Numero Luglio `05 - Il Mucchio Selvaggio

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Numero Luglio `05 - Il Mucchio Selvaggio
Numero Luglio '05
EDITORIALE
Con questo “numero”, la nostra appendice in Rete della rubrica che ogni mese
appare sulle pagine de Il Mucchio Selvaggio giunge al terzo mese di vita,
proponendo un’ulteriore, notevole quantità di articoli inediti. Con questo, il materiale
disponibile per la lettura (e, nel caso, la stampa) nel nostro archivio comincia a
essere parecchio: ben ventidue interviste e ottantadue recensioni, tutte relative ad
artisti italiani magari non molto visibili (specie fuori dal giro underground) ma a
nostro avviso meritevoli di attenzione. Ed è naturalmente nostra intenzione
proseguire su questa strada, conservando in tal modo dell’importante ruolo tra il
critico e l’informativo che “Fuori dal Mucchio” ha avuto tra l’aprile 1996 al dicembre
2004, quando la sua vita - nella doppia veste di inserto mensile da sedici pagine e
rubrica settimanale da due - si svolgeva solo sul Mucchio convenzionalmente
inteso, quello di carta.
Il prossimo appuntamento con il rock (in senso molto lato) italiano più o meno di
nicchia, quello suonato da artisti che noi amiamo definire come “Emergenti
Autoprodotti Esordienti Sotterranei Di culto” è fissato per i primi giorni di settembre.
Buone vacanze, se le farete, e comunque buona lettura.
Federico Guglielmi
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Fuori Dal Mucchio è a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini - online at http://www.ilmucchio.it
Numero Luglio '05
Squartet
Squartet
Jazzcore Inc.
Membri attivi della ribollente scena capitolina, gli Squartet nascono dall’incontro di
Fabiano Marcucci e Marco Di Gasbarro, bassista e batterista dei Demode, con il
chitarrista dei Neo, Manlio Maresca. Nomi che chi segue da vicino certe sonorità
dovrebbe conoscere abbastanza bene e che in un certo senso rappresentano una
garanzia per quanto concerne sia la qualità che l’orientamento di massima del
progetto. Che comunque, a differenza di altre proposte di area simile, ha la
caratteristica di non lasciarsi troppo andare alle dissonanze e al rumorismo,
rendendo l’approccio al cd relativamente agevole anche per i neofiti.
Nell’ambito di una perfetta democrazia sonora, tutti e tre gli strumenti godono della
stessa importanza: la batteria, che sostiene le composizioni con il suo incedere
nervoso e ben poco lineare; il basso, che alterna il mero accompagnamento a
riuscite incursioni solistiche; la sei-corde, infine, artefice della gran parte dei temi,
forte di una tecnica notevole ma lontana dal virtuosismo fine a sé stesso. Il tutto
senza dimenticare la voce dell’ospite Gianpaolo Felici, presente nella sola “Money
Prechahs”. Ciliegina sulla torta, poi, l’ironico rifarsi a un immaginario “poliziottesco”
tipicamente anni ’70, che sfocia in titoli quali “Rapina al Casilino” o “S. Policarpo
violenta”. Ne risulta un insieme avventuroso ma tutt’altro che ostico di jazz, punk,
funk, noise e tanto altro ancora. Per i frequentatori abituali di territori jazzcore come
per i nostalgici dei Primus (http://www.jazzcoreinc.org/).
Aurelio Pasini
Il Generale Inverno
Mohole
Jestrai/Venus
Un ronzio esistenziale si aggira nei solchi. È l’esordio del Generale Inverno (già
Lacrevisse). Ed è un esordio da consigliare vivamente, mettiamo subito la palla al
centro. Freddo nelle ossa, nebbia, confuse memorie: l’hanno digerita bene la
lezione dei Radiohead, i quattro ragazzi d’inverno (Brad, Maestro, Nelide, Matteo). Il
freddo nelle ossa e nel cuore è siberiano doc, è quello che stroncò Napoleone nella
disfatta in terra russa (e fu definito “il generale inverno”). “Mohole” andrebbe studiato
come libro di testo dei tempi dispari: l’iniziale “Innamorale” si dispiega ovattata nei
suoi lancinanti 7/4; “E più non sarò” - la traccia più “ok computer” dell’album - srotola
inciampando su un ritmo in 11; addirittura in 13 è l’implosa “f(x,y)”, giocata su un
ricamo chitarristico post-dark. Apparentemente sensibile a lusinghe prog (il
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mellotron, i violini, le peripezie ritmiche, la certosina cernita delle parole sdrucciole),
in realtà “Mohole” è cristallino songwriting, è spleen che fa tesoro di post-rock e
grunge, di esperienze italiche (Afterhours, Marlene Kuntz), della “rabbia di un
secolo”, per assemblare gli ingredienti in una proposta ch’è fatta di canzoni dilatate
e liquide. Lunghe, melanconiche. Acustico o semi-acustico, con quel ronzio elettrico
che torna, in “Appena appena”, per esempio, con un riff che è Jimmy Page al 100%,
e una coda di puro rock’n’roll (in 4/4!).
Triste, solitario y final (sebbene, in quanto debutto, “inizial”). Bello (
http://www.jestrai.com/).
Gianluca Veltri
Nihil Project
Samhain
UDU/Materiali Sonori
Sul confine di un febbrile sincretismo oriente-occidente si riaffaccia il Nihil Project,
che già aveva palesato stimolanti trasversalità con l’esordio di due anni orsono.
Anche stavolta, con maggiore coesione ed essenzialità, il prolifico duo Antonello
Cresti/Andrea “Janex” Gianessi ha liberato le briglie delle proprie percezioni,
proiettato nel convivere di orizzonti diversi, arricchito di additivi (sonori) altamente
visionari, attingendo da un range di pregevoli partecipazioni tra cui Claudio Rocchi,
Andrea Chimenti, Christian Burchard, Steve Sylvester, Arturo Stalteri, Arlo Bigazzi,
Orio Odori.
“Samhain” è dunque rituale pagano che fluttua e danza ipnotico in otto episodi più
ghost-track, laddove fluidi rosa e affini fragranze di belle stagioni pop-psichedeliche
si espandono oltre la forma e la concezione della canzone, inebriate d’incensi
indiani, striate da più moderne tensioni elettroniche (col sapiente apporto di Vittorio
Nistri dei Deadburger), circolarità allucinogene su cui stendere declamazioni, parole
sacrali e liberatorie. “Musica impegnata” si diceva un tempo, con annessi riferimenti
sociali-culturali-politici, e Nihil Project ci racconta che la faccenda è ancora
maledettamente attuale. Altro che pop-rock da mettere in vetrina, meglio lasciarsi
andare in questo viaggio antagonista che elude scompartimenti temporali e di
genere, incedere ritualistico etno-space in cui sembrano riaffiorare umori
flower-power e caleidoscopi sonori che furono (e ancora sono a loro modo) di
Hawkwind ed Embryo, con il primo Battiato dietro l’angolo e la mente che si libera
dalle pastoie conformistiche e più terrene, passando da Stonehenge al Gange, in un
bisogno irrefrenabile e universale di aria più pulita e di spiritualità (
http://www.nihilproject.org/).
Loris Furlan
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Larsen Lombriki
Free From Deceit Or Cunnings
Snowdonia/Audioglobe
I Larsen Lombriki sono sei, ma il loro è un unico corpo sonoro. Viene da parlare di
new wave "ossea" e ci si meraviglia che uno scheletro sonoro solido si regga sulle
giunture naturalmente storte della no-wave di James Chance, appena coperta da
qualche straccio della pelle cannibalizzata di Ian Curtis. Mettere il naso in "Free
From Deceit Or Cunnings" - il secondo lavoro della band nata dalla culla scomoda
dell'underground romano - vuol dire entrare nel cimitero dei fermenti newyorkesi (e
non) della fine degli anni Settanta, danzando sulle lapidi dei Pere Ubu e dei Suicide
("Stupid Rock'n'Roll" e "Honey" valgano da esempio) seguendo obbedienti le figure
paradossalmente classiche di una “danse macabre” come “Zalien”. Certo, non è
detto che tutti si trovino a proprio agio nella decadenza della scena di cui
evidentemente i Larsen si sono appropriati con sapienza e devozione, da perfetti
allievi e seguaci: si tratta di una scena asfissiante per natura, dalla quale e nella
quale non si può pretendere di essere rassicurati o coccolati. Così, il "we're gonna
rock around the clock tonight" di “Bleeding Man”, citazione masticata fino alla
poltiglia del sassofono stonato che è chiara marca di genere o la cadenza
quasi-Clash di "Time For Love" hanno tutta l'aria di essere canzoni d’amore dirette a
un altro tempo e ad un altro luogo. Un altrove poco accessibile per antonomasia,
fatto di incubi sintetici da scoprire e ri-scoprire e da cui, premesso che lo si voglia,
farsi rapire (http://www.snowdonia.it/).
Marina Pierri
Enri
Music Performed
Record Kicks
Sono uno dei gruppi preferiti dai Pizzicato Five, gli Enri, e basterebbe questo per
intuire le potenzialità e l’attitudine del progetto, che nasce dalle ceneri dei Vip 200 e
trova casa nel catalogo della Record Kicks, etichetta impegnata da qualche anno
nel recupero di sonorità e immaginari tipici degli anni ‘60 e particolarmente attiva nel
2004, con l’esordio dei Ripidi, le compilation “Soulshaker” e il “Megalopolis” a firma
StudioDavoli.
Non si discosta troppo dalle coordinate della label milanese neppure questo “Music
Performed”, dove gli Enri intrecciano con stile reminiscenze beat, modernariato pop,
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sfumature psichedeliche e hammond groove senza perdersi all’interno dei riferimenti
ed allontanandosi dalle acque pericolose del revival cocktail lounge. Non è però
nelle citazioni che bisogna trovare il centro di “Music Performed”, che innesca sì un
gioco di retrospettive che farebbe la fortuna dei teorici del postmoderno ma lo fa con
grazia e con spirito divertito e compiaciuto, divagando spesso in territori prossimi al
funk, come dimostrano gli oltre otto minuti di “Cozmootronic Experience” e il
coinvolgente singolo “I’m A Vip”, condito di organo e vicino alla levità “in movimento”
dei Kinks. Non mancano nemmeno episodi più intimi e raffinati con cui dalla pista si
passa, metaforicamente, alla cameretta: “Another Chance” si avvicina alle
atmosfere degli Air, mentre convince meno “Italian Suite”, che sfrutta l’immaginario
un po’ usurato delle colonne sonore da commedia all’italiana. Resta da capire
l’effettiva collocazione di un prodotto come questo: se, da un lato, certe miscellanee
potrebbero avvicinarlo ai gusti dei fruitori più globali di pop music e agli amanti, per
esempio, dei Go! Team e degli Spearmint, c’è il rischio che “Music Performed” resti
un caso limitato agli “iniziati” del genere. E sarebbe davvero un peccato (
http://www.recordkicks.com/).
Giuseppe Bottero
Green Man
Irem
Hau Ruck SPQR
Giacché le poche copie del loro primo cd autoprodotto hanno avuto distribuzione
scarsa se non proprio nulla, i Green Man contano oggi di ottenere maggiore visibilità
sotto l’ala protettrice della Hau Ruck SPQR, che certo gode di buon credito anche
all’estero. Positivamente impressionata dalla particolarissima vena folklorica del duo
milanese, che mescola brillantemente ritmi mitteleuropei con atmosfere e danze
orientali, l’etichetta romana ha recentemente pubblicato un 10" con i quattro episodi
più significativi tratti dal medesimo album pubblicato lo scorso autunno.
Interamente cantato in inglese, “Irem” offre innumerevoli riferimenti esoterici, che
testimoniano le approfondite ricerche intraprese in campo religioso da Marco
Garegnani e Eliahu Giudice. A parte le liriche e le citazioni di testi sacri, il fascino
simbolico dell’opera è altresì assicurato dalle ritualistiche cadenze e dalle atmosfere
ancestrali che pervadono ogni brano, per trovare compiuta espressione negli
arrangiamenti medievali della strumentale “Amanita Muscaria” e della misterica
title-track (www.hauruckspqr.com).
Fabio Massimo Arati
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Paolo Zanardi
Portami a fare un giro
Olivia/Venus
Quali riferimenti, per il barese Paolo Zanardi, all’esordio solistico con la neonata
etichetta Olivia? Amerigo Verardi, senz’altro, ma in versione più sorridente e sfottò,
virato verso Rino Gaetano. O quel mondo recuperato e di nostalgia lieve, d’una
fanciullezza Seventies (che rimanda ai Baustelle), visibilissimo in più episodi: “Come
una lampadina”, “Matisse”, cantata con una voce piena di singhiozzi sottintesi alla
Robert Smith e quel synth tremolante da film di rango (allora considerato) inferiore;
e ancora “Il farmacista”, potenziale appeal da singolo. Atmosfere confermate dal
flicorno d’epoca di “Piani di fuga”, nettamente bacharachiano, che ci riporta a
cavallo dei ’70 su vellutati tappeti lounge. La canzone di Paolo Zanardi è intelligente
e ben costruita, tanto da sembrare a tratti persino furbetta; a volte, in un paio di
occasioni, un po’ scanzonata, declinando su un ironico reggae o su un tono quasi
bandistico, di parodia.
Zanardi non è per nulla un novizio, i suoi Borgo Pirano nei ’90 vinsero un Ciampi, un
Recanati e un Festival Sonica, risultando finalisti un po’ ovunque (Arezzo Wave,
Rock Targato Italia). Faccia alla Andrea Paz e poi quella voce da schiaffi (Carboni,
Gaetano), Zanardi è una personalità multipla e istintivamente simpatica. Assai ben
riuscita la cover diaframmatica di “Caldo” (Federico Fiumani, ecco un’altra traccia),
segnata come tutto l’album dal timbro del piano Rhodes di Giorgio Spada. Finale
quasi da camera, con “La panchina”, pianoforte e viola, potrebbe essere Macca.
Che il modernariato sia con voi (http://www.oliviarecords.it/).
Gianluca Veltri
La Crisi
La Crisi
Hurry Up!/Ammonia-V2
Certe persone, e quindi certa musica, non cambiano mai. Prendiamo il caso dei
Sottopressione, ovvero uno dei pochi gruppi hardcore italiani capace di resistere
durante gli anni '90; finita quell'esperienza Mayo, voce storica della formazione, e
Diste, decidono che non ne hanno ancora abbastanza. Chiamati così a raccolta
Dario e Paolino ecco così nascere i La Crisi. Se, per caso, state pensando che in
fondo le cose migliori della loro carriera questi ragazzi le hanno fatte nello scorso
decennio, questo esordio fa al caso vostro. Ed è un piacere immergersi di nuovo
nelle atmosfere claustrofobiche create dai testi, e dalla voce, del singer: del resto un
inizio migliore di "Decorso lento" non potrebbe esserci in tal senso.
Si ritorna così, con la mente e con la musica, ai Sick Of It All o, per rimanere dalle
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nostre parti, a Negazione e Indigesti, paragoni che troppo spesso vengono usati
fuori luogo ma che invece qui calzano alla perfezione. Anche perché trovare un
gruppo così capace e sicuro di sè è ormai cosa rara, e se a questo aggiungiamo le
doti di scrittura di Mayo si capisce perché i La Crisi non avrebbero potuto non fare
centro. Peccato solo, per le capacità espresse, che la lingua italiana ne limiti un po'
la diffusione fuori dai nostri confini, il gruppo meriterebbe di raccogliere molto più di
quanto non stia già facendo. La scuola italiana dell'hardcore torna in cattedra a
dettare legge, e speriamo che questi tredici - più uno - brani siano solo la prima
lezione (http://www.hurryuprecs.it/).
Giorgio Sala
Veronica Marchi
Veronica Marchi
La Matricula/Venus
Esordiente per La Matricula, Veronica Marchi mette assieme dieci canzoni
autografe che compongono un disco ambizioso e dai grandi obiettivi: abbattere le
barriere dell’underground grazie a un cantautorato spigliato e istintivo con
arrangiamenti che guardano sorridenti a un mainstream patinato che potrebbe far
pensare alle ultime prove di Alice (o, per restare nel contesto, a Marian Trapassi).
Non è brutta musica, questo no. In diverse occasioni la Nostra dimostra di saper
tenere in mano una penna - “Quello che non ti ho detto”, “Io vorrei”, “Bambina” - e la
sua interpretazione è convincente e carismatica grazie anche a una voce notevole.
Ma il lavoro di cesello del produttore Mauro Magnani (Matrioska) smussa gli angoli e
leviga ogni superficie, impacchettando il tutto di una patina che - seppur
contestualizzando in un’ottica di canzone d’autore “overground” - alla lunga risulta
stucchevole. E se poi aggiungiamo brani in cui l’ispirazione viene meno e la banalità
rischia di prendere il sopravvento come “Occhi di sale” e “Sola”, notiamo come la
proposta perda in attrattive e, soprattutto, in freschezza. Probabilmente siamo noi
inguaribili romantici, ma questi arrangiamenti jazzy puliti e “di classe” ci suonano
artificiosi, questo profilo - seppure intimista quanto basta - tanto tenue quanto
raffinato rischia di annoiare e le ombre dei momenti meno “alti” del disco rischiano di
annullare i picchi luminosi. I mezzi ci sono, questo sì, ma la strada da percorrere
sembra ancora piuttosto lunga (http://www.veronicamarchi.it/).
Hamilton Santià
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Fare $oldi
One Nation Under A Grande Cassa
Riotmaker
Ormai sta diventando un po’ un luogo comune dirlo, ma la Riotmaker è
effettivamente da tenere d’occhio: in attesa del nuovo lavoro degli Amari, gli Scuola
Furano sono andati addirittura a lambire le acque di Mtv senza avere particolari
raccomandazioni alle spalle o zii parlamentari, e ora lo spin-off Fare $oldi (ditta
messa su per il tempo libero dai due leader dell’etichetta, Pasta e Luka Carnifull)
torna in pista con un album molto più centrato e consistente rispetto al materiale
sfornato prima. In tutto questo, ci si cimenta in territori che non sono abituali dalle
nostre parti: per certi versi parrebbe di stare in Francia, elettronica creativa col gusto
del modernariato anni ’80 (più una sfumatura alla Phoenix). E quando diciamo
creativa, lo intendiamo veramente: “One Nation Under A Grande Cassa” ha un
arsenale di campionamenti che basterebbe da solo a coprire l’intera discografia
dance italiana di un anno. Potenzialmente tutto molto divertente, sì, e spesso non
solo potenzialmente: manca forse un po’ di amalgama, quella sfumatura
impercettibile che aiuta a legare e a dare consistenza al proprio suono. Materia in
cui sono i maestri i Daft Punk, anzi, ne sono così maestri che si divertono a
prenderci in giro costruendo brani basati su un unico loop. Cosa che i Fare $oldi non
faranno mai, sono troppo innamorati del loro eclettismo nell’assemblare tremila
schegge sonore buone per essere virate in salsa dance; ma se col tempo e col
mestiere acquisissero un po’ del “tremendismo” daftpunkiano, potrebbero fare il
botto. E non intendiamo solo in Italia (http://www.riotmaker.net/).
Damir Ivic
The Perfect Guardaroba
Un.tidy
Load Up-Lake/Venus
Sono in cinque, vengono dalla provincia di Ancona, più precisamente da Senigallia,
e suonano rock’n’roll. Potrebbe riassumersi in queste poche parole l’essenza di
“Un.tidy” e dei suoi autori, i The Perfect Guardaroba. E ci starebbe, visto che la
musica della band è di quelle che arrivano direttamente al sodo, e che quindi non
necessitano di particolari spiegazioni per essere gustate in pieno. Vale comunque la
pena spendere qualche parola in più per analizzare meglio un lavoro che riesce nel
non semplice compito di suonare classico ma non vecchio. Del resto, la gran parte
delle proposte più interessanti del momento, a livello internazionale, si muove
proprio lungo la linea sottile che divide il rétro dall’ammuffito, e in questo senso il
quintetto marchigiano sembra avere le idee ben chiare su cosa fare e non fare.
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Se infatti i riff prodotti a getto continuo e la batteria “pestona” non possono che far
pensare al più sanguigno rock - anche hard, perché no? - a stelle e strisce, sovente
tale tradizione si apre a istanze di natura più prettamente indie. Ascoltando certi
passaggi dell’iniziale “N.D. City”, infatti, un nome che viene alla mente è quello degli
Strokes, mentre altrove (“Don’t Waste Your Time”) il pensiero potrebbe andare alle
ritmiche saltellanti dei Franz Ferdinand, inserite però in contesti decisamente meno
accomodanti. Doveroso il consiglio di ascoltare il CD col volume a palla: il fatto che
si tratti di un luogo comune non lo rende un suggerimento meno sentito (
http://www.theperfectguardaroba.tk/).
Aurelio Pasini
Hiroshima Mon Amour
Cambio 1995-2001
Revenge
Numerosi cambi d’organico hanno sovente turbato gli equilibri interni degli
Hiroshima Mon Amour e tale instabilità, unita alle scarse occasioni offerte dalla
scena locale in cui si trova a operare da oltre dieci anni, non ha certo giovato
all’affermazione pubblica e alla crescita espressiva di questa pur valida band.
Eppure Carlo Furii - che del gruppo è cantante, tastierista e fondatore - non ha mai
pensato di gettare la spugna: già da qualche tempo ha trovato nuovi stimoli creativi
assieme al chitarrista Rino De Patre, al bassista Domenico Capriotti e al batterista
Livio Rapini, aprendo così un nuovo capitolo artistico che ci auguriamo possa portar
loro tutte le soddisfazioni che meritano.
Con “Cambio 1995-2001” il quartetto chiude pertanto la prima fase della sua
carriera, ripercorrendone i momenti più significativi e restituendo nuova luce a brani
di difficile reperibilità e a canzoni per lo più inedite. Fanno dunque parte di questa
retrospettiva episodi tratti dai loro demo tape e da alcune miscellanee, oltre che dal
loro omonimo mini-cd d’esordio, distribuito originariamente assieme alla fanzine
“Petali viola” e da tempo introvabile. La selezione trascura dunque i due album
interni - “Anno zero” e “Dedicata” - realizzati tra il 1999 ed il 2000; una scelta che,
ovviamente, accresce l’interesse proprio di chi, grazie a questi due interessanti cd ha già conosciuto ed apprezzato l’avvolgente new wave cantata in italiano degli
Hiroshima Mon Amour (http://www.hma.it/).
Fabio Massimo Arati
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Strenght Approach
Sick Hearts Die Young
Wynona/Hurry Up!
Lontani dai poli musicali più in voga, quattro solidi tour europei affrontati con pochi
sensazionalismi facili e tanta buona volontà e un curriculum che parla da solo. Fa
quasi dispiacere, leggendo la loro biografia, di non conoscerli da sempre, gli
Strenght Approach. Ma con un lavoro come "Sick Hearts Die Young", ovvero il
primo vero album in dieci anni di carriera, bruciare le tappe sembra il minimo. Non si
era mai visto dalle nostre parti infatti un gruppo capace di produrre dell'hardcore
così compatto e maturo nei suoni quanto attuale nelle melodie, qualcosa di
collocabile - a detta della band - a metà tra Give Up The Ghost e Kid Dynamite. Non
lesinano in bordate sonore, per poi riprendere fiato con un ritornello in mid-tempo
come in “The Greatest Guilt”, e i venticinque minuti in cui si dipana il disco sono
un'esplosione di schegge impazzite dove però emergono chiare due cose: una
profonda capacità tecnica e soprattutto esperienza. Evidentemente condividere i
palchi d'Europa con gruppi quali Youth of Today e Shelter, tra gli altri, ha giovato
non poco ai cinque Strenght Approach, ed anche la resa sonora del materiale,
registrato ai romani Temple of Noise, rende giustizia alla potenza delle esibizioni live
del combo. Unico appunto possibile? Dodici brani a questi livelli sono troppo pochi,
e già ne vorremmo di più. Forse parlare di "rinascita del movimento hardcore
italiano" è fuori luogo e sensazionalistico, ma certo è che ascoltare certi dischi
restituisce un po' di speranza per la nostra povera patria musicale (
http://www.wynonarecords.com/).
Giorgio Sala
Fine Before You Came/As A Commodore
Split CD
Holidays
Vive di una tensione costante questo split dei Fine Before You Came (già autori del
mini “Cultivation Of Ease”) con gli As A Commodore. Una tensione che deflagra
nelle trame nichiliste e ossessive di un math-rock alla Rodan che si mescola agli
Slint, a una componente emo che esplode in una rabbia fugaziana che imperversa
tutti i suoi trentasette minuti. Minuti in cui, nelle tracce a disposizione, i Fine Before
You Came mettono assieme movimenti che seguono schemi precisi, riff dissonanti
non privi di una certa poetica malata e distorsioni “catartiche” che esprimono il
senso di alienazione e pessimismo espresso da liriche romantiche ma disilluse.
Come un Ian MacKaye all’apice della nevrosi. Su coordinate più o meno simili si
muovono gli As A Commodore, che dilatano le strutture e gli arrangiamenti
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diminuendo al minimo le parti vocali e avvicinandosi a una concezione musicale
maggiormente “post” rispetto agli sparring-partner. È in questa frazione di disco che
il fantasma di “Spiderland” torna a echeggiare: i tre frammenti qui proposti sono
secchi, urticanti, addirittura psichedelici. Le parole diventano dei piccoli contorni
simbolici e simbolisti che non vogliono rubare la scena allo sfogo deviato della
musica.
Reso possibile grazie alla Holidays Records e altre importanti realtà indipendenti del
nostro paese come la Eaten By Squirrels, questo split promuove due gruppi che
dimostrano una personalità precisa e convincente, propongonendo la loro musica
con entusiasmo e maturità (http://www.holidaysrecords.it/).
Hamilton Santià
Skinny Legs
October 1st
Recycled Music
La voce distorta e protagonista in contrasto coi pianoforti malinconici fa di “October
1st” un oggetto sonoro decisamente non privo di fascino. La sua forma si costruisce
a metà su filastrocche sghembe e timide e a metà su canzoni destrutturate e
multistratificate; la sua sostanza su frasi melodiche aperte contaminate
dall'elettronica: pensieri che si lasciano scrivere a grandi caratteri e leggere
agilmente concretizzandosi in pezzi come "As Best You Can", "Start" o l’ottima
"Ground And Born". E, sì, funziona. Tanto che terminato l'ascolto si resta colmi di
aspettative circa il possibile futuro di Skinny Legs, pseudonimo dietro cui si cela il
lavoro da quasi one man band di Francesco Scotognella, qui accompagnato dai due
membri dei Pecksniff Stefano Poletti (batteria, armonica) e Simone Sommi
(glockenspiel). Del resto, è proprio la neonata etichetta tutta low-fi di quest'ultimo, la
Recycled Music di Colorno (PR), a rendere disponibile questo cd.
"October 1st" si avvale del semplice aiuto di un computer casalingo per un risultato
lirico e sonoro ammirevole, una mezz'ora scarsa di musica che raduna dieci piccoli
gioielli assestati su coordinate di stampo indubbiamente più estero che italiano: un
disco che piacerà agli esterofili dal palato sensibile agli ultimi fermenti del post-pop
di matrice americana ma forse soprattutto un lavoro che, pur non avendo ancora
trovato una distribuzione valida, siamo certi non mancherà di farsi notare (
http://www.recycledmusic.tx/).
Marina Pierri
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Tangatamanu
Landing Talk
Wallace/Audioglobe
Uscita numero sei nella “Mail series” della Wallace, che raccoglie in piccoli CD da
otto centimetri di diametro musiche delle più varie e sperimentali. Protagonista di
questo “Landing Talk” è il duo dei Tangatamanu, ovvero Alberto Morelli e Stefano
Scarani, autori di dieci composizioni strumentali brevi e minimali nate come
commento sonoro a due installazioni interattive del collettivo Studio Azzurro. Nella
prima, quella che dà il titolo all’intero lavoro, in primo piano ci sono le note di un
pianoforte preparato, che svolgono allo stesso tempo una funzione ritmica e
melodica - facendo da contraltare a bordoni, rumori e note di chitarra - e danno al
contesto sonoro un suggestivo retrogusto orientaleggiante. Ne “Le zattere dei
sentimenti”, invece, protagonisti assoluti sono le percussioni, di ogni tipo (dai
tamburi alle conchiglie ai legnetti) e gli strumenti a fiato, flauti soprattutto, tesi a
ricreare sensazioni sonore quanto più possibile vicine all’immaginario del naufragio,
tema centrale dell’opera. Un viaggio - via acqua, ovviamente - che si conclude
nell’ultima traccia, “Solaris”, in cui sciabordii di matrice sintetica vogliono comunicare
il definitivo sfumare dei confini che dividono la realtà dall’immaginazione, in una
avvolgente e inquietante compenetrazione di astrazione e concretezza. A
completare il lavoro, una eccellente traccia ROM la cui fruizione permette di entrare
ancora meglio nello spirito delle creazioni artistiche per cui queste musiche sono
state ideate (http://www.tangatamanu.com/).
Aurelio Pasini
Calomito
Inaudito
Megaplomb
È rigoglioso, trasversale e tentacolare il suono dei Calomito, non proprio “inaudito”
come da titolo ma ragguardevole sorpresa di questo scorcio di 2005, perlomeno
negli scenari musicali avant-etno-jazz che prediligono esprimersi esclusivamente in
via strumentale. E qui il sestetto genovese la sa piuttosto lunga, attrezzato di una
sapiente tecnica individuale e d’assieme, abile nel convogliare linguaggi diversi sul
proprio binario espressivo. Ricco timbricamente, con violino, viola, sax, synth,
organo e il gocciolio del Fender Rhodes a colorare trame dinamiche e agilissime, il
mondo del gruppo assomma con smagliante freschezza assonanze balcaniche,
danze gitane (“Collante”) ed effusioni arabe e klezmer (“Am Ha’Aretz”) a torride e
funamboliche disgressioni jazz-rock accostabili all’urgenza deviante dei Doctor
Nerve e affini, ma con un sano tasso ludico e folclorico che, sempre in zona “in
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opposition”, può rammentare, parole escluse, la verve degli Stormy Six.
Nel caso dei nostri sono però i ritmi, le percussioni, il contrabbasso di Tommaso
Rolando, le scorribande del sax di Federico Barrai, il violino sinuoso e scoppiettante
di Filippo Cantarella a sciorinare immagini e sequenze con un’esuberanza e una
versatilità raramente riscontabili nel rock e nel jazz di casa nostra. Annotiamo pure
che questo esordio, che peraltro corona un percorso quasi decennale, viene
pubblicato dalla Megaplomb, label vicina a sonorità più avant-indie-noise (chi ricorda
i Pin Pin Sugar?), come a rimarcare che gli steccati di genere e affiliazione estetica
sono da abbattere e che tanta buona tecnica strumentale non è orpello inutile e
ridondante se accompagnato da pregevoli sensibilità e personalità (
http://www.megaplomb.it/).
Loris Furlan
Pi.ccolo Gr.uppo I.ntimo
Non esistono grandi artisti ma solo piccoli imbroglioni
Fast Lap
Può sembrare incredibile, che il punk riaffermi la sua esistenza attraverso un
gruppo di giovanotti calabresi che si autodefiniscono, acrosticamente, PI.GR.I..
Eppure ascoltare per credere. Le sferzate da tre minuti sono botte adrenaliniche,
condite con testi creativi, spiritosi, per niente banali. Feroce critica contro
l’alternativa di facciata, fin troppo matura per un gruppo di poco più che ventenni
(ma già al terzo album). Nelle note del booklet i ragazzi scrivono a chiare lettere:
“Questo CD è dedicato a tutte le persone e i gruppi che non vogliono essere né
originali né alternativi”. Rivincita della normalità. Anche musicalmente i PI.GR.I.
inventano l’acqua calda. È solo r’n’r, e nel disco c’è pura abrasiva elettricità,
immediata, con pezzi come lampi e squarci e scorribande. Un’attitudine nettamente
punk, che rimanda alle prime esperienze d’oltremanica del genere. “Non esistono
grandi artisti…” vuole iscriversi in un solco che è ormai la tradizione del secolo
scorso.
Il CD viene distribuito insieme ad un fumetto e a racconti scritti da loro, dai PI.GR.I.,
e l’abbinamento sottolinea una vena inter-artistica interessante, sfaccettata. In
questo e in quello - l’interdisciplinarità, la citazione d’annata - si collocano copertina
e retrocopertina: il bananone mitologico di Warhol/Velvet Undergound, lo scatolame
da saldi ai supermarket di “The Who Sell Out” (http://www.pigri.tk/).
Gianluca Veltri
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D.D.R.
Alza la Voce!!!
Le Parc/Self
Sembrano ormai lontani i giorni dei fasti per il punk rock italiano; la crisi discografica
da un lato, e una certa autoreferenzialità dall'altro, hanno messo un po' in ombra chi
ancora oggi suda nelle cantine con questi suoni. Ma se è dai momenti difficili che
vengono fuori le cose migliori allora questo è il periodo giusto per i D.D.R.. Un nome
che evoca un tempo ormai passato per un suono decisamente al passo coi tempi
quello di questi cinque ragazzi fiorentini che siglano il loro debutto con "Alza la
voce".
Balza subito all'orecchio, e non potrebbe essere altrimenti, la voce di Sely, grintosa
singer che, senza scimmiottare alcun modello di successo, convince dosando
aggressività e melodia in brani come "Clandestino". Anche le liriche, affrancate
finalmente dalla rima baciata, sanno essere incisive senza scadere nella "lotta di
maniera", e in tal senso basterebbe leggere quanto dicono i nostri in "Cinico TV".
Musicalmente invece niente di rivoluzionario: una solida sezione ritmica e un paio di
ispirati chitarristi imbastiscono un punk melodico che non lesina in “stop and go” e
accelerazioni improvvise, ma che nel complesso risulta credibile. Persa invece
anche stavolta la battaglia contro le cover inutili: il trattamento riservato a "Moonlight
Shadow" non è scandaloso, semplicemente inutile; un'occasione sprecata e l’unico
piccolo neo di un lavoro per il resto assolutamente dignitoso. E anche se questo
potrebbe non essere il momento migliore, "Alza la voce", ne siamo convinti, non è
un lavoro da dimenticare in fretta (http://www.ddrpunkrock.org/).
Giorgio Sala
The Mirrors
Time Beats Only Once
autoprodotto
Il milanesi Mirrors esordiscono sulla lunga distanza con un doppio cd autoprodotto
in cui fanno convergere tutte le loro influenze. Sedici tracce in cui troviamo gli Oasis
degli esordi e i Coldplay, i Pink Floyd (tra “The Dark Side Of The Moon” e “Wish You
Were Here”, soprattutto nei temi musicali che si ripetono e nei rumori di fondo che
legano le canzoni) e i Beatles. Nessun problema apparente, non fosse altro che di
queste canzoni non se ne ricorda una memorabile. La logorrea creativa diventa
viatico per un’opera eccessivamente autoreferenziale e monotona, dove gli episodi tutti su una media di oltre cinque minuti... e capite che per un lavoro
fondamentalmente brit-pop non è esattamente il massimo - si ripetono secondo uno
stancante canovaccio. Cercando di salvare il salvabile, possiamo indicare alcuni
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brani azzeccati come “Maggie Flies With Me” o “Time Beats Only Once”,
tralasciando per un momento i testi un po’ banali e una forma patinata e di maniera.
Probabilmente sarebbe stato meglio concentrarsi su un album singolo, con pezzi di
minore durata e - magari - con maggiore varietà stilistica, perché questo doppio
album non si giustifica né con i contenuti, né tantomeno con la carriera: da un
gruppo di emergenti assoluti una mossa del genere è quanto di più vicino a uno
scivolone dal quale speriamo possano riprendersi al più presto (
http://www.themirrors.net/).
Hamilton Santià
Varunna/Foresta Di Ferro
Millenni
Hau Ruck
Già con “Fuoco” - il 45 giri d’esordio uscito lo scorso anno e subito divenuto merce
per collezionisti - i Varunna avevano reso manifeste le loro provocatorie tendenze
politiche. Una linea ideologica che è ribadita anche nei due brani raccolti in
“Millenni”, un bel 10" stampato in pochi esemplari sotto le insegne della viennese
Hau Ruck.
Il progetto condotto da Alessio Betterelli propone strategie acustiche di chiara
derivazione neo folk, riscattando le sorti di uno stile che sembrava in crisi dopo le
più recenti uscite discografiche di Sol Invictus e Death In June. Lungi dal voler
negare che il genere offra ben poche prospettive di sviluppo, prendiamo atto che
pure i tre episodi presenti sullo stesso disco, nel lato firmato da Foresta di ferro,
risultano carichi di tensione e pregni di visionarie suggestioni. Così anche la band di
Marco Deplano (con lui ci sono pure Richard Leviathan degli Ostara e John Murphy,
storico batterista della scena industriale inglese) ribadisce il proprio spessore
creativo, alla vigilia della pubblicazione del primo album in cd (
http://www.hauruck.org/).
Fabio Massimo Arati
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Valéry Larbaud
Altro non è rimasto
Acide Produzioni/Venus
Ci sono volte in cui un CD-R è di un livello tale da guadagnarsi attenzioni uguali o
addirittura maggiori rispetto a un’uscita, diciamo così, ufficiale. È quanto è capitato
giusto un paio di anni fa con “A sinistra del rosso”, terzo demo dei cremonesi Valéry
Larbaud. Difficile quindi considerare questo “Altro non è rimasto” come il disco di un
gruppo all’esordio, anche se di fatto si tratta di un’opera prima. E, del resto, si tratta
di un lavoro maturo, complesso, ricco di sfumature, che testimonia una identità
musicale già ben definita, e quasi del tutto privo di quelle ingenuità che solitamente
caratterizzano i debutti.
Semmai, c’è da dire che la lunga distanza aiuta a inquadrare meglio la cifra stilistica
della formazione, che incorpora istanze cantautoriali (specie per quanto riguarda le
liriche) e melodiche tipicamente tricolori con strutture vicine ma senza esagerare
alla new-wave. A reggere il gioco, gli incroci tra il pianoforte e le tastiere di Davide
Ciuchi e le chitarre, sovente dissonanti, del fratello Paolo, mentre la voce di Diego
Pallavera interpreta con trasporto testi poetici ed evocativi. Tanto il pathos che
trasmettono brani come “Dublino” o “Quella sera”, tanta la tensione drammatica che
la band sa convogliare nelle proprie canzoni, teatrali ma - fatte salve un paio di
eccezioni - mai esageratamente drammatiche. Da recuperare, specie se si hanno a
cuore le sorti del cosiddetto rock d’autore (http://www.valerylarbaud.it/).
Aurelio Pasini
Radiodervish
Lingua contro lingua
Cosmasola/Il Manifesto
Oggi sono una delle realtà più singolari della musica d’autore nostrana, capaci di
descrivere un arco poetico originale, orchestrale e arabeggiante, ma sempre in un
greto cantautorale. Per tornare alle origini del percorso, ecco nei negozi la ristampa
dell’esordio dei Radiodervish, pubblicato all’indomani dello scioglimento degli Al
Darawish dal gruppo italo-palestinese (dove italo leggi pugliese) nel 1998 per i
“Dischi del mulo”. Fu esordio baciato dalla fortuna, con il Premio Ciampi quale
migliore opera prima. Tutte le tracce del palinsesto futuro sono già presenti in
“Lingua contro lingua”: volontà di elevarsi sugli steccati etnici senza slogan, respiro
letterario, impegno, ansia melodica. I bellissimi testi, non solo bilingue, ma trilingue
e anche più, disegnano il sogno d’un esperanto non meramente glottologico, è
ovvio, piuttosto trait d’union che leghi le esperienze di tutti i popoli del mondo.
“Attraversare le porte”, è iscritto nel nome arabo del gruppo.
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I Radiodervish hanno il merito di aver cercato questi fiumi sotterranei con gusto,
passione e ricercatezza, volgendo l’ascolto ai sufi e ai dervisci, all’Antico
Testamento e all’amore universale, ma anche alla condizione delle donne algerine.
Nabil Salameh e Michele Lobaccaro - i due dioscuri del gruppo, il terzo è Alessando
Pipino, le altre presenze in andirivieni - si ispirano già da lì ai nomi che avrebbero
loro indicato la via in futuro: Battiato, Smiths, Umm Kaulthoum, CSI, Khaled (
http://www.radiodervish.com/).
Gianluca Veltri
Nicola Ratti
One Day With My Fishing Umbrella EP
autoprodotto
Già attivo nei Pin Pin Sugar, bizzarro trio sperimentale il cui cd d’esordio (“Latex
Duellos” Megaplomb/Bar La Muerte) risale al 2003, Nicola Ratti debutta
ufficialmente come solista con un insolito ep in vinile. Pregevole nei contenuti e
raffinato nella pur essenziale veste grafica, “One Day With My Fishing Umbrella”
raccoglie otto frammenti per lo più strumentali, registrati in casa durante la
primavera dello scorso anno. Il taglio lo-fi delle composizioni accresce l’intimismo
dolce e malinconico del chitarrista milanese che – proprio per mantenere inalterata
tale evocativa inclinazione - ha realizzato tutto in proprio, avvalendosi soltanto del
supporto di Giuseppe Ielasi in fase di incisione e del contributo di Jacopo Andreaini,
che ha suonato il sassofono in un solo brano.
Il minimalismo spontaneo ed immediato di Nicola Ratti è facilmente riconducibile a
certe esperienze post rock codificate negli anni ’90 da chitarristi del calibro di David
Grubbs e David Pajo, sulla scorta di quanto John Fay aveva già escogitato
parecchio tempo prima. Ascendenti che, per quanto manifesti, nulla tolgono alla
personalità e alla maturità espressiva di questo giovane artista underground (
[email protected]).
Fabio Massimo Arati
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Bachi da pietra
Bachi da pietra è il nuovo progetto di due protagonisti dell’underground nostrano,
l’ex Madrigali Magri Giambeppe Succi (che per l’occasione si firma col nome di
Giovanni) e Bruno Dorella, musicista irrequieto e poliedrico (ex Wolfango, Ronin,
OVO) nonché titolare dell’etichetta Bar La Muerte. Il risultato del connubio è
“Tornare alla terra” (Wallace), suggestiva raccolta di canzoni blues primitive e
laceranti, registrate con un accurato utilizzo artigianale della tecnologia. Ne abbiamo
parlato con Giovanni.
Domanda forse un po' inflazionata ma necessaria: come funziona il vostro
sodalizio musicale e in che modo è nato?
Bruno e io ci siamo incontrati con in tasca l’idea che sarebbe stato bello fare
qualcosa insieme dal momento che una sintonia epidermica era percepita da
entrambi. È bastato accendere e tutto scorreva naturale, senza tanti discorsi da
fare, per cui abbiamo continuato. Non abbiamo avuto molte occasioni per suonare
insieme ma quelle poche sono state gratificanti e memorabili, quindi ci sembrava un
peccato non fissare il momento in un progetto concreto. Il che non è detto-fatto:
considerate che nel nostro ambito produrre un disco significa pagarselo fino
all’ultimo centesimo e le spese di produzione ci sono se c’è un suono che vuoi
ottenere.
Se si deve tirare in ballo un riferimento stilistico nel vostro personalissimo
progetto, occorre parlare di blues: per essere precisi, un blues primitivo e
quasi pre-tecnologico. Avete avuto dei riferimenti e degli ascolti precisi,
oppure è stato un recupero totalmente istintivo e viscerale?
“Un blues primitivo e quasi pre-tecnologico...”, cioè IL blues. L’anima più vera delle
musiche che amiamo è primitiva e viscerale: il tamburo, il rock‘n’roll, il jazz quando
se ne ricorda e anche molta elettronica può essere del tutto intestina.
Personalmente mi piace suonare una chitarra blues con lo spirito di una macchina
imperfetta: che poi è quello che sono. Una (quasi) diligente unità produttiva in un
tacito regime di apparenze. Grande quanto un insetto. Inghiotto ed espello veleno
come posso: tutto questo è molto antico e non finirà mai. Le condizioni dell’uomo
trascendono i singoli individui, che tuttavia le vivono come proprie. Siamo tutti
animali ciechi che suonano il battito proiettati nel vuoto. Quello che facciamo di più
autentico è quasi elementare. Ma lo abbiamo scelto razionalmente? Io non lo so.
Ogni musicista ha per riferimento tutto ciò che la sua anima ha sedimentato nel
profondo. Tutto si fonde con ciò che sei, il che aggiunge un minimo scarto, un
angolo inedito: per questo gioco di infinita variazione di elementi identici e di futili
anomalie, tutte le cose appaiono diverse all’infinito. Ma tutto è uno. E uno è il blues.
Ascoltando il disco, l'impressione è che i Bachi da pietra non esistessero se
non come vaga idea, prima che vi ritrovaste a incidere i pezzi: il luogo, e il
momento (il lasso di tempo che vi siete dati per registrare), sono stati
determinanti nel forgiare la vostra musica. E' una impressione corretta?
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Non del tutto: molto esisteva, rimuginato da tempo, sui fogli degli appunti. Molto
esisteva nelle sessioni con Bruno, nei concerti, nell’aria in quel preciso istante, e ora
esiste nel ricordo delle persone che c’erano. Poi quando decidi di fissare le cose su
un supporto può succedere che tanti elementi sparsi si ricompongano a formare
qualcosa che sembra già un discorso ed è allora che devi umilmente seguire le
mosse dell’insetto e sentire esattamente cosa devi dire. Le cose hanno una loro vita
autonoma, solo se le lasci andare fanno la tua volontà; a dispetto di te. I testi e le
musiche si scelgono a vicenda, magari diversamente da come avevi pensato e tutto
può sempre cambiare: sia Bruno che io siamo persone che lasciano le cose
cambiare. Come dici tu è anche vero che registrando dal vivo assumano
fondamentale importanza il vissuto del momento e del luogo; e anche il fonico
aggiungerei (Alessandro Bartolucci, che ha curato le riprese e il mischiaggio
forgiando da vero maniscalco e intervenendo anche in modo creativo). Ma i Bachi
da pietra esistevano già, come tutte le cose umane.
I Bachi da pietra nascono dall'incontro di due percorsi diversi (anche se affini
per certi versi), da un lato un atipico percorso di ricerca all'interno della
musica d'autore, dall'altra una multiforme (iper)attività musicale. Che cosa
avete portato con voi di queste eredità all'interno del nuovo progetto?
Tutto. Ma molto l’abbiamo perso per strada. Niente. Ma qualcosa l’abbiamo ritrovato
sul posto.
Uno dei brani si intitola “Zolle”. Il legame con la terra è molto forte in questo
disco, un disco che è letteralmente "scavato" in essa. La terra può essere
qualcosa che ti ancora impedendoti di spiccare il volo, ma permette anche,
scavando alla ricerca delle proprie radici, di portare alla luce cose sepolte:
una sorta di radiografia, a volte spietata, dell'anima. Si possono leggere in
questa chiave le parole di “Tornare nella terra”?
Sì. Una nota a margine: il nome del brano, uno strumentale, l'ho preso dal titolo
dell'ultimo romanzo di Marco Drago, vecchio amico e conterraneo: me ne serviva
uno in tema con l'album e quell'immagine calzava a pennello anche con il brano in
sé, così ho colto al volo la coincidenza. Eravamo d'accordo che ci saremmo rivisti
per uno scambio ma poi mi fatto il pacco e chi si è visto si è visto. Non so il libro, ma
il titolo è buono. Ciao Drago, te ne devo uno!
Alessandro Besselva Averame
Contatti: http://www.bachidapietra.com/
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Franklin Delano
I Franklin Delano stanno diventando una realtà musicale sempre più importante
della nostra musica. È di quest’anno la pubblicazione di “Like A Smoking Gun In
Front Of Me” ed è di qualche mese fa una piccola tournèe negli Stati Uniti, patria
spirituale della loro musica, tanto desertica quanto dilatata e psichedelica. Abbiamo
parlato di questo periodo fortunato con Paolo Iocca, chitarrista, cantante e fondatore
del gruppo.
Partiamo dal passato prossimo: com’è andato il tour americano?
È stata dura, ma anche indimenticabile. L’approccio alle cose è totalmente
differente. Siamo riusciti ad adeguarci alla situazione e, nonostante il 95% del
backline fosse rimediato qui e là da amici a Chicago, siamo riusciti a ricreare le
atmosfere che cercavamo. Le reazioni del pubblico e degli artisti con i quali ci
abbiamo diviso il palco ce lo hanno confermato. Ci siamo sentiti a nostro agio dopo
pochi giorni. Abbiamo preso il ritmo del viaggio e siamo rimasti altrettanto spiazzati
quando siamo tornati in Italia. Ormai avevamo l’impressione di essere lì da sempre.
La vostra musica infatti, appartiene in tutto e per tutto agli Stati Uniti. C’è una
differente percezione della materia da questa e da quella parte dell’oceano?
Quello che abbiamo notato proprio durante il tour è che la nostra musica è differente
anche dalle loro tradizioni. L’approccio è totalmente diverso. Non dubito che ci siano
aspetti comuni, ma la sorpresa di chi ci ascoltava conferma il nostro essere su una
linea di confine. Non escludo che il nostro progressivo imbastardimento, dovuto ai
contatti con gli States, possa portarci a fare musica sempre più vicina alla loro:
questo non possiamo saperlo, lo si vedrà quando ci saranno brani nuovi in cantiere.
Com’è stato lavorare con Brian Deck, la File 13 e il mondo musicale
statunitense?
Lì c’è più disillusione e meno mitizzazione. Si fa fatica là come qua a tirare avanti.
Artisti americani che qui sono di nicchia ma idolatrati, là sono ancora meno
conosciuti. Questo non riguarda Brian, che è riuscito a imporsi più come produttore
che come musicista. Tra noi c’è stato un rapporto alla pari, di grande stima umana e
professionale... una bella amicizia reciproca che probabilmente ci porterà a lavorare
di nuovo insieme. Le cose si sono svolte con estrema semplicità: il background di
esperienza accumulato da Brian gli ha consentito di trovare sempre gli effetti più
indicati per valorizzare i suoni. La File 13 ci è stata molto vicina a livello umano e
logistico durante il tour e senza di loro non avremmo potuto risolvere questioni
cruciali e affrontare tutto con la serenità dovuta. Certo, senza Madcap e Onga, il
disco non sarebbe neanche uscito negli States.
Come siete riusciti ad “intrufolarvi” negli States?
Sono convinto che chi davvero vuole qualcosa la ottiene, se non avessi questa
certezza avrei già abbandonato la musica. Ho solo tentato su più fronti di smuovere
le acque e ho poi scoperto che non ero solo a spingere le cose: si era creato un
team efficiente intorno a noi e il muro di indifferenza è crollato. Il resto lo ha fatto la
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nostra musica.
E com’è la risposta italiana nei vostri confronti?
Mi pare si sia creato un crescente interesse. La cosa che più conta per me è che le
persone che ci hanno sentito tornino e ci sostengano. Promuovere un album e far sì
che la gente vada a un concerto è difficile, ma la cosa più dura è metterle in
condizione di ritornarci e comprare l’album invece di copiarlo o scaricarlo. Questo è
un effetto che solo la bontà della proposta può dare.
Hai un’opinione nei confronti di questa scena italiana - Cesare Basile,
Midwest, Morose... - che cerca di ripescare l’America più desertica e
dimenticata?
Non penso di averla, penso solo che l’Italia sia un paese come un altro e il fatto che
si continui a ritenerlo in via di sviluppo musicale non mi è mai piaciuto. D’altronde ci
sono mancanze di vario tipo: psicologico negli artisti, di investimento da parte delle
amministrazioni culturali e di scarso interesse da parte dei media. Se ci sono altri
musicisti che per ispirazione guardano oltreoceano, non è una cosa che dovrebbe
sorprendere. Speriamo che non si ponga più il problema di sorprendersi perché un
artista italiano vale quanto un artista non italiano: questa mentalità è ridicola e
provinciale.
E ora che cosa farete? Continuerete il viaggio “on the road”?
Dopo 24.000 km alla media di ottocento al giorno e un day off ogni settimana,
possiamo rallentare e continuare “on the road” a ritmi più umani. Suonare dal vivo è
indispensabile per migliorare tecnicamente e affiatarsi, ed è un modo efficace per
farsi conoscere davvero da chi segue la musica e per creare con essi un rapporto
più duraturo dei soliti fenomeni che durano due o tre album. D’altronde non sarei in
grado di far altro... Stiamo lavorando per riuscire a gettare le basi di un tour
europeo. Poi ci sarà un nuovo album. E se spiazzerà le aspettative, tanto meglio!
Hamilton Santià
Contatti: http://www.franklindelano.org/
Cinemavolta
Grazie a un efficace mix tra indie-rock e new-wave, nel corso degli anni i
Cinemavolta da Montichiari (Bs) hanno destato l’interesse non solo degli addetti ai
lavori ma anche dei colleghi più affermati. In primis i Subsonica, che hanno voluto
pubblicarne il debutto, “Weekend”, per la loro etichetta personale Casasonica. Al
cantante e chitarrista Max Tozzi il compito di raccontarci come sono andate le cose.
Vuoi riassumerci brevemente le tappe che hanno portato alla realizzazione di
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“Weekend”?
L’album è nato in un momento di crisi dei Cinemavolta. Avevamo imboccato una
strada che non ci interessava più, e non trovando più stimoli abbiamo dovuto
prendere delle decisioni. È stato doloroso perché tali decisioni hanno portato a delle
defezioni, che forse però erano fisiologiche. Sentivo di dover iniziare a interpretare
le canzoni che scrivevo e per questo ho cominciato a lavorare seriamente sulla voce
e su un tipo di scrittura più mia. Ho composto una ventina di brani in inglese, ne
abbiamo registrati tredici e sono finiti su un cd autoprodotto intitolato “Mid-fi Life”.
Dopo qualche tempo mi sono trovato fisicamente in Casasonica a far sentire il disco
a Max Casacci, sempre molto disponibile con chi viene a proporre i propri demo. Ha
ascoltato il disco in silenzio, dall’inizio alla fine, poi mi ha guardato e mi ha detto:
“andiamo a berci un bicchiere?”. Da lì è iniziata ufficialmente la nostra
collaborazione con Casasonica.
Ecco, come vi siete trovati all’interno di una struttura giovane ma in un certo
senso già consolidata come Casasonica? Immagino che il fatto che sia gestita
direttamente da musicisti sia un grosso aiuto.
La cosa stimolante di Casasonica sta proprio nella sua contraddizione: è una
piccola e giovane etichetta, ma è gestita da persone che sono punti di riferimento
per la musica italiana. La sensazione che proviamo continuamente è quella di
essere in un posto in cui tutti stanno imparando qualcosa. Manca il “dogma” da
grande casa discografica e questo consente entusiasmo e passione.
E la collaborazione con Luca Ragagnin? Fra l’altro, avete effettuato anche
degli spettacoli dal vivo insieme.
Ho conosciuto Luca in un contesto differente, frequentando tempo fa un suo corso
di scrittura creativa. Dopo il fatidico “bicchiere”, Max Casacci mi ha chiesto di
pensare seriamente alla traduzione dei testi dall’inglese all’italiano. Per questo
abbiamo interpellato Luca, che collabora abitualmente alla stesura delle liriche dei
Subsonica. Non tutti i testi del disco, però, sono frutto di tale collaborazione: ne
restano quattro, oltre a “L’ultimo carosello dell’umanità”. Questo brano era già
apparso su un CD allegato a una storia della televisione in versi scritta da Luca,
“Videre leviter” (edizioni No Reply, 2004). Durante la scorsa estate molti sono stati i
contesti (da Arezzo Wave, al Bera Fest) che ci hanno visti accompagnare Ragagnin
nelle letture di brani tratti proprio da quel libro.
Avete incominciato cantando in italiano, poi siete passati all’inglese per poi
ritornare all’italiano. Che tipo di difficoltà hanno comportato questi
cambiamenti? A lingua diversa corrisponde un approccio diverso alla
scrittura?
L’inglese rappresentava una via di fuga da ciò che i Cinemavolta erano. Scrivere in
inglese facilita le cose sotto tutti i punti di vista: consente il mascheramento e
permette una scrittura perfetta per il rock. La difficoltà dell’italiano è legata non solo
alla presenza di suoni “inadatti”, ma anche all’inevitabile rapporto con una cultura di
riferimento che tende subito a farsi pesante. Ritornare all’italiano ha richiesto un
profondo lavoro che è andato ben oltre la mera tecnica di scrittura: ho dovuto capire
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cosa volevo dire e perché volevo dirlo in italiano. Solo a un certo punto del lavoro mi
sono accorto di quanto sia più onesto scrivere nella propria lingua. Onesto con se
stessi e con la propria tradizione. Ciò non significa che scrivere in inglese sia meno
creativo o più meschino. Credo solo che il problema andrebbe affrontato da tutti con
una maggiore consapevolezza, e sarebbe anche interessante aprire una querelle
sull’argomento, come si faceva quando dell’arte e della cultura importava ancora a
qualcuno.
Avete guardato a qualche modello particolare al momento di registrare il
disco? Come suoni, come atmosfere...
Devo subito contraddirmi: i nostri ascolti sono perlopiù anglosassoni. Non
nascondiamo il nostro interesse per il pop inglese (da Elvis Costello ai Blur) e per un
certo tipo di psichedelia americana (dai Grateful Dead ai Phish). Durante le
lavorazioni del disco giravano per lo studio un sacco di cose, dall’LP acustico di
Johnny Cash (quello con le meravigliose cover di NIN e Depeche Mode) ai Vines,
dagli Hives ai QOTSA. Insomma, cose molto diverse che in qualche modo hanno
contribuito a farci aprire le orecchie.
Il lavoro mi sembra molto curato nei dettagli. Quanto è stato difficile
concentrarsi sui singoli particolari senza perdere di vista la spontaneità del
tutto?
Difficilissimo. Lavorare a un disco avendo sin da subito a fuoco la forma che si vuol
dargli comporta un livello di attenzione impressionante. Paradossalmente, le idee
chiare in tal senso possono essere più deleterie di un lavoro fatto su un canovaccio
di massima. Credo che nel nostro caso il fatto di venire da un disco già abbastanza
strutturato - il cd con cui siamo entrati in studio - abbia rappresentato un elemento di
responsabilità in più per tutti. In studio abbiamo lavorato per dimostrare l’efficacia di
una produzione importante e al contempo per verificare di essere all’altezza di una
produzione di questo tipo. Non è stato facile, ma il risultato dimostra chiaramente la
concentrazione e l’ambizione di tutti.
Aurelio Pasini
Contatti: http://www.cinemavolta.it/
Mariposa
Dicono di fare musica componibile e in effetti, visto il caleidoscopio mobile di
linguaggi e riferimenti che sono in grado di innescare, è difficile trovare loro una
definizione più calzante: i Mariposa hanno avuto un 2005 ricco di iniziative
discografiche e non solo, ragion per cui ci è sembrato opportuno interrogare
l’ensemble di base a Bologna sui progetti in cantiere e sulle ultime produzioni. Ecco
le risposte del loro tastierista - e per l’occasione portavoce - Michele Orvieti.
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Alcuni mesi fa è uscito “Pròffiti Now!”, seguito da un album strumentale e da
uno con Timet. A tutto questo aggiungiamo lavori teatrali, uno spettacolo su
Syd Barrett, l'etichetta Trovarobato, opere radiofoniche... insomma, volete
accerchiare l'establishment cultural-musicale per farlo crollare sotto il peso
delle vostre produzioni?
Possiamo immaginare che, in un periodo come il nostro, dove è sempre più facile
produrre e diffondere musica, una sovrapproduzione di materiale sonoro possa
essere guardata con sospetto. D’altra parte, è ben lontana da noi l’idea di affossare
l’establishment, anche perché, se mai esistesse, sarebbe presieduto da Al Bano e
da Luca Dirisio, e comunque sarebbe totalmente ignaro della nostra presenza.
Piuttosto, le varie produzioