
in maniera netta verso una progettualità più consapevole in cui ogni frammento
sonoro contribuisce a definire i confini semantici del disco. Pur nell'ottica di uno stile
che rimane ancorato al landscape tout court. Cosa è cambiato in Mamuthones tra il
primo e il secondo disco?
La differenza fondamentale è che “The First Born” è un disco mio e di Fabio Orsi, mentre
questo è il mio primo album completamente da solo. “The First Born” è nato da una serie di
scambi di materiale e condivisioni, senza mai un incontro fisico. Un metodo di lavoro molto
stimolante perché non si sa mai con precisione quale direzione prenderà un pezzo. E' un
gioco di azione e reazione, quasi una jam in differita. Lavorare da soli, invece, ti dà la
possibilità di controllare tutti gli aspetti, di poterci tornare sopra, di rivedere le cose. Per
“Sator” ho lavorato molto d'istinto ma con un'idea precisa sul suono e sulle atmosfere. Per la
coesione molto ha influito il lavoro di editing finale, che effettivamente è stato abbastanza
ragionato.
“Sator” ha tutto l'aspetto di un concept album. Qual è l'idea alla base del disco?
Come ti dicevo, pur lavorando molto d'istinto, l'idea del suono e delle atmosfere che volevo
era molto chiara. Ciò che ho voluto “mettere” in questo disco ha a che fare con la mia
necessità - che credo sia anche universale - di una dimensione sacra, se non religiosa.
Penso sia del tutto evidente come l'aver voluto espellere Dio dal confronto pubblico sulle
idee abbia portato a un impoverimento culturale e a una condizione umana distorta, se non
disperata. Con “Sator” ho voluto in qualche modo celebrare un mio rito personale che
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contribuisse a mettermi in contatto con gli aspetti più veri e autentici dell'essere uomo.
“Vaste programme”, potrebbe dire qualcuno, ma è un primo passo.
Una delle influenze più evidenti della tua ultima fatica pare il krautrock tedesco. Come
ti poni nei confronti di una scuola di pensiero - com'è quella dei corrieri cosmici
teutonici - che ha saputo unire psichedelia, elettronica e sperimentazione in una
concezione di musica non imbrigliata dai limiti formali?
Mi pongo molto bene, ovviamente. La scoperta del krautrock è avvenuta in relativa tarda
età, per me, e ha completato la mia ricerca da ascoltatore (almeno in ambito rock). Penso di
non essermi mai entusiasmato tanto per dei musicisti, quanto mi sono entusiasmato per i
Can. Devo dire, comunque, che abitualmente non mi formalizzo su stili ed etichette e non
tutta la musica che mi piace è fatta di sperimentazione e superamento dei limiti formali. Ciò
che conta è il risultato finale. Per cui meglio un bel pezzo pop di tre minuti che una jam
pallosa...
Hai un passato nei Jennifer Gentle, una delle formazioni indie italiane che più ha
saputo raccogliere buoni risultati in patria e all'estero. Quanto ha influito sulla tua
formazione l'esperienza con il gruppo e cosa credi che i Mamuthones abbiano
conservato – se hanno conservato qualcosa - dei Jennifer Gentle?
La mia maturazione come “musicista” è tutta nei Jennifer Gentle. Prima di quella non ho
avuto altre esperienze particolarmente significative. Per cui tutto ciò che ho fatto con i
Jennifer Gentle è stato di fondamentale importanza per arrivare a Mamuthones, in
particolare il “giocare” con il processo di registrazione dei brani. Stilisticamente direi che i
brani più dilatati dei Jennifer Gentle sono abbastanza in stile Mamuthones. E infatti dal vivo
è capitato di eseguirne un paio.
Cos'è la psichedelia per Alessio Gastaldello?
D'istinto mi verrebbe da dirti “un'etichetta di cui un po' si abusa”. Pur amando molta musica
definita psichedelica, devo dire che mi sento un po' lontano dalla retorica che ci si fa attorno.
Father Murphy, Slumberwood, Jennifer Gentle: tre realtà capaci di reinterpretare in
maniera personale il concetto di psichedelia. I primi virando verso un impianto
strumentale vicino a certo rock/folk apocalittico, i secondi lavorando sulle
potenzialità “espansive” del suono, gli ultimi combinando Syd Barrett con il garage
americano anni Sessanta. Dovessi sintetizzare invece la ricetta e gli obiettivi di
Mamuthones?
Ti butto lì alcuni aggettivi e qualche nome: rituale, primitivo, esoterico, cristiano, ossessivo,
ipnotico, Popol Vuh, Tangerine Dream, Can, Nico, Giovanni Lindo Ferretti, Cormac
McCharty...
La scena veneta è quella che forse ha saputo rielaborare meglio la tradizione del rock
psichedelico. Abitudine al pensiero laterale o semplice casualità?
Polenta? Vino? A parte gli scherzi, dieci o quindici anni fa suonavano tutti noise da queste
parti. Mi piace pensare che poi sono arrivati i Jennifer Gentle e sono cambiate un po' di
cose. Non so se sia realmente così, sta di fatto che attorno ad alcune persone legate in
qualche modo ai Jennifer Gentle si sono coagulate diverse realtà riconducibili al rock
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psichedelico. Realtà che stanno ottenendo un discreto consenso sia in Italia che all'estero.
Contatti: www.myspace.com/themamuthones
Fabrizio Zampighi
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Nexus
Anche se hanno alcune esperienze discografiche alle spalle, in un decennio abbondante di
vita, i veronesi Nexus, considerano in qualche modo “Firesound” (Vrec/Venus) il loro album
della nascita o della rinascita se vogliamo dirla alla loro maniera. Al trio originale, Cristiano
Mackie (batteria, voce), Andrea Vero (basso, voce) e Diego Dal Kodo (chitarra, voce), si è
unito l’anello mancante, il chitarrista, batterista, cantante Christopher Tooker, un ragazzo
italoamericano che ha aggiunto quel tocco di energia positiva che forse mancava ad una
band di lungo corso, che sembrava destinata a non trovare più nuovi obiettivi. E con il suo
arrivo, nel giro di pochi mesi tutto si è trasformato in un nuovo traguardo da raggiungere, il
repertorio viene riarrangiato, i concerti assumono un tasso adrenalinico maggiore (i musicisti
sul palco amano scambiarsi i ruoli continuamente) e i nuovi pezzi odorano davvero di quel
rock ad alto voltaggio che ingloba una moltitudine di influenze (diciamo The Clash, AC/DC,
The Cult, ma anche Green On Red e Soundgarden e il resto cercatelo da soli), tanto che
diventa difficile dare un’identità precisa ai Nexus. E questo, come racconto loro stessi, può
essere un limite ed allo stesso tempo un pregio.
Nonostante numerosi anni di attività, siete arrivati a concretizzare qualcosa al di fuori
dei confini locali, solo con l’uscita di “Firesound”. È stata una decisione voluta o
forzata quella di vivere ai margini in attesa di un’occasione in qualche modo
importante e credibile?
È ancora presto per dire di aver concretizzato qualcosa con la musica. Ognuno di noi deve
ancora svegliarsi la mattina e andare al lavoro, quello che ti fa mettere la benzina nell’auto e
pagare le bollette. Durante questi anni abbiamo messo in atto parecchi cambiamenti: nella
formazione con l’aggiunta di Christopher e il cambio di bassista. Per quest’ultimo abbiamo
speso un sacco di tempo prima di arrivare ad Andrea. Per il resto abbiamo sempre fatto
quello che ci piaceva e ci piace, lo stile si è evoluto ed è in continua evoluzione. Abbiamo
lavorato un sacco di tempo sui pezzi in sala prove. Adesso è il momento di farli ascoltare.
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L’arrivo di Christopher Tooker in formazione, cantante e polistrumentista, ha di fatto
solo ampliato una vostra tendenza originale di non essere cioè una band con dei ruoli
ben definiti, infatti vi scambiate compiti e strumenti sia in studio che dal vivo,
situazione questa che pur se vista spesso in un’ottica di divertimento, in realtà
dimostra una grande competenza artistica.
Christopher è un musicista eccezionale, sa suonare tutto e impara molto in fretta. La prima
volta che l’abbiamo visto in azione suonava la batteria e cantava cover di Jimi Hendrix in un
localaccio in zona università. Ci ha colpito per l’energia che sprigionava. Quando è venuto
nella nostra sala prove abbiamo improvvisato un sacco, poi si è seduto alla batteria e
Cristiano ha allora preso il microfono ed ha cominciato a cantare, insomma era un vero e
proprio gruppo nel gruppo.
L’artwork di “Firesound” è curato ed originale, con il CD che si apre a croce. Vuole
essere anche un omaggio all’epoca dei vinili e quanto è importante per voi anche
l’aspetto estetico in generale in una rock band?
Certamente sì, l’impatto visivo è importante, altrimenti sarebbe come bere un buon vino nei
bicchieri di plastica di un fast food. La copertina è un disegno preso da un cerchio nel grano
apparso qualche anno fa nei pressi di Silbury Hill, una collina artificiale del megalitico in
Inghilterra. Il significato è ignoto, alcuni dicono possa essere il conto alla rovescia della fine
di questa era. Quello che traspare nel packaging e nelle immagini è la ripetizione del numero
4. Nella numerologia cinese (così come in altre lingue orientali) la parola "quattro" è una
omonima della parola "morte" e quindi il numero viene considerato sfortunato. Nella sua
valenza positiva il Quattro rappresenta l’essere pratico (o "terra-terra"), mentre il fatto che sia
il primo numero non primo lo lega a una personalità composita che trae idee da fonti diverse
e spesso in conflitto per elaborare un fiero modo di pensare "fuori dal coro".
Stilisticamente “Firesound” sembra essere una spugna di fiumi di rock americano
degli anni 80/90, tanto da fregiarsi della stelletta di “non classificabile”, questo a mio
avviso è un merito, ma non temete che in tempi di etichette a tutti costi, questo possa
diventare il vero limite dei Nexus?
Secondo me l’etichetta limita e può deludere. L’etichetta serve per catalogare e ai negozi
per metterti su uno scaffale. Io metto l’etichetta mentale a un gruppo se mi piace. Musica
questa è una buona etichetta. Poi comunque è tutto intriso di rock quindi "musica rock".
Siete il tipo di musicisti/band che non accetta nessun tipo di intromissioni nelle
decisioni artistiche o pensate che dei buoni consigli possano essere utili? In tutti
questi di esperienza, quanto e come è cambiata, se è cambiata, la scena rock, magari
con una considerazione anche per l’Italia?
Ben vengano i consigli, poi però bisogna essere tutti convinti e d’accordo. Nella nostra
passata esperienza (con la Sony) abbiamo provato a fare "il patto col diavolo" ma il risultato
alla fine era veramente deludente. Se non si è convinti di una cosa, si fa male. Tutto ciò è
però servito per mettere in atto dei cambiamenti nella band. Io ero emotivamente demolito e
ho smesso di cantare, abbiamo quindi deciso di prendere un quarto elemento, una nuova
voce oltre alla rivelazione della voce di Mecchi. Riguardo la scena rock è talmente vasta e
comunque solitamente si ascolta una band per consiglio di un amico. Con MySpace,
Facebook, YouTube e iTunes ci metti un attimo. Senti i pezzi, guardi i video, le foto, sai
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quando suonano. Pensa a 10-15 anni fa,un sacco di proposte e pochi canali di diffusione.
Allora le riviste e i critici ricoprivano effettivamente nei pro e i contro la carica di (re)censori.
Ora invece, tutta, ma proprio tutta la musica viene tutta convogliata in Rete come in una
gigantesca cloaca dove purtroppo, finiscono anche le proposte buone che non sarà facile
trovare. Vince chi ha visibilità.
Oggi la visibilità si acquista solo suonando dal vivo, eppure il problema più grosso
sembra quello di trovare locali disposti a far suonare cose diverse dalle cover band?
Come e soprattutto perché, secondo voi, è nata questa piaga dei gruppi tributo?
La visibilità si guadagna anche con Internet. Bisogna pompare la propria immagine, creare
un evento e inoltre avere dei buoni pezzi. Quello è il tuo biglietto da visita. I soldi che un
musicista può prendere dipendono dalla musica live, dal merchandising e dalle royalties se ti
mettono su una pubblicità o un videogioco o una sigla. Non tanto dai dischi. I gestori
ricevono un sacco di proposte, alcuni lavorano solo con agenzie, il loro lavoro è riempire il
locale. Con la tribute band,vai a colpo sicuro. La gente conosce già i pezzi e si lascia
andare, come quando fai sempre la solita strada, ti distrai e rischi di fare un incidente, il
rischio è creare un audience distratta e poco critica.
Cosa vi aspettate dal futuro immediato e sulla lunga distanza? Avete insomma un
obiettivo concreto ed un sogno nel cassetto? E parlando per assurdo, quale potrebbe
essere un motivo per decidere di farvi smettere di suonare come band e come singoli
musicisti?
Un tour, poi il nuovo album,poi un altro tour e un nuovo album, e così via nei secoli dei
secoli. Sarebbe bello vivere di questo. Per adesso la band ha resistito,abbiamo anche
suonato gli stessi pezzi in formazioni stravolte o ridotte e il bello è che comunque le canzoni
stanno in piedi e anzi, hanno un fascino diverso, come un quadro di Andy Warhol:stessa
immagine ma diversi i colori. Riguardo al discorso di lasciare la musica, non se ne parla
proprio, probabilmente quando saremo completamente sordi continueremo ad alzare il
volume!
Contatti: www.nexusfiresound.com
Gianni Della Cioppa
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Sorella Maldestra
Sorella Maldestra faceva punk quando era il momento di fare punk: a cavallo degli anni 70 e
80, con il '77 nel mezzo. Insieme a Skiantos e Gaznevada, il gruppo vercellese è tra le dieci
punk band storicamente più importanti dello stivale. Ora, dopo quasi trent'anni, Sorella
Maldestra si riunisce per tornare a dire le cose solo come le sa dire: a malo modo.
“Maltempo” (Banksville) è il primo di tre album in quattro anni.
Anche se non il vostro non era un vero e proprio scioglimento, come mai tornare
dopo trent'anni?
I legami tra le persone non si sciolgono. Un'idea, una visione, un approccio comune alle
cose esistono indipendentemente dalla frequentazione, dal provare tre sere a settimana,
dallo stare tutti nello stesso posto. Se capita, meglio, ma non è questo che fa un gruppo.
Siamo un corpo sottile, in senso esoterico, non seguiamo un senso del tempo, della materia,
dell'essere in un luogo come la maggior parte delle persone. Siamo capitati nel pensiero di
Stefano Cavedoni degli Skiantos (ancora loro, ma per fortuna almeno tu non ci rompi i
coglioni con la storia degli Skiantos... siamo amici, punto e basta, loro facevano il
demenziale per cultura, noi venivamo dalla demenza di Vercelli, è molto diverso) per un
pomeriggio alzheimeriano nel 2007. Guarda caso trent'anni giusti dal '77. Eravamo, e lo
siamo tutt'ora, sparsi per l'Italia e per l'Europa. Andrea, l'altra chitarra, aveva dato forfait, ci
siamo visti alle Officine Sonore di Vercelli, ne abbiamo parlato anzi no perché se non ce ne
fregava prima figurati trent'anni dopo, Baltaro e Ranghino stavano lì e il giorno dopo, in
studio da Baltaro, abbiamo attaccato e dato di volume. Come se avessimo provato due
giorni prima. Se dopo trent'anni ti siedi a bere e ti metti a parlare con una continuità
logico-temporale, un’immediatezza e un “sentire” le cose come se stessi riprendendo il
discorso sospeso la sera prima, significa, molto probabilmente, che eravamo sinceri quando
mollammo perché non ci divertivamo più e lo siamo stati anche nel “ritorno”. I gruppi vanno e
vengono, probabilmente con cadenza trentennale, un modo di essere non rientra in questa
regola, un modo di essere è e basta; puoi filtrarlo con l'esperienza degli anni, se così non
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fosse soffriresti di arresto dello sviluppo, ma non segue una logica temporale. Quando è
vaffanculo, è vaffanculo sempre. Sorella non è mai stata una bandarock (una parola sola), è
un’attitude.
Siete sicuri che quello che andava bene nei primi Ottanta sia ok anche oggi?
Su un numero del “Mucchio” di qualche mese fa, Federico Guglielmi ragionava con Manuel
Agnelli sul perché in Italia i gruppi in grado di dare continuità alla loro presenza non fossero
bande di ragazzini venticinquenni, in teoria nel momento di massima “urgenza espressiva”,
ma gente della generazione “anta”, ovvio con dovute eccezioni. Quando qualcuno di noi ha
iniziato a votare, più o meno trent'anni fa, se la memoria non inganna, c'era De Mita. Alle
ultime amministrative Furio Suonosporco se l’è ritrovato tra i coglioni come capolista in
Campania. Non andava bene negli anni 80, siamo sicuri che vada bene adesso? Una cosa
che ha senso qui e adesso, se la rifaccio domani, quindi temporalmente contigua, ma
vengono meno le motivazioni che l'hanno generata, è solo una banale rappresentazione di
sé stessi e basta, come l'aperitivo con l'olivina alle sei. Non siamo realmente sicuri di nulla,
figurati se possiamo ricordarci che cazzo andava bene ieri rispetto ad oggi. Sappiamo solo
che non è la stessa identica cosa, oggi è molto peggio.


Non pensate che il suono originario avesse come valore aggiunto l'urgenza, mentre
quello di oggi sia, in un certo senso, manieristico?
Il valore aggiunto dovrebbe essere l'onestà intellettuale, parola grossa, in realtà non c’è
nessuna imposta da pagare se non quella di essere sempre al posto giusto nel momento
sbagliato. La maniera, poi, manca anche oggi. Il modo no.
Nella nuova formazione ci sono Vittorio Ranghino al basso e Paolo Baltaro alla
batteria e alla produzione. Che apporto danno queste nuove influenze al vostro
vecchio suono?
Si ricordavano i vecchi pezzi che gli altri non ricordavano più, ascoltavano la “vecchia”
Sorella da piccoli, di nascosto dai loro genitori. Non è una palla, è la verità. Danno continuità
al tenore alcolico, sono una ritmica compatta e con un interplay non indifferente e soprattutto
non esiste un gap generazionale. Ranghino è molto istintivo, lui e il basso sono un corpo
unico, aggressivo e sporco. Magari a discapito dell'arrangiamento e della finezza espressiva
ma non ci interessa essere i Dream Theater o gli Stranglers. Quando è il caso, se la vede
Baltaro a suggerire di provare un giro o una divisione diversi, se se li ricorda. La ritmica deve
essere un peso sullo stomaco, te la devi sentire lì, una tensione oppressiva come nei RATM,
per fare un nome a caso. 


Il punk '77 italiano è sempre stato un microverso a parte rispetto a quello
anglosassone. Forse con meno voglia d'apparire, ma con più coscienza nel
disgustare. Spesso i vostri testi sono volutamente sgradevoli, dite che vi si ama o vi
si odia.
Onestamente non ci sembra che ci sia molta differenza tra dire “vaffanculo” e vedere lo
scendiletto di berlusconi a masturbarsi (potendo) davanti alle scene del delitto riprodotte nel
plastico del momento. La sgradevolezza è soggettiva. Se ci fermiamo all'apparenza uditiva
allora ti chiedo se hai ma sentito, carpito un discorso medio qualunque, hai mai buttato
l'orecchio in mezzo alla gente, ai ragazzi, agli anziani? Certo, non è che ci sia una pandemia
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di sindrome di Tourette ma la lingua parlata è molto spiccia, diciamo così. Un bel fighetto o il
berlusconide di turno che se ne esce con un “però che gnocca” nei confronti di una che
passa, oppure il solito puttanone biondo che molla il SUV all'angolo per andare dal
parrucchiere non sono altrettanto volgarmente sgradevoli come dire “m'attacco al cazzo”?
Può non sembrare, ma le nostre parole sono pesate, limate, provate, devono suonare in un
certo modo, si devono incastrare con il suono. Godano dei Marlene ha spiegato bene questo
approccio in una video intervista con Cheyenne. Durante le registrazioni abbiamo discusso a
lungo su un “dio bastardo” che era nativo e strutturale in un testo. Il solo fatto di esserci posti
il problema dell'interpretazione sulla gratuità o meno dell'espressione legittimerebbe l'accusa
di paraculaggine. Si nota di meno se non vengo? In realtà per noi le parole pesano molto e
hanno un cazzo di senso, anche se a qualcuno può non sembrare. In questo caso basta
chiedere, una spiegazione non si nega a nessuno. Il fatto che nessuno di noi si chiami
Bianconi, massimo rispetto, non significa che le mani vadano per i cazzi loro in preda al
Parkinson. La realtà è che prima di parlare/scrivere siamo soliti attaccare il cervello e
mettere un lock di sicurezza. Se ti diamo tre parole, solecuoreamore (una parola sola), non
sono una rima, sono un calcio nelle palle. Forse se lo collegassimo di meno potremmo
scrivere qualche stronzata in più a cuor leggero. Comunque, anche per “Maltempo”, come
per “Cadavere”, l'esegesi dei testi da parte dei maschi è stata molto più problematica rispetto
alle femmine. Tra le varie recensioni pubblicate, quelle che hanno colto il significato di testi e
di tutto il lavoro sono di due donne. Con una chiarezza, una lucidità, consapevolezza forse,
che nemmeno noi avevamo.
In trent'anni i modi di comunicare sono cambiati parecchio. Prima la TV, ora internet.
Forse la musica si è liberata dal supporto, ma il punk ne ha risentito in qualità. C'è
ancora una via di scampo per salvarsi dall'immagine?
Sembra dire da fatti, eppure, per ciò che ci riguarda, puntiamo sull’immagine: quella
negativa, che non significa tale se non l’inverso dell’immagine del Grande Bordello, leggi i
media inconsulti, se vuoi internet, false libertà, anzi, sistemi di controllo ormai assodati. E
consapevoli che l’unico supporto “punk” è forse quello delle tue rughe, dell’assenza di voce e
del tuo benessere, in fondo. Così, magari, ci si salva. Non sarà mica una risposta
manierista?!
Che cosa ha influenzato la scrittura della mezzora di “Maltempo”?
Vivere con i piedi per terra. Forse il pezzo “Sorella Maldestra” è la risposta corretta. Power
chord, Marshall, beat molto alti, divisioni quasi sempre in ottavi e ancora power chord,
cantati/recitati (cantato è un termine impegnativo) a ipotizzare una scelta tonale
sull'indeterminatezza del power chord. Non è stata una scelta ponderata, ci siamo trovati a
sentire, pensare, virare in modo naturale e spontaneo verso questo suono. Poi il vissuto
musicale di ognuno di noi, i gusti, ma soprattutto il vissuto, non in senso di passato ma
proprio di “spugna dei fatti sonori”. Per esempio, Furio Suonosporco si porta dentro Jones,
Page, Coltrane, Morello, Charlie Hunter e Van Leeuwen, per dire, è chiaro che gli venga
istintivo buttare dentro tutto ciò, incastrare power chord e corde libere in saturazione e
muovere tutto per terze maggiori. I testi sono il quotidiano o il paradosso di un falso
movimento, è il nostro personale che riflette quello che ci circonda o il contrario. Leggi
“Telefuso”. È del '78. In quell'anno non esistevano Sky e il digitale. Sono stati l'unico
rewording di una riflessione fatta trent'anni fa, quando tornavi a casa perché verso
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mezzanotte su Tele Alto Milanese si vedevano le tette. Adesso si vedono tettefigaculo (una
parola sola) in prima serata. Solo una questione di orario. Per il resto, telefusi allora
televotanti adesso. Se quello che abbiamo scritto trent'anni fa sembra una riflessione sul
quotidiano, c'è qualche cosa che non quadra, o no? Abbiamo vissuto circa vent'anni nel
paradigma del modello tettona di Drive In e adesso un coacervo di puttanieri indagati impone
per legge il divieto della plastica estetica alle minorenni, in teoria sotto la responsabilità
educativa di qualcuno che talmente monotono e amorfo ha permesso la lobotomia delle
figlie. Boh.
Il pubblico di oggi, dal vivo, oltre ai vostri vecchi fan e ai passanti casuali, come vi
accoglie?
Si diverte, beve, ride, ci manda affanculo, canta. A maggio scorso abbiamo suonato al
MADS a Roma. I ragazzi non erano nati all'epoca di “Cadavere”. Lo conoscevano a
memoria! Qualcuno s'è anche incazzato perché non abbiamo suonato “Pronto”. E chi cazzo
se la ricorda! In linea di massima abbiamo riscontrato che il tipo di reazione non è cambiato
nel corso degli anni e la cosa è bella e interessante perché due o addirittura tre generazioni
reagiscono allo stesso modo. Forse potrebbe significare che siamo credibili adesso come
allora. Vuoi che i vecchi fan si comportino allo stesso modo dei giovanissimi perché sono
rimasti degli idioti cognitivi? O che i giovanissimi, per il semplice fatto di comportarsi come la
vecchia fan base, siano dei “nati vecchi”?
“Maltempo” è il primo di tre album con la Banksville per i prossimi quattro anni. Ci
aspettiamo ancora una volta di amarvi oppure odiarvi, senza mezze misure.
Facciamo del nostro peggio. Abbiamo bisogno di trovare il tempo per provare il materiale
nuovo. La logistica e gli impegni di ognuno non ci aiutano. Voci e ritmica presidiano la Rocca
dei Celti, le tastiere vagano per le calli veneziane, la chitarra si sporca con la cenere del
Vesuvio. Non è semplice incrociare disponibilità e tutto il resto. Siamo grezzi e, a parte
Baltaro che lo fa di mestiere, proprio non ci passa per l'anticamera l'idea di preprodurre
bozze, idee, spunti in digitale e condividerli. Noi ci dobbiamo vedere in faccia, ci dobbiamo
spaccare le orecchie anche quando proviamo i pezzi nuovi, che alla fine dici “non ho sentito
un cazzo”. Ci dobbiamo sudare addosso. Giusto i testi, spesso rimpallano Vercelli-Salerno
via mail. Comunque, visto che il nostro parlar forbito in “Maltempo” pare abbia destato
particolare attenzione, anticipiamo che al momento le uniche parole sgradevoli che abbiamo
usato sono culo e sperma. D'altronde ci è sempre riuscito bene, senza forzature e del tutto
spontaneo: quando è vaffanculo è vaffanculo sempre. E cazzo no?!
Contatti: www.myspace.com/sorellamaldestra
Marco Manicardi
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Squarcicatrici
Dopo l’esordio in proprio “Bossa Storta”, uscito per la Saravah tre anni fa, alla fine del 2009
Jacopo Andreini ha dato alle stampe il suo il secondo album, per Wallace, Burp, San
Giuseppe e Frigorifero Produzioni. Solo che stavolta, invece che pubblicarlo a proprio nome,
ha utilizzato la ragione sociale Squarcicatrici (che è anche il titolo dell’album), come
chiamava cioè il progetto quando lo portava dal vivo. Il disco nuovo ha ancora questo sapore
internazionale che sembra tangere gli stili e l’essenza più preziosa di mille personalità
musicali: quella multiforme del leader e quelle dei musicisti che vi hanno partecipato.
Per il primo disco, realizzato con una band di tredici elementi, avevi usato il tuo
nome; adesso che il gruppo è di undici elementi (quasi tutti differenti dai primi)
Squarcicatrici è diventato il nome del progetto anche per il disco.
Esatto. Perché nel frattempo il mio progetto è diventato un gruppo e non più mio e basta,
anche se la maggior parte dei pezzi del disco sono miei, però avevo voglia di agglomerare
tutte queste energie intorno alla sensazione di gruppo.
Nel disco troviamo “Izgubljen sambetta”, che mi incuriosisce sin dal titolo.
“Izgubljen” vuol dire “mi sono perso” che a volte è un concetto che si ritrova nella vita di tutti
i giorni e avendo chiesto di fare un remix ai Vuneny – che è gruppo bosniaco fantastico che
ho conosciuto anni fa tramite il gruppo di cui faccio parte, l’Enfance Rouge, e con cui
abbiamo fatto tanti concerti sia in Italia che in Francia e in Bosnia – gli ho chiesto di tradurre
questo concetto dell’essersi persi in bosniaco e da lì è venuta fuori questa doppia versione
del titolo.
Quali sono le differenze tra il primo e il secondo album a livello compositivo?
Nel primo ci sono canzoni più o meno intorno a questo concetto della bossa storta: quindi
sapori brasiliani anche se molto “violentati”, mentre il secondo album, tagliando grosso, è
una specie di afro jazz punk, quindi un po’ più aggressivo e molto più strumentale, perché
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alla fine anche se la voce è in moltissimi pezzi le parole sono soltanto in due e un pezzo non
lo canto neppure io, ma il cantante di République du Solage: un progetto che avevamo fatto
qualche anno fa, in Francia sempre legato all’Enfance Rouge e quindi è un pochino più
rivolto a questa specie di aggressività romantica.
A proposito della tua voce, come fai a riprodurre questo tuo “urlo primitivo”?
Viene fuori. Ho scoperto una valvola nella gola che si è aperta per conto suo ed è uscita
questa voce molto alta come ad esempio in “Macedone” e sono alcuni anni che per i miei
live in momenti di improvvisazioni uso questa voce, che per la prima volta ho registrato
adesso anche su disco.
Quando conosci le persone in cui ti imbatti andando in giro, ti capita di vedere la
persona che hai di fronte come un suono?
No. Penso di trovare piuttosto immediatamente delle affinità di tipo umano, di tipo personale
e da lì magari nasce ad un certo punto qualcosa di musicale, però penso che la prima cosa
che mi fa notare una persona sia il suo lato umano.
Secondo me, i tuoi incontri sono stati fondamentali anche per il tuo istinto
compositivo. Chi tra gli undici elementi che ti accompagnano in questo disco ti ha
ispirato o è tutto partito prima da te?
Molti pezzi sono partiti da me, però molti sono nati altrove ma si sono sviluppati e sono
diventati adolescenti in studio. E lo studio, vorrei sottolinearlo, è la casa dove vivo adesso in
mezzo ai boschi che è un bellissimo posto per comporre arrangiare, registrare, stratificare,
cancellare, ripensare a quello che si fa. Per cui è vero in parte, ad esempio la voce di Erwan
Naour dei Les Hurlements d’Leo, mi ha fatto sviluppare quel pezzo in una chiave più
drum‘n’bass molto sporca, come poteva suonarla Fela Kuti. Oppure c’è Enrico Antonello
alla tromba che ho conosciuto con la Pangoliniorchestra. Ecco, lui forse è una persona che
ho voluto anche per il suono che ispira quando lo conosci.
Dentro il disco poi troviamo anche un cartoncino che riporta uno scritto del tuo
amico Chico Caminati. Visto che è scritto in portoghese, cosa dice?
Chico è un sociologo brasiliano che si occupa di free software Linux e radio indipendente e
mi raccontava di fare radio né fuori legge né dentro la legge, ma libera. E sono cose che fa
in Brasile nel posto dove vive e nella foresta Amazzonica. Nel corso degli anni abbiamo
parlato tanto e molto spesso di quello che succede adesso nel mondo a livello sociale, socio
economico, politico, e allora gli ho chiesto di scrivere un saggio sulla situazione attuale e lui
ha scritto questa cosa che in realtà nega la possibilità di scrivere un saggio sociologico,
perché la sociologia è stata inventata dagli occidentali; e invece dà, secondo me, un
bellissimo punto di vista terzomondista (senza vergognarsi del termine) della crisi economica
di oggi come prima possibilità per la cultura del terzo mondo di inserire, per la prima volta, la
propria voce e proporre, un vero sistema di pensiero alternativo a quello che ha dominato il
mondo negli ultimi cinquecento anni.
Chi ha registrato il disco?
Io con Andrea Caprara che mi ha sempre aiutato in queste idee folli e con cui collaboro per
un sacco di progetti. Abbiamo un quartetto con le musiche di Edoardo Ricci e abbiamo
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Numero Marzo '10
messo su anche un nuovo progetto che è dedito a versioni free jazz di canti anarchici italiani
dell’inizio del secolo scorso. È una persona molto appassionata che ama mettere
disposizione quello che ha per far realizzare le cose anche agli altri. Adesso ci stiamo
dedicando a Tsigoti di cui fa parte anche Matteo Bennici al basso perché il pianista Thollem
McDonas che completa il gruppo torna in Italia dagli Stati Uniti per delle date qui. Il disco
nuovo è uscito alla fine di gennaio per Esp Disk e stiamo lavorando a quello nuovo che fa
parte della trilogia sulla guerra.
Dal vivo com’è composta la band di Squarcicatrici?
Anche questa ha avuto un sacco di rimaneggiamenti. Ho avuto alla batteria anche Jonathan
Burgun dei Radikal Satan che veniva da Bordeaux o adesso suoniamo anche con Andrea
Belfi che ha tutta la sua carriera di musicista elettroacustico con Mike Watt. Sono entrati
dopo pochissimo, Simone Tecla alla batteria e Piero Spitilli al contrabbasso che vengono
dalla scena sia jazz che rock di Firenze con soprattutto Piero sta bruciano un sacco di tappe
con la sua curiosità infinita per gruppi, stili e generi e sta studiando tutto e suonando
dappertutto di continuo. È fantastico averlo con noi.
Contatti: virb.com/squarcicatrici
Francesca Ognibene
Pagina 28
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Numero Marzo '10
Alchera
Discarica di sogni
autoprodotto
Sempre su “Fuori dal Mucchio” di questo mese potete leggere un’intervista all’artefice del
progetto “Hocus Pocus”, DJ Myke, in cui fra le altre cose il DJ umbro afferma come
tendenzialmente il pop italiano sia arrangiato da cani, o comunque in modo poco
interessante. Verissimo. Però poi senti un lavoro come “Discarica di sogni” e ti dici che no,
non tutto è perduto: possiamo ancora sperare che arrivi una generazione che abbia voglia di
lavorare su un pop dalle sonorità e soluzioni d’arrangiamento non banali, e che soprattutto
abbia personalità, portando così avanti il lavoro del cantautorato romano fiorito negli anni 90
(può piacere o non piacere, ma è indubbio che sia stato un marchio preciso, riconoscibile e
lavorato; per giunta, a noi piace). I siciliani Alchera hanno lavorato molto al momento di
vestire le loro tracce; se qua e là si sentono delle soluzioni non entusiasmanti (certe parti di
sintetizzatore, ad esempio) sono peccati assolutamente veniali e soprattutto sono gocce
rispetto ad un mare di qualità. Margini per migliorare però ce ne sono: in primis nell’uso della
voce, talora un pelino troppo melodrammatica (più composta e misurata sarebbe perfetta),
poi nella scrittura musicale vera e propria dei pezzi, che non è male, siamo lontani dalle
banalità insipide, ma siamo convinti che possano fare ancora di meglio. Complessivamente
lavoro promosso in pieno, e non lo diciamo per amore di scuderia (il “Mucchio” sul suo sito
ha ospitato il download di quest’album), ché nella scelta chi scrive non c’entra nulla e lo ha
saputo solo a cose fatte. Se qualche major si accorge degli Alchera, li aiuta ad aggiustare
alcune pecche e gli dà in mano mezzi di studio di livello, potremmo sentir parlare di loro in
futuro. Evviva. Non tutto il pop viene per nuocere.
Contatti: www.myspace.com/alcheramusic
Damir Ivic
Pagina 29
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Numero Marzo '10
Alibia
Manuale apocrifo delle Giovani Marmotte
Cni/Venus
Rubando un po' qua e un po' là, come fa chiunque abbia l'ambizione di crescere
artisticamente, gli Alibia hanno costruito poco alla volta una credibile poetica indie-rock: un
terreno misto tra rock e cantautorato che nasce tra le pieghe dei dischi degli Scisma,
raccogliendo per strada certi languori e struggimenti di marca Baustelle, insediandosi infine
in uno spazioso appezzamento nell'ambito del nuovo pop italiano di area indipendente,
riconoscibili nel mezzo dell'ondata di artisti che hanno riscoperto un certo modo di
considerare il pop: radici in bianco e nero, da ricercare tra le scenografie di Studio Uno, e la
trattazione appassionata di una materia nobile e dimenticata. Con appresso, naturalmente,
tutte le loro peculiarità. Tra queste ultime, il nuovo capitolo discografico, “Manuale apocrifo
delle Giovani Marmotte”, sottolinea in particolare una eccellente e inventiva organizzazione
del suono, con pianoforti, orchestrazioni, cori, voci femminili e maschili e chitarre capaci di
ricoprire un impressionante numero di sfumature. Forse manca ancora il brano decisivo,
quello che provoca la svolta definitiva, ma l'artigianato tecnologico e frastagliato degli Alibia
è senza dubbio di primissima qualità, e sa toccare parecchie corde in chi ascolta. Bravi,
continuate così.
Contatti: www.alibia.it
Alessandro Besselva Averame
Pagina 30
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Numero Marzo '10
Babylonia
Motel La Solitude
Halidon
Se assomigli in modo pazzesco ai Depeche Mode, prendendone proprio un sacco di cambi
armonici e saccheggiandone senza ritegno un bel po’ di soluzioni d’arrangiamento,
tendenzialmente noialtri critici ti tiriamo le pietre: hai stufato. Se nel cantare hai una
inquietante vicinanza con Samuel dei Subsonica (non solo il timbro, anche e soprattutto i
vezzi), in linea di massima noialtri critici alziamo gli occhi al cielo e ti guardiamo con
compatimento: hai stuccato. Se come nome per il tuo progetto hai scelto Babylonia e non sei
una band di cover reggae ma ti eserciti invece nell’elettropop anni 80, sostanzialmente
sempre noialtri critici ti manderemmo a scopare il mare prima ancora di aver sentito una
nota: hai steccato. Siamo brutta gente, noialtri critici, ma – ne converrete – abbiamo anche le
nostre ragioni. E quindi? Stiamo stroncando senza pietà “Motel La Solitude”? È l’inevitabile
conclusione di queste premesse? Nossignori. Queste considerazioni, che per altro
sottoscriveremmo non una ma dieci volte, sono tutte applicabili a questo disco, con la
sottolineatura non da poco che invece questo album viene fuori indenne dalle prostrazioni
verso Depeche, Samuel e l’onomastica discutibile perché le canzoni sono (quasi tutte)
veramente buone e la qualità di registrazione e mixaggio è assolutamente ai vertici. Non
fosse stato così, vi garantiamo, questo lavoro l’avremmo fatto a brandelli. Invece ci tocca
dire che, nei nostri ascolti di “Fuori Dal Mucchio”, “Motel La Solitude” è uno dei non tanti
lavori che ci ricapiterà di mettere nel nostro lettore, giusto per il piacere di farlo e non per
dovere recensorio.
Contatti: www.babyloniamusic.com
Damir Ivic
Pagina 31
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Numero Marzo '10
Brain
Brainstorm
Semai
Fuoco Negli Occhi è la famiglia di provenienza, ovvero una delle crew della nuova
generazione bolognese (una Bologna che, ricordiamolo, ha dato negli anni Sangue Misto,
Joe Cassano, Inoki, giusto per fare tre nomi – zona sostanziosa per quanto riguarda l’hip
hop nostrano). Come sempre succede nelle crew, prima i lavori tutti-insieme, poi via con le
sortite soliste, iter ormai immancabile. Che comunque Brain abbia messo in circolazione
“Brainstorm” non per semplice autocompiacimento ma perché sentiva davvero di avere cose
da dire e stile da mettere in circolazione, è evidente. Qui più che in altri dischi. Si tratta infatti
di un concept album, o per lo meno le varie tracce sono introdotto da pillole di bignami
psicanalitico. Diciamo la verità, di quest’ultima cosa sinceramente se ne poteva fare a meno,
nulla aggiunge e qualcosa toglie all’ascolto – c’è il sapore del pretenzioso. In generale
tuttavia Brain non è male a livello di scrittura di testi, con l’esplicita (e dichiarata) volontà di
rivolgersi ad un pubblico intelligente. I difetti sono due: da un lato la voglia di essere per
l’appunto intelligente nei testi e nei temi blocca in qualche modo il flow creativo (parliamo di
immagini, metafore, colpi di scena verbali... Il rap si nutre di queste cose); dall’altro a Brain
manca ancora un po’ di carisma e di esperienza nella modulazione della voce. Se
aggiungiamo che le produzioni sono complessivamente discrete ma non indimenticabili, il
risultato è un disco che non colpisce abbastanza il segno. Pur essendo, sia detto
chiaramente, superiore rispetto alla media delle uscite italiane del genere.
Contatti: www.myspace.com/brainfno
Damir Ivic
Pagina 32
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Numero Marzo '10
A Dog To A Rabbit
A Dog To A Rabbit
Lady Lovely/Audioglobe
Niente a che vedere con il dialogo a due suggerito dalla surreale ragione sociale che il
gruppo si è scelto: i toscani A Dog To A Rabbit sono un trio, un classico power trio chitarra
basso e batteria, e fanno quello che la formula prevede. Suonano una forma di rock'n'roll
piuttosto diretta, senza troppi fronzoli, con riferimenti tuttavia abbastanza ampi, che
potrebbero andare dagli Strokes ai Queens Of The Stone Age, passando per quei Nirvana
così chiaramente evocati nelle linee vocali, una traccia stilistica che si muove parallelamente
ad una certa sensibilità grunge, intesa in senso lato, e un deciso impeto garage che li rende
occasionalmente parenti prossimi dei Mojomatics. Non di solo muscoli si tratta però, visto
che c'è spazio per momenti più riflessivi e d'atmosfera come la title track, e tuttavia è
l'aspetto aggressivo del progetto quello che ci pare più convincente, soprattutto nei momenti
in cui le chitarre non lasciano tregua. Si ascoltino in tal senso soprattutto l'introduttiva “Rock
Abuse”, con quel tiro post punk incrostato di residui garage, una “Flavor” stradaiola e
imbevuta di aromi stoner, e una “Bedlam Minds” che è un puro fuoco incrociato di riff con un
porsi quasi stoogesiano. Un buon lavoro, insomma, con qualche ombra, come abbiamo
detto, in modalità lenta, e con più di una scintilla quando il motore gira al massimo.
Contatti: www.myspace.com/adogtoarabbit
Alessandro Besselva Averame
Pagina 33
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Numero Marzo '10
Carry-All
Emotivhate
Sin/Self
Anche se questo è il loro disco di esordio sulla lunga distanza, i friulani Carry-All si muovono
nei circuiti underground dal 2002. Otto anni spesi a suonare dal vivo in ogni occasione
possibile, con numerosi concerti in Italia, Francia, Germania, Spagna e Slovenia, dove
hanno sfoggiato tutta la loro carica istrionica e contagiosa e una notevole presenza scenica.
Tour contrappuntati di tanto in tanto con appuntamenti con singoli, EP, split, contribuite ad
antologie varie, sempre apprezzati dal pubblico e dalla critica. Otto anni che nel complesso
hanno portato tante soddisfazioni e persino alcuni loro brani nelle colonne sonore di note
serie TV americane come “The OC”, “Smallville” e altre. I Carryall si muovono con abilità
nella più classica tradizione punk, un suono che ha sicuramente contrassegnato i loro ascolti
adolescenziali e si fanno notare con un punk-ska scandito – come da tradizione – da ritmi
reggae, ma nonostante uno stile assodato è impossibile non apprezzarli, perché le canzoni ti
prendono per il bavero e ti portano esattamente al centro del vortice che ha alimentato la
musica che amano e suonano. Chitarre sparate, ritmiche dirette e sincopate, refrain da non
smettere di cantare ed un accompagnamento di fiati che rimbalza e saltella tra una nota e
l’altra. Dodici brani che scorrono belli belli senza tanti ripensamenti: te li godi, ti mettono di
buon umore e pensi che forse la vita non è poi così malaccio. Non c’è un solo passaggio
debole in questo “Emotivhate”, ma non si può esimersi dal citare la rivisitazione di “What A
Feeling” di Irene Cara, dalla colonna sonora del film “Flashdance”, qui resa una dinamica e
pop punk song. Ah, che divertimento questi Carry-All.
Contatti: www.myspace.com/carryall
Gianni Della Cioppa
Pagina 34
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Numero Marzo '10
Cartavetro
We Need Time EP
Anomolo/BrigaDisco/Marsiglia/Taxi Driver/Tesla
A cinque anni da “Bruxia”, pubblicato dalla net-label marchigiana Anomolo, i genovesi
Cartavetro ritornano in pista con una formazione abbondantemente rinnovata e un EP di
quattro tracce all’insegna di un rock spigoloso e dai nervi a fior di pelle, che si rifà
all’alternative statunitense di fine anni 80 ma non dimentica la lezione del noise, grazie al
lavoro tanto di una sezione ritmica guizzante e sfuggente quanto di una chitarra appuntita e
liquida insieme. Vi è parecchia rabbia all’interno di queste composizioni; non si tratta però di
una furia cieca, ma controllata, meditata, che non rinuncia alla propria fisicità ma la incanala
lungo percorsi studiati e calcolati al millimetro. A benedire nel migliore dei modi l’operazione,
un mostro sacro come Mike Watt (Minutemen, fIREHOSE, Stooges), ospite alla voce nella
title track. Musica di testa e allo stesso tempo di stomaco; ma, soprattutto, di ciò che
grossomodo vi è in mezzo: il cuore.
Contatti: www.myspace.com/cartavetro
Aurelio Pasini
Pagina 35
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Numero Marzo '10
Did
Hello Hello
Foolica
Sul numero dello scorso novembre di “Fuori dal Mucchio”, Alessandro Besselva Averame
spendeva belle parole per “Kumar Solarium”, l’esordio dei Did, e in particolare parlava della
traccia di apertura “Hello Hello” come di “un impressionante concerto di tribalismi, bassi
distorti e chitarre alla Gang Of Four”. Lo citiamo perché ora quel brano è uscito anche su
singolo, un sette pollici in vinile trasparente, e la sensazione è ancora una volta quella di un
pezzo di gran tiro e buona sostanza, tra le migliori produzioni nostrane in ambito punk-funk.
Sul lato B, invece, trova posto un altro brano tratto dal summenzionato album, “Another
Pusher”, remixato per l’occasione dai britannici These New Puritans, vale a dire una delle
band più interessanti partorite dalla scena albionica negli ultimi tempi. Nelle loro mani la
canzone perde parte del proprio impatto ritmico, ma guadagna una viscosità oscura e non
poco inquietante. Una collaborazione importante, per il prestigio e per il risultato ottenuto,
che ci auguriamo possa essere per l’ensemble torinese soltanto il primo passo verso una
visibilità internazionale di tutto rispetto.
Contatti: www.myspace.com/didmusik
Aurelio Pasini
Pagina 36
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Numero Marzo '10
Diverting Duo
Lover/Lover
Zahr
Una sorpresa. Una bella sorpresa. Un duo cagliaritano, lei e lui, forse innamorati, non
sappiamo, ma certamente invaghiti di folk, indiepop e soavità con la testa tra le nuvole. Lei
canta con voce eterea e vellutata e suona una chitarra dolcissima; lui è all'altra chitarra,
qualche beat o piccole batterie d'accompagnamento, glockenspiel e organo appena
accennati, seconde voci soffuse e melodie delicate. I Diverting Duo regalano atmosfere
trasognate come i primi Comaneci o quasi una Joni Mitchell rallenttissima, un po' di
psichedelia acustica, Cat Power adolescente e sobria, fino a Le Man Avec Les Lunettes, che
peraltro mettono lo zampino nel disco e prestano lo studio di registrazione. Non che i due
siano nuovi nel mestiere: sono all'esordio discografico, ma hanno girato l'Europa in lungo e
in largo tra il 2008 e il 2009; e vien da chiedersi cosa stessero aspettando a regalarci un
disco di una delicatezza così. Ci si può perdere a dondolar la testa con gli occhi chiusi nelle
litanie di “Bunnies” e “Good For A Day” o nei feedback di “That Gold”. Forse l'unica pecca è
la monotonia degli arrangiamenti, ma sono soltanto trenta minuti ripartiti in nove tracce
sognanti e sorridenti, come un volo a ciel sereno dal nord dell'Europa fino alla costa ovest
degli States. Con tutti i gruppi stranieri che fanno musica del genere e invadono
costantemente locali e localini della penisola, ai Diverting Duo auguriamo il percorso inverso,
speriamo possano girare il mondo e allietarlo e trasognarlo. Intanto ascoltiamo
“Lover/Lover”, che è una sorpresa. Una bella sorpresa.
Contatti: www.myspace.com/divertingduo
Marco Manicardi
Pagina 37
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Numero Marzo '10
Enempidi
Quanto basta
Bagana/Edel
Un balzo in avanti oppure uno sguardo ad un passato recente? Non riesco ancora a
inquadrare l'esordio degli Enempidi, che dall'hinterland milanese se ne escono con “Quanto
basta”: un debutto che in poco più di quaranta minuti ci offre dell'ottimo crossover a metà, e
qui si ritorna al dubbio iniziale, tra passato e futuro. È indubbio infatti che certi suoni, e
soprattutto il cantato, si rifacciano alla stagione d'oro di questo movimento, ma non si tratta
solo di revival; troviamo infatti soluzioni sonore che strizzano l'occhio al presente,
specialmente al punk più moderno. Una miscela comunque molto energica, capace di
essere credibile sia coi brani in inglese sia in quelli in italiano, anche se a spiccare nella mia
personale classifica sono tutti pezzi in madrelingua, per esempio “Sottocontrollo” o, meglio
ancora, “Bolla”, con le sue atmosfere cupe tra l'acustico e l'urlato. Niente male davvero, e
anche la scelta di non adagiarsi sulle mode del momento per suonare quello che suppongo
sia il genere in cui il gruppo crede è encomiabile. Dovendo dare loro qualche consiglio per il
futuro propongo di concentrarsi sulle liriche in italiano e di esplorare meglio il loro lato
crepuscolare, perché quello che c'è in “Quanto basta” mi lascia la curiosità per il futuro.
Speriamo che sia così anche per molte altre persone.
Contatti: www.enempidi.net
Giorgio Sala
Pagina 38
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Numero Marzo '10
Girolamo De Simone
Ai piedi del monte
KonSequenz/Hanagoori Music
Si conclude alla Verna, in modo arcano, il viaggio per piano solo di Girolamo De Simone
raccontato in “Ai piedi del monte”. La sommità del titolo è Somma Vesuviana, a ridosso del
Vesuvio, dove il compositore napoletano vive. La ricerca del musicista – che proviene
dall’avanguardia – si snoda tra “Fabulae contaminatae”, esecuzioni devozionali, riletture di
Vincenzo Romaniello, tradizionali come “Canto dell’Arco”. Quest’ultimo vede Di Girolamo
alla spinetta, in una rivisitazione che trasfigura l’originale, come se passandogli attraverso lo
trafiggesse, lasciandolo miracolosamente illeso. “Il tramonto e Donizetti” è una parafrasi
donizettiana, perché il compositore bergamasco proprio qui, sul Monte Somma, iniziò la
stesura di “Lucia di Lammermoor”, e ha lasciato tra Pollena e Sant’Anastasia tracce di
melodie che ancora si rinvengono all’imbrunire (per chi le sa ascoltare). Ancora, a catturare
lo spirito dei luoghi, aleggiante è la presenza di Vincenzo Romaniello – che fu tra l’altro il
maestro di Carosone – del quale De Simone rielabora l”Ave Maria”, i lirici frammenti
“Tristezza dell’anima” e “Ultima prece”. I brani del disco sono improntati a una sottrazione
virtuosa, frutto di lavorìo, che non lascia trasparire la fatica di asciugare e levigare. Musica di
frontiera, si (auto)definisce la musica di De Simone. E infatti frontiera è questo lembo, non
solo geografico, di resistenza, consapevolezza e onestà intellettuale. Se John Cage era
pervenuto a un’estetica del silenzio, si può dire, parafrasando, che De Simone sia approdato
a un linguaggio di poche, essenziali parole. Quello che manca sarebbe stato superfluo.
L’epilogo “La Verna”, un’improvvisazione di due minuti per organo, è eseguita nel silenzio
del Convento della Verna, con le “campane liete” che chiudono, come meglio non si
potrebbe, un disco di splendida serenità.
Contatti: www.konsequenz.it
Gianluca Veltri
Pagina 39
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Numero Marzo '10
La Materia Strana
Raptus
autoprodotto
La Materia Strana è un progetto plasmato nel 2008 da Francesca Messina (testi, voce,
chitarre e scacciapensieri), poi affiancata nella sua avventura da Massimiliano Lo Sardo
(basso e tastiere) e Umberto Bartolini (batteria e percussioni). Dopo essersi fatto notare sul
palco di varie manifestazioni toscane (dal RockContest a ItaliaWave o al Marea Festival), lo
scorso dicembre il terzetto fiorentino ha inciso il suo EP di debutto negli studi Danza
Cosmica, sotto la produzione di Donato Masci (Rio Mezzanino e Tribuna Ludu, tra gli altri).
L’autoprodotto “Raptus” propone così quattro tracce a mezza strada tra pop-rock e
cantautorato, bilanciandosi fra carica comunicativa e attenzione alle liriche, affrontate
coraggiosamente in italiano. Ci si destreggia fra episodi più sostenuti (“Gli occhi”),
semi-ballate oblique (“Mondi” e “Il Conquistatore”, che ricordano a più riprese certe soluzioni
stilistiche di Cristina Donà) e interessanti progressioni strumentali (la title track). C’è ancora
parecchia strada da percorrere, per affinare ulteriormente una personalità comunque già
evidente. Se per adesso è difficile sbilanciarsi in giudizi netti, anche in virtù dell’esigua
durata del dischetto, gli incoraggiamenti sono senza dubbio d’obbligo. La formula, diretta
nelle timbriche e al tempo stesso curata nelle sfumature, funziona sufficientemente bene e
merita di essere sviluppata appieno.
Contatti: www.myspace.com/materiastrana
Elena Raugei
Pagina 40
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Numero Marzo '10
Lana
Good Morning Apnea
Riff
Leggendo le biografie di tante rock band nostrane, si scoprono storie di coraggio e di
eroismo che meriterebbero davvero di essere raccontate in un libro. Come si può
sopravvivere suonando rock per uno, dieci, venti anni, in un’Italia che del rock sembra da
sempre voler fare a meno? Siamo circondati da gruppi di valore che combattono in un
sottobosco fatto di precarietà, istituzioni assenti e pubblico esterofilo, eppure sempre più
spesso capita di ascoltare cose interessanti che meriterebbero ben altra visibilità. Prendete
questi lombardi Lana: affondano le loro radici nel lontano 1996, hanno un curriculum pieno di
belle cose (finalisti di Arezzo Wave 2002, concerti con Verdena, Ulan Bator e avanti per una
pagina zeppa di informazioni), ma sono ancora qui in quel limbo fatto di speranze e volontà.
Poi ascolti questo “Good Morning Apnea” – terza tappa discografica dopo l’EP “Presenza”
del 2004 e “C’è il sottile dentro e sotto i ponti” dell’anno successivo – che solo per la
stupenda confezione a libro orizzontale meriterebbe di trovare spazio nella vostra personale
discoteca, e ti assale la frustrazione, perché i Lana sono un quartetto (il batterista è un
ospite) che sprigiona un’emotività avvolgente, fatta di energia e sensualità. Gli otto brani di
questo CD, che poggia su un’ottima registrazione e su un sound moderno ma caldo,
suonano originali e allo stesso tempo classici, una sorta di Pearl Jam a spasso con i
Depeche Mode, e la voce di Matteo Perego, anche chitarrista/tastierista, ha temperamento
da vendere e quando si cimenta con l’italiano mi ha ricordato Alessandro Ranzani dei
Movida, una band il cui spettro appare di tanto in tanto tra i solchi di “Breath”’, “Buio”, la
splendida “Fine” e “Plexa”; ma credetemi, i Lana si muovono sinuosi e originali, in un
percorso che definiscono cupo e livido ma – aggiungo – saprà emozionarvi.
Contatti: www.myspace.com/lanaweb2008
Gianni Della Cioppa
Pagina 41
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Numero Marzo '10
Leonora
Electronic Ballads
LOL Productions/BTF
“Electronic Ballads” è l’esordio della romana Leonora. Dieci canzoni fuori sincrono. Ballate?
Forse “Right Turn On Red” musicalmente avrebbe potuto essere definita tale, ma la cantante
va troppo veloce rispetto alla musica e distrugge l’atmosfera. Cercavo da qualche parte una
manciata di spirito emozionale, non per me, ma per intravedere (anche di traverso)
l’artisticità, però trovo solo artifizio nell’album di questa ragazza; perché sì, lei canta, ma la
musica manca totalmente. Un disco diviso a metà. Cinque canzoni in inglese e cinque in
italiano, ed è incredibile come lei canti sempre allo stesso modo. E la cosa dispiace, perché
il talento, nonostante le pennellate di elettronica “usa e getta” che la accompagnano, c’è: la
voce si lascia ascoltare, ma davvero è possibile uscire da se stessi e creare qualcosa di così
emotivo come la musica in maniera così distaccati e freddi? O forse sono io che non ho
capito quello che vi si nasconde dietro.
Se le tue canzoni non le senti tue, non ti struggono dentro, non parlano di te, non sono
sincere, non sono fatte di rabbia, di estasi, di ironia, di turbamenti, di solitudini, che senso
ha? Eppure tale è l’impressione che ricavo dall’ascolto. Mi sembra impossibile che io stia
dicendo queste cose ma ho dentro la rabbia di tanti artisti che non vedo uscire fuori
nonostante abbiano parole preziose, musiche magnifiche, poeticità e pensieri profondi ma
anche evanescenti. Io ricomincerei da “La luna nel pozzo”, risuonandola solo con la linea
melodica e basta, e poi seguirei quel sentiero. Per quanto vale.
Contatti: www.myspace.com/leparoledentro
Francesca Ognibene
Pagina 42
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Numero Marzo '10
Malecorde
Da ora
Block Nota
Progetto nato nel 1999 da un'idea del cantante e chitarrista torinese Giovanni Battaglino,
inizialmente con l'obbiettivo di riproporre le canzoni di Fabrizio De André, le Malecorde ha
maturato nel corso di questi dieci anni una propria vena poetica, collaborando a iniziative
musical-letterarie e partecipando a compilation come “Duemila papaveri rossi”, pubblicata un
paio d'anni fa da Stella Nera. In repertorio, canzoni che raccontano di Resistenza, battaglie
civili e storie personali, nella più classica vena civile di area folk, che tuttavia in questo
secondo lavoro, il primo a poter contare su una vera e propria etichetta, Block Notes,
mostrano uno spessore notevole. Al di là della qualità non banale dei testi e della bella voce
del frontman, è la veste musicale che il gruppo ha scelto di fornire alle canzoni la vera arma
vincente. I brani di “Da ora” si dipanano spinti da sincero eclettismo, dando vita ad un folk
elegante, ricco di spunti e rimandi, con strumentazione acustica che ricorre spesso a violini
e fisarmoniche, dal ritmo in levare di “Quello che mi dici”, alla decisa impronta pop di “Sono
stata sempre così”, valorizzata dalla bella prova vocale di Valeria Benigni, alla notevole
“Mantello” attraversata da umori fiabeschi e tuttavia resa con asciutta modernità, mentre le
riletture di De André (“Preghiera in gennaio”, vagamente sudamericana nell'incedere, e pure
un poco jazz, e “L'illogica allegria” rispettivamente) risultano sobrie, personali e
particolarmente a fuoco. Una bella sorpresa, in un ambito affollato che di certo non si può
dire non abbia fatto proseliti.
Contatti: www.malecorde.it
Alessandro Besselva Averame
Pagina 43
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Numero Marzo '10
Mandara
Mandara
MK Records/Venus
Batterista e percussionista cosentino attivo da parecchi anni a fianco di artisti come Marco
Messina, Raiz, Parto Delle Nuvole Pesanti, così come motore di altrettante iniziative in
territori jazz e teatrali, Gennaro De Rosa è da qualche anno titolare del progetto Mandara: si
tratta, sostanzialmente, lo stesso De Rosa alle prese con musicisti dalle provenienze più
disparate. I parterre di artisti che prendono parte a questo nuovo lavoro, omonimo, è in effetti
impressionante. Si passa da Marco Messina (presente come Marcoposse) al sassofonista
Marco Zurzolo, da Peppe Voltarelli (voce nella jazzata “Apfelsaft”, una prova all'insegna
dell'ironia e della canzone leggera) alla multistrumentista americana Amy Denio (il cui
contributo marchia le altrimenti moderatamente contaminate “Wind Song” e “Hassan I
Sabbah”), fino al ripescaggio prog de “L'uomo” degli Osanna, ospite lo stesso leader dello
storico gruppo napoletano Lino Vairetti, una rilettura sobria e moderatamente world. Un
disco che rischia di sfaldarsi sotto il peso della discontinuità, ma che riesce in realtà a
portare avanti una traccia continua, una pulsazione che resta in equilibrio tra oriente,
occidente e tecnologia. Non sempre incisivo, ma spesso assai interessante, come accade
nella divertente rilettura etnica di “Pot Head Pixies” dei Gong.
Contatti: www.mkrecords.it
Alessandro Besselva Averame
Pagina 44
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Numero Marzo '10
New Cherry
Le forme di Pedro
My Place/Venus
Incisivo EP d’esordio per i New Cherry, fondati dalla songwriter/cantante/chitarrista Sara
Piolanti - già nei Caravane de Ville e collaboratrice di Modena City Ramblers, Marta sui Tubi
e Vince Vallicelli - e completati dal batterista Ulisse Tramalloni e dal bassista Antonio Vinci,
subentrato a Michele Benincaso al termine delle registrazioni. Il dischetto offre cinque
canzoni, oltre al bel video del singolo “Coca Magnum” e contenuti extra come fotografie e
liriche, in italiano e ricche di immagini suggestive. Canzoni che “sono le favole e gli incubi
della mia vita”, secondo l’alter ego narrante Pedro. A livello sonoro abbiamo a che fare con
un rock decisamente energico e di sicuro impatto, provvisto di melodie che non fanno fatica
a stamparsi in testa. Il vero punto di forza, però, è senz’altro la duttilità di una voce
magnetica, sia nei momenti più aggressivi sia negli incisi maggiormente evocativi, che poi
vanno spesso ad alternarsi all’interno degli stessi brani aggirando ogni prevedibilità. “Coca
Magnum” (proiettile altamente abrasivo, dal ritornello killer), “Matematica” (connubio di
morbidezze e spigoli, strumentazione elettrica e violoncello struggente) ed “Et Juliette”
(grintoso omaggio a Shakespeare, alla PJ Harvey) piacciono in maniera particolare, ma
“Sintesi erotica” (andamento sinuoso e accelerazioni improvvise) e “Cera” (ballata
avvolgente, in crescendo emotivo) se la cavano altrettanto bene. “Le forme di Pedro”
assicura ottime vibrazioni, in fiduciosa attesa di un lavoro sulla lunga distanza.
Contatti: www.myspace.com/thecherrypedrosimenez
Elena Raugei
Pagina 45
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Numero Marzo '10
Nolan
Secondi fini per fare le ore piccole

Totally Unnecessary Records/Audioglobe
Lo spirito dell’arte, in molti e chiacchierati casi, nasce da fatti, oggetti e parole prelevati dalla
quotidianità. Così, la capacità di rendere “diverso” quello che nella maggior parte dei casi
sarebbe considerato banale è una caratteristica apprezzabile di molti artisti di successo.
Gipo Gurrado, in arte Nolan, con “Secondi fini per fare le ore piccole” fa proprio questo: non
c’è la presunzione di esibire a tutti i costi un vocabolario ricco e raffinato, le parole sono le
stesse di tutti i giorni, quelle pronunciate davanti allo specchio, al bar, tra sé e sé, e non
ricercano spasmodicamente la corona d’alloro o il trionfo poetico. Apparentemente ingenue
e libere di trovare strade alternative di significato, le frasi si accostano a melodie semplici e
suoni acustici, che ruotano attorno all’abbinamento di voce, chitarra, batteria e
contrabbasso. Di tanto in tanto fanno una breve comparsata i tasti del pianoforte, le corde
metalliche della chitarra elettrica e gli elementi sintetici del programming, che mettono in
primo piano l’anima vagamente jazz a tratti poppeggiante del disco. Si tratta, in sintesi, di
una canzone d'autore minimalista con qualche elemento intriso di gusto teatrale, dove i
concetti percorrono frasi frammentarie e musiche altalenanti, che possono essere ora docili
melodie (“Inverno veritas”), ora improvvise accelerate (“La pazienza”). Mi viene in mente Ani
DiFranco, penso al cantautorato della scuola romana e ai Baustelle. Ma “Secondi fini per
fare le ore piccole” rappresenta in primo luogo un viaggio all’interno dei pensieri e del vissuto
di Nolan, autore di se stesso, che non segue stili e prova a “vivere in corsivo”. Molto
autoreferenziale, certo. Ma sicuramente piacevole e suggestivo.
Contatti:
Federica Cardia
Pagina 46
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Numero Marzo '10
Ossi Duri
Scadenza perfetta
LaZaRiMus
Ossi Duri, devotamente, fottutamente Zappiani, sin dagli esordi. Stavolta sgombrano il
campo dalle molte cover-partecipazioni riferite al baffuto zio Frank e da consolidate canzoni
e parole imparentate con l’Elio nazionale, sbizzarrendosi in un bizzarro concept (perdonate
il voluto, rafforzativo gioco di parole) per lo più strumentale. Ed è la scelta più importante,
ottimamente funzionale alle notevolissime qualità tecnico-espressive della band torinese.
“Dieci brani inediti di jazz-rock che raccontano la simpatica storia del cantautore errante
Silvano Garrè, di un malvagio produttore di musica elettronica e di un singolare locale, il Bar
Totevigo”: questo cita la didascalia nel loro sito, ma quel che emerge preponderante è
l’eclettismo sonoro, mirabolante equilibrismo sull’ottovolante di cotanto dinamico
progressive, tra digressioni jazz e sferzate rock-fusion, ad alto tasso tecnicistico. Il filo
conduttore di una metaforica ironia riunisce i variegati e fantasiosi tasselli di “Scadenza
perfetta”, laddove i nostri eroi si lanciano, spinti da una valanga di energia e da peculiare
abilità, nella loro personale crociata contro Caval Donato, sindaco di Luogo Comune, e la
sua fissazione per la musica elettronica prodotta dal computer. Riusciranno a vincere il
confronto a favore del suono degli strumenti tradizionali? I mezzi sono ragguardevoli e
convincenti per sostenere l’epitaffio conclusivo: “la musica non ha scadenza”. Come dare
loro torto, al di là delle trame mercantili?
Contatti: www.ossiduri.com
Loris Furlan
Pagina 47
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Numero Marzo '10
Paolo Andreoni & Bussuku Bang!
La caduta delle città del nord
autoprodotto
La canzone italiana a trecentosessanta gradi, in un sol colpo, e in quaranta minuti scarsi
soprattutto, forse non è mai stata esplorata. Fino a oggi. Paolo Andreoni e i Bussuku Bang!
prendono tutta la tradizione italica, dagli anni '20 ai giorni nostri, e la mischiano, la
rielaborano, la masticano e la sputano in un miscuglio di valzer, jazz, cabaret, assolo
elettrici, violini, ukulele e mandolini, psichedelia e rock su testi intricatissimi e dal sarcasmo
politico acceso o dalla poetica intima. I dieci pezzi de “La caduta delle città del nord” - titolo
preso dalla guerra in Iraq e riadattato al declino dell'occidente contemporaneo – sono pietre
preziose di melodia e insieme macigni granitici di declamazione ora lirica ora politica. C'è un
uso sapiente della lingua, eccezion fatta per due sole canzoni: “Evelin”, in inglese
claudicante forse evitabile e la conclusiva “Sonhadores (o meu amigo trasmontano)” in
portoghese. La band è in giro dal 2008, è un'unione inscindibile tra Paolo Andreoni e il resto
dei Bussuku Bang! (Bussuku significa "gli amanti delle tenebre" in un dialetto della
Mauritania, patria d'elezione del batterista portoghese Jorge Fonseca). “La Caduta delle città
del nord” è un disco strano di primo acchito, ma che suona riconoscibile e conosciuto,
perché in esso è compressa tutta la storia musicale italiana, dagli anni 20 in poi, influenze
anglosassoni comprese. Un disco preciso, meticoloso, serio e giocoso al contempo. Bello.
Contatti: www.myspace.com/paoloandreoni
Marco Manicardi
Pagina 48
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Numero Marzo '10
Park Avenue
Time To
BKM
L'attacco della prima canzone è quasi un plagio dei Joy Division, ma per fortuna le cose
cambiano... in peggio, visto che su quella scala di chitarra e basso discendenti i Park
Avenue costruiscono una energica quanto inconsistente ipotesi di canzone rock odierna, e
per odierna intendiamo perfettamente smerciabile ai ragazzini che pensano che i Tokio Hotel
siano, per l'appunto, un gruppo rock. Sarà la cadenza, dobbiamo ammetterlo, un poco
birignaosa del cantante, ma le cose, alle nostre orecchie, non migliorano granché con i brani
successivi, che siano ballate strappalacrime che piacerebbero ai fan di Bon Jovi
(“Goldenmind”) o più aggressivi brani come “South Road”, che tuttavia ha il pregio di
indossare più agevolmente vere vesti rock, pur senza brillare per originalità o profondità di
scrittura. Il fatto è che, da un certo punto di vista, hanno probabilmente ragione loro, e
questo disco potrebbe davvero funzionare alla grande, nel caso arrivasse alla orecchie
giuste. Che, per inciso, non sono le nostre. Dal punto di vista di chi scrive, infatti, “Time To” è
uno di quei dischi che non aggiunge nulla al panorama complessivo della musica attuale, se
non l'entusiasmo della gioventù e un conformismo privo di slancio.
Contatti: www.myspace.com/gcpamusic
Alessandro Besselva Averame
Pagina 49
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Numero Marzo '10
Postit
Mumble
autoprodotto
I Tortoise non potrebbero mai fare la backing band di Michele Zarrillo. Frase di per sé ovvia,
no?, ma forse a sentire “Mumble” ti viene il sospetto che non sia poi tale. Si tratta infatti di un
album molto interessante, di post rock morbido (venature armoniche jazz, tipo), e in più di
un’occasione – giusto per fare un esempio, la traccia “Happy Hour” – seduce davvero.
Peccato che a sporcare la seduzione arrivino spesso e volentieri passaggi in cui un po’ il
mixaggio un po’ gli strumenti stessi (la voce della chitarra, il pianoforte finto-acustico...)
puzzano lontano dieci miglia di pop dozzinale italiota. Imparassero ad essere più taglienti i
Postit avrebbero delle carte da giocarsi, eccome. Non diciamo che devono cominciare ad
affondare in svisate noise alla Sonic Youth vecchia maniera, ma prendersi più rischi questo
sì. Del resto se fai musica strumentale ti sei già auto-destinato a non entrare mai in
classifica, a non frequentare mai il mainstream; tanto vale allora percorrere questa strada
fino in fondo. Se così sarà, “Mumble” diventerà un incoraggiante esordio primo passo di un
cammino interessante, e non un album di un gruppo che come tanti passerà lasciando,
educatamente, poche flebili tracce di sé in grado di persistere nel tempo.
Contatti: www.myspace.com/bandpostit
Damir Ivic
Pagina 50
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Numero Marzo '10
Saesciant
Andiamo a Zanzibar
Saesciant Records
La band romana, attiva dall’inizio degli anni Zero, pubblica il suo primo album di lunga
durata. Quartetto auto-battezzatosi “di musica ricreativa”, vincitori di “Rock Targato Italia” nel
2003, scanzonati e surreali, i Saesciant sono una realtà fresca del nostro panorama.
Sarcastici senza mai varcare la soglia del demenziale, i ragazzi sembrano essere nelle
corde di un Gaetano o di un Bennato, nomi sempre più ricorrenti come padri delle nuove
generazioni di band, rocker e cantautori. In “La cameretta”, il divertente brano ska-rock di
apertura nel quale viene consigliato di lasciarsi alle spalle abitudini e personaggi, si citano
Mastella, l’idealismo dei cantanti, Giovanna (“quella vacca sfracidata”), la mamma, Silvestri
(Daniele?), con un accumulo di concetti un po’ nello stile di “Nuntereggaepiù”. Continuando
in questo gioco di filiazione gaetaniana, la finale “Malavolessimo” potrebbe rimandare a “Il
cielo è sempre più blu”, con quell’andamento a cantilena, con la tecnica dell’iterazione e
dell’enumerazione (“ci vuole la croce, ci vuole l’antrace, ci vuole un commando di destra”). I
Saesciant però sono più rock, possiedono un’attitudine rock. Il 6/8 di “Terra” è indie, voce
tremolante e chitarre in jingle-jangle, la traccia più “seria” – à la Marlene Kuntz – insieme a
“Maria”, contrassegnata da licks chitarristici. I Police si affacciano in “Nicotina”. Un’influenza
ben visibile è quella del sound classico rock-blues, codificato da Rolling Stones e Led
Zeppelin, in “La globalizzazione”, “Mosconi” e “Com’è”, per esempio; nell’uso del riff,
soprattutto, o certi riverberi stile “Aftermath”. Il nome del gruppo dovrebbe essere un segreto:
diciamo che è un’onomatopea, quello che vorresti dire quando non ti escono le parole,
quello che stai pensando ora o quel che ti pare.
Contatti: www.myspace.com/saesciant
Gianluca Veltri
Pagina 51
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Numero Marzo '10
Satàn
Satàn
Shit Music For Shit People
Sette pollici di buon vecchio vinile, trecento copie numerate e bella confezione stampata su
carta da pacchi per questa nuova uscita targata Shit Music For Shit People. Protagonisti ne
sono i Satàn, duo italofrancese che nell’arco di neanche dieci minuti racchiude quattro
canzoni a metà strada tra (post)punk e pop a bassissima fedeltà. Strepiti, chitarre urticanti e
rumorosissime, urla acutissime ma anche melodie cantilenanti: questi gli ingredienti di una
proposta che più che alla forma sembra puntare direttamente alla sostanza, scandita da
un’urgenza espressiva forse un po’ ingenua ma senza dubbio alcuno coinvolgente. Un
prodotto underground, come collocazione di mercato (se ancora si può parlare di tale) ma
ancora di più nello spirito e nella lontananza dai compromessi. Nel suo genere, un gran bel
lavoro, che ci piace pensare possa diventare col passare del tempo un piccolo oggetto di
culto.
Contatti: www.myspace.com/shitmusicforshitpeople
Aurelio Pasini
Pagina 52
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Numero Marzo '10
Sinclear
Nothing Ever Happens
autoprodotto
In dieci anni di attività i Sinclear si sono distinti per una costante attività discografica,
sempre nei circuiti indipendenti, contribuendo anche ad alcune raccolte, il tutto
accompagnato da un intenso dinamismo dal vivo, sede ideale per il loro (punk) rock a tutto
tondo, fatto di riff diretti, ritmi semplici e coinvolgenti e refrain a pieni polmoni. Il primo salto
di qualità la band, un classico quintetto con due chitarre, lo compie nel 2008 quando realizza
il videoclip del brano ‘1984’, con l’importante contributo dello scrittore Enrico Brizzi e Occhi
Aperti. La maturità si completa con questo nuovo mini album e una nuova struttura
manageriale, che allestisce un tour di sostegno a questo “Nothing Ever Happens”, che pur
nello spazio ridotto dei suoi venticinque minuti è in grado di portare solo buone notizie sul
fronte compositivo, con colate di energie prese a cazzotti dalla voce sicura di DeeElle che si
incunea tra le due chitarre di Junino e Ciko, il tutto solidamente trasportato da una sezione
ritmica compatta. Degli otto brani proposti i più convincenti sono “6:75” e “Candice”, anche
se, dopo aver ascoltato “L’ego” e “Soffocare” dispiace che la scelta dell’italiano sia stata
ridotta solo a due brani, perché c’è tanta sostanza nel connubio musica/testi, soprattutto la
prima con quel suo incedere potente e sincopato, quasi una sorta di Caparezza privo di
orpelli radiofonici. Non inventano nulla i Sinclear, ma nel loro territorio si sanno muovere agili
e sicuri.
Contatti: www.myspace.com/sinclearcore
Gianni Della Cioppa
Pagina 53
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Numero Marzo '10
Sur
Il limite
Sidecar
A quattro anni dall’omonimo esordio, tornano con un nuovo lavoro i Sur di Eloisa Atti.
Intorno alla cantante e autrice bolognese, un quartetto di musicisti bravi ed essenziali: il
chitarrista Marco Bovi, al quale viene dedicato un omaggio nel pezzo “Bovi in moscone”; il
bassista (e altro) Francesco Giampaoli, che è coautore, insieme alla Atti, di una metà dei
pezzi originali in scaletta; il trombettista Maurizio Piancastelli, e il batterista Roberto Rossi. È
ancora eleganza trasognata, levigatezze; “arcobaleni sotto le scale e meraviglie
sudamericane”, per citare De Gregori, a interpretare il quale i Sur si sono nel frattempo
cimentati insieme a Patrizia Laquidara, nel cover album “Con quali occhi” (il pezzo era “La
cattiva strada”, per inciso). La voce di Eloisa è suadente e diretta, gli arrangiamenti
intrecciati e intessuti in una trama lieve: “Colibrì” fa pensare a un certo De André – tra quello
primo chansonnier e “La buona novella” – mentre “Cavallino di vetro” sorprende con quella
sovrapposizione di voci su uno strato strumentale un po’ stralunato, che potrebbe far
pensare a Joni Mitchell. “Lontano”, titolo tenchiano, per cantare un amore di convinzione e
forza, si veste di sommesso, piuma e spuma. A dir poco indovinate le due scelte esotiche a
firma altrui: “La sandunga”, nota – si fa per dire – per la versione di Lila Downs, è uno
struggente brano messicano con accompagnamento di chitarra e banjolele (banjo + ukulele);
“Làgrima” è invece un classico fado di Amália Rodrigues, eseguito con coraggiosa
espressività soltanto per voce e calimba.
Contatti: www.myspace.com/eloisaatti
Gianluca Veltri
Pagina 54
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Numero Marzo '10
The Flying Sebadas
Vol. 1
Zahr
Quando c'erano i Pavement, non c'era nessuno che suonava come i Pavement. Qualcuno
ha cominciato a suonare come i Pavement a metà del nuovo millennio, c'è voluto un lustro
almeno perché le nuove generazioni metabolizzassero l'indie sghembo del gruppo di
Malkmus e iniziassero ora a emularlo, ora a ispirarvicisi. L'incipit di “Vol. 1” dei Flying
Sebadas è esattamente a metà strada tra l'emulazione e l'ispirazione. E l'attitudine permane
per i trenta minuti delle sette tracce del disco, a volte sbilanciandosi da una parte, altre volte
pendendo per la strada della citazione. Se gli Yuppie Flu erano i Pavement italiani più curati
e neomelodici, The Flying Sebadas sono i Pavement storti di “Wowee Zowee”, meno seri e
più giocherelloni, con uno spruzzo beatlesiano di vernice come in “Cha Cha Cha”, seconda
traccia dell'album. E niente, l'andazzo è più o meno lo stesso per tutto “Vol. 1”, senza
perdere mai di tono, ma senza nemmeno impressionare. Una piccola deviazione a metà del
disco, con il pezzo lento “Your Wet Clothes”, quasi una ballata degli Oasis senza la
distorsione e la strafottenza dei fratelloni inglesi, ma con un piccolo tributo centrale a “A Day
In The Life” dei Beatles. Poi si ritorna a pavimentare il suono, fino alla fine. Quando c'erano i
Pavement, non c'era nessuno che suonava come loro. Ma ultimamente i Pavement si sono
riformati, e a tutti i gruppi che emulano o si ispirano alla band di Malkmus toccherà fare i
conti con la realtà. E quindi rinnovarsi oppure sparire.
Contatti: www.myspace.com/theflyingsebadas
Marco Manicardi
Pagina 55
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Numero Marzo '10
The Huge
The Colossus Killed The Giant
Perfect Groove Vision
Ora che l'onda lunga del revival Eighties sta ormai perdendo di senso, visto l'incombere del
revival, che iddio ce ne scampi, degli anni Novanta, recuperare certi stilemi e certe sonorità
sembra quasi una commovente mossa suicida. Sarebbe però un errore prospettico vederla
così, perlomeno nel caso di Gianluca Plomitallo, alias The Huge. Come già avveniva parzialmente, spaziando un po' di meno tra i registri – in occasione di un esordio
ingiustamente passato in sordina, “Landescape”, uscito quattro anni fa su Amico
Immaginario, in questo più che corposo seguito (forse un po' troppo lungo, nonostante
l'autore del disco abbia voluto comprensibilmente riversare in questa uscita quattro anni di
intenso lavoro, ma è l'unica possibile pecca), il nostro uomo utilizza gli stilemi del decennio di
plastica come punto di partenza per escogitare quelli che sono, a conti fatti, puri e semplici
brani pop di alto livello. Con qualche interessante ucronia stilistica, come gli accenti
spudoratamente punk-funk nel corpo di una “Boy” che sa di Prince. In generale restano le
melodie memorabili e i momenti di romanticismo (“Father” si inoltra addirittura dalle parti dei
Blue Nile, senza far gridare allo scandalo) a dettare legge, ma spesso si incrementano i
BPM, e il dancefloor diventa in più di una occasione terreno di gioco, mentre quell'aria da
Club Tropicana che pare soffiare qua e là tra gli spifferi sintetici è un divertente diversivo,
non il fulcro del discorso. Che resta, anche questa volta, la realizzazione di un pop di
eccellente fattura.
Contatti: thehuge.bandcamp.com/album/the-colossus-killed-the-giant
Alessandro Besselva Averame
Pagina 56
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Numero Marzo '10
The Orange Beach
Fuzz You!
Second Shimmy
Fondati nel 2005, gli Orange Beach di Paolo Broccoli (chitarra), Agostino Pagliaro (voce e
basso) e Maurizio Conte (batteria e percussioni) arrivano a pubblicare un album di debutto
dopo aver accumulato un paio di demo e varie esperienze dal vivo. Registrato nel 2008,
“Fuzz You!” può contare sulla produzione, sul mixaggio e sulla masterizzazione di Kramer,
proprietario dell’etichetta Shimmy nonché leggendario musicista newyorkese alle prese nella
sua carriera con Butthole Surfers, Ween, Fugs e John Zorn oppure già in cabina di regia per
gente come Galaxie 500, Low, White Zombie, Will Oldham e Daniel Johnston, senza
dimenticare la canzone “Girl, You’ll Be A Woman Soon” degli Urge Overkill, riportata in auge
grazie a “Pulp Fiction”. Il trio campano opta per una spumeggiante, ruvida ed elettricissima
miscela di post punk, rock’n’roll, psichedelia e immaginario da colonne sonore, tanto che
l’idea di base è che ciascuna delle quattordici tracce in scaletta accompagni le scene di un
ideale lungometraggio. Ci si divide così tra schegge estremamente concise a episodi più
articolati, tra canzoni vere e proprie (l’impetuosa “Hey! Oh! Eh!” d’apertura, il pop schizoide
di “C Wha Wha”) e coinvolgenti strumentali (l’irresistibile “BdS (Bar del sole)”, una “I Talk To
The Wine” vagamente alla Calibro 35, una “Country Billy 2” che a dispetto del titolo evoca un
garage passato sotto acido, le malinconie finemente cesellate di una “Fairies Wear White
Shoes” che sembra sorridere nel titolo ai Black Sabbath, le trame surf-jazzy di “Barbon”).
Divertimento di grande spessore.
Contatti: www.theorangebeach.net
Elena Raugei
Pagina 57
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Numero Marzo '10
The Please
E’Ltica – Sermon Your Nihilism
Humans Fakes/Il Verso del Cinghiale
Nell’ambito degli esordi interessanti, questo dei milanesi Please merita un posto particolare.
La loro proposta, prende una strada diversa rispetto alle tendenze nostrane (sì, OK,
qualunque cosa voglia dire) per avventurarsi in sentieri più di nicchia e personali. Le
influenze citate nella loro pagina MySpace funzionano a meraviglia: The National, i
Motorpsycho di "It’s a Love Cult", i Belle And Sebastian e qualunque cosa suoni “baroque &
baritonal”. Io ci aggiungerei, giusto per dare altri due riferimenti a buon mercato, i Willard
Grant Conspiracy e i Tindersticks. Chiaro che la band sia una grande ascoltatrice di musica
– si nota nella proposta: "E’Ltica" ha il pregio di essere omogeneo pur attraverso uno spettro
sonoro ampio (si va dal pop acustico a certi arrangiamenti “canadesi” senza apparire
didascalici) – e abbia preso ogni suggestione sonore per arricchirsi e costruire canzoni di
notevole respiro. Ottima anche la forma, oltre che la sostanza, il disco dura 40 minuti: né
troppo – solitamente chi vuole “sparare alto” genera dei mattoni indigesti da più di un’ora –
né troppo poco – non è Garage o rock’n’roll dove il meno è meglio – così da mantenere
l’attenzione di chi ascolta e permettergli di entrare nel loro mondo sonoro. Capita, quindi, che
a metà ascolto (il momento esatto in cui se il disco non vale, hai perso attenzione e vai col
pilota automatico) ti fai prendere dalla ricchezza e potenza di "Clementine", di gran lunga la
migliore canzone di un disco e una band da scoprire.
Contatti: www.myspace.com/thepleaseplease
Hamilton Santià
Pagina 58
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Numero Marzo '10
The Record's
De fauna et flora
Foolica
Forse un giorno si arriverà a parlare anche di fuga dei cervelli in campo musicale. Per ora la
fuga è soltanto spirituale, ma c'è da giurare che prima o poi sarà fisica. È forse il caso dei
Record's, che dopo l'ottimo esordio di “Money's On Fire” escono con un album perfettamente
inglese che meriterebbe di essere suonato là dove la genesi di un certo suono è avvenuta. I
Beatles e i Kinks vengono fuori praticamente in ognuna delle tredici tracce di “De fauna et
flora”. I Record's sono meno ruvidi dell'esordio ma più concentrati sull'arrangiamento e sulla
costruzione di un suono che riviste come l'“NME” incenserebbero dalla mattina alla sera. C'è
del moderno revival pop inglese da classifica in stile Artic Monkeys e affini (“I Love My
Family), tratti da Franz Ferdinand raddolciti (“Call Of The Ice” e “Colossus”), un singolo che
oltremanica potrebbe strappare le mutande a tutta una generazione di giovani ascoltatori
come “We All Need To Be Alone”, e tracce beatlesiane evidenti (“Rodolfo” e “Turtles Will
Mind Your Fate”). Pezzi scanzonati, ballate, ritmi in levare, arpeggi e singoli ballabili. Il tutto
in una quarantina di minuti pregni d'Inghilterra dalla pronuncia quasi impeccabile. Un gruppo
come i Record's in Italia lascia un po' il tempo che trova e forse ha poco senso. Buone
recensioni, forse concerti superlativi, ma non è questo il suolo sul quale un suono del genere
può esplodere o guadagnarsi un pubblico consistente. I Record's non sono fatti per suonare
così da queste parti. E non è una cattiveria, tutt'altro.
Contatti: www.myspace.com/therecordsrocks
Marco Manicardi
Pagina 59
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Numero Marzo '10
UnePassante
More Than One In Number
Anna The Granny
UnePassante è il progetto musicale di Giulia Sarno (voce e chitarra), supportata da Giulio
Masi alle altre chitarre e al banjo, Michele Staino al contrabbasso e Simone Sfameli alla
batteria e alle percussioni. A seguire l’EP “Enjoy The Road” del 2008, “More Than One In
Number” è così il primo lavoro sulla lunga distanza per la cantautrice palermitana e i suoi
sodali, che si sono occupati della produzione ancora una volta assieme a Gianmaria
Ciabattari. Un lavoro per certi versi ambizioso, che oltrepassa l’ora di durata – in realtà, la
conclusiva “Lampshade” occupa quasi metà del programma, inframezzata da uno spiritoso
siparietto - articolandosi in dodici composizioni perfettamente in grado di sposare
raffinatezza formale e buone melodie, cura artigianale e spirito contemporaneo. Del resto,
l’apparato strumentale è ampio se i collaboratori coinvolti si distribuiscono fra archi
(arrangiati da Gianluca Cangemi), fiati, kazoo africano, pianoforte, organo e Hammond.
Tracce come l’iniziale “Wreckage” e “A une passante”, che tra l’altro si rifà nel testo a
Charles Baudelaire, testimoniano padronanza nel miscelare pop, influenze jazzy e
arrangiamenti cameristici, sicuramente complessi e non alla portata di tutti. Si punta in media
alle atmosfere e ai dettagli in chiaroscuro piuttosto che alle tinte forti, sebbene la vivacità non
venga mai meno (si senta la più tesa, programmatica “Emotional Countdown (To The Next
Encounter)” o la stranita filastrocca “Bats Rats And Cats”). Lode infine alla splendida veste
grafica del digipack, che contiene persino delle graziose illustrazioni.
Contatti: www.unepassante.com
Elena Raugei
Pagina 60
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Numero Marzo '10
Unfolk
The Venetian Book Of The Dead
Diplodisc-Stella*Nera/Audioglobe
Nato sull’asse Italia-Inghilterra, “The Venetian Book Of The Dead” è il frutto degli sforzi
congiunti del produttore/musicista veneto Alessandro Monti e di Kevin Hewick, cantautore
britannico che in passato ha fatto parte del roster di etichette storiche come Factory, Cherry
Red e Les Disques Du Crepuscule. Affiancati da un discreto numero di collaboratori (tra cui
segnaliamo Romina Salvadori, già voce degli estAsia), i due hanno dato vita a un concept
album ispirato alle tante, troppe morti causate tra gli anni 70 e 80 nel Veneziano dalle
scellerate politiche (anti)ambientali delle industrie petrolchimiche. Un atto di accusa
importante dal punto di vista concettuale, certo, ma anche supportato da un notevole
spessore artistico, che nell’arco di dieci canzoni vere e proprie e sei strumentali si snoda su
intrecci elettroacustici oscuri e affascinanti, ballate a metà strada tra il folk e il pop-rock meno
allineato, improvvisazioni di matrice ambiental-sperimentale e lievi manipolazioni
elettroniche. Con raffinatezza plettri e archi si incontrano con batteria, percussioni ed effetti
sintetici, mentre la voce disegna melodie malinconiche ma non troppo opprimenti, finendo
per ricordare in certi frangenti David Sylvian. Un lavoro ambizioso, sicuramente, e forse un
tantino troppo lungo, ma toccante e nel complesso pienamente riuscito; importante, sotto
tutti i punti di vista.
Contatti: www.myspace.com/unfolk
Aurelio Pasini
Pagina 61
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Numero Marzo '10
Aidoru
Beba do Samba/Angelo Mai, Roma, 17/18 febbraio 2008
Sono passati per Roma il 17 e 18 febbraio gli Aidoru (si ricordi la rigorosa accentatura della
prima vocale nella pronuncia del nome), proponendo due opere così lontane, ma allo stesso
tempo così simili nella capacità di delineare, nell’ interpretazione emozionale e profonda
compiuta dal gruppo, veri e propri paesaggi dell’anima. Arrivando dalla loro tournée
promozionale del nuovo album “Songs – Landscapes” (Trovarobato/Audioglobe), partiti da
Cesena, e in cammino per lo stivale, sono planati nei luoghi del Beba do Samba e
dell’Angelo Mai. Hanno rotto il ghiaccio con la capitale proponendo il loro viaggio nel mondo
di Stockhausen, che ha sorpreso il pubblico attento e selezionato che è intervenuto al Beba,
situato nel quartiere di S. Lorenzo. Per interpretare il “Tierkreis” (Zodiaco) presenti sul palco
Dario Giovannini (voce, chitarra), Diego Sapignoli (batteria, percussioni, campionamenti,
glockenspiel, melodica, chitarra), Michele Bertoni (chitarra, basso, batteria). Dovendo fare a
meno di una costola importante del gruppo per le due date: Mirko Abbondanza, e il suo
basso. Non volendo pensare che potesse essere un handicap, ma uno spunto per dar sfogo
alla loro creatività, gli Aidoru in trio hanno inserito nella loro strumentazione il vibrafono, in
modo da avere una maggiore varietà timbrica, che si è subito fatta notare sul palco fin dalle
prime note di “Aquarius”: viene infatti spiegato che, come da indicazione del maestro
Stockhausen, la presentazione di “Tierkreis” dovrà sempre rispettare il calendario zodiacale.
Dunque, febbraio = acquario, e via a procedere, fino a concludere il cerchio che riporterà
questo viaggio astrale di nuovo all’inizio. Assorti e ispirati, i tre rispettano, zodiaco dopo
zodiaco, quanto affermato: “Abbiamo scelto di lavorare sulle melodie di ‘Tierkreis’ perché
hanno un sapore celeste e sospeso, sono libere ed estasianti...”. Il piccolo palco è tagliato
dalle luci che vanno a illuminare gesti attenti, che, proponendone una versione rock-punk
lunare, con momenti di quiete e accelerazioni improvvise, assolvono a quanto promesso. In
attesa che esca l’album a ottobre per la Trovarobato/Audioglobe, arriva il bis della
travolgente “Libra” (Bilancia) e un pezzo dal nuovo album, “Interludio”, che ci spinge a forza
in altre dimensioni. E verso il live del giorno dopo nei pressi delle Terme di Caracalla, altri
spazi temporali dove ha trovato finalmente posto il nuovo Angelo Mai, sfrattato nottetempo
dal Rione Monti. Un grande capannone multiuso artistico, accanto a una casetta per il bere e
mangiare, accoglie il nostro trio, sul palco pronto a lasciarsi andare di fronte a un pubblico di
nuovo conquistato dalle esplosioni emotive del gruppo che con generosità non si tira indietro
nel regalarci questo viaggio nel loro mondo personale. Occhi chiusi, presi dall’ispirazione,
con amorevole attenzione consegnano un’ora di concerto che a tratti viene rotto
dall’applauso sentito del pubblico, che in un dialogo silenzioso col gruppo, sente quando
anche quel battito di mani fa parte davvero di quanto sta avvenendo. Non risparmiandosi,
dopo l’ingresso iniziale d’acuto di Giovannini, alla voce e chitarra, Sapignoli avvolgendo la
sua batteria, Bertoni alla chitarra e al live electronics, tutti dedicandosi a effetti distorcenti
essenziali, procedono tra i brani di repertorio, concentrandosi in particolare sui 17 di “Songs
- Landscapes”. Il pubblico, entusiasta, alla fine ringrazia con decisione.
Giacomo d’Alelio
Pagina 62
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Numero Marzo '10
Black Candy
Kalinka Club, Carpi (MO), 12 febbraio 2010
Quando è stata diramata la notizia, mesi fa, di una reunion delle Black Candy per una notte
soltanto, più d'una schiena, in tutta l'Emilia lungo il suo asse centrale d'asfalto, ha sentito un
brivido d'eccitazione. E infatti il Kalinka è pieno di gente, gente che nei primi anni zero vedevi
bazzicare per gli stessi posti, festival, locali e centri sociali. Tutto è già pronto per l'evento
quando i Sumo riempiono l'aria di hardcore in salsa Washington DC. Non hanno mai
registrato un pezzo, ma sono acclamati dalla folla, e Amarezza è il primo a scatenarsi
davanti a loro cantando a squarciagola. Poi arrivano i Tunas e un garage da movimento del
bacino e teste che sobbalzano. Quando appoggiano gli strumenti la calca sotto al palco
diventa pressante. Mara, Alice e Amarezza imbracciano le armi e parte l'urlo della folla tra le
loro scuse del tipo “Non sappiamo suonare, lo sapete, non abbiamo mai imparato, ma tanto
tutte le reunion fanno cagare.” Così esordiscono e così suonano tutto il repertorio. Amarezza
si divide tra una chitarra sguaiata che perde una corda dopo l'altra e una batteria suonata
male coi nervi; Mara è subito alla batteria e poi al basso, fino a spaccarlo completamente,
coi cavi elettrici che escono dal foro del jack; Alice è impostata e suona più o meno accordi
maggiori e minori. E poi cantano. E il pubblico canta insieme a loro “Yr Medicine”, “Automatic
Lock” e “Fucked Up Situation”. Scendono lacrime a fiotti per “Revolution Winter” e “Straight
To Your Hands”. Cantano tutti e tre a rotazione, le Black Candy, mentre la sala si scalda
sempre più per il sudore e l'affetto. Chiudono con “Christine” e un'improvvisata hip hop così
tanto per fare. Poi cala il silenzio e, dopo venti minuti di applausi e di abbracci, i sorrisi non si
contano, le pacche sulle spalle nemmeno, tutti a dire quanto erano belli i primi anni zero
nella bassa modenese dei festival, i locali e i centri sociali, la Fooltribe e “Musica nelle Valli”.
E le Black Candy tornano a sciogliersi, e noi ad attendere un altro brivido d'eccitazione lungo
la schiena il giorno in cui decideranno di riunirsi ancora.
Marco Manicardi
Pagina 63
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Numero Marzo '10
Eureka
L’unione fa la forza, si dice. O, per lo meno, può aiutare a guadagnare un poco di visibilità,
mai come oggi determinante per una band underground. Ecco allora che la Kandinsky
Records e l’associazione BandSyndicate si sono unite per dar vita a “Eureka”, una collana di
quattro EP dedicati ad altrettante realtà della loro città, Brescia, in vendita solamente ai
concerti, su Internet e in qualche negozio selezionato. Andando in ordine alfabetico, ci sono
gli Àltica, con la loro miscela di metal e post-core, i ruvidi Gli Eroi, i nervosi e
rumorosi (e forse eccessivamente teatrali nella voce e nelle liriche) Fraulein Rottenmeier e
Jet Set Roger, il più noto del lotto, con il suo rock-beat venato di glam. Ogni CD della serie,
oltre a essere contenuto in un digipack dalla raffinata veste grafica, contiene cinque brani,
finendo così per rappresentare un bel biglietto da visita per esperienze diverse
qualitativamente e artisticamente e, allo stesso tempo, per una scena vitale e sfaccettata
come quella della cittadina lombarda. Davvero una bella iniziativa, che non ci dispiacerebbe
avesse un seguito.
Contatti: www.kandinskirecords.com
Aurelio Pasini
Pagina 64
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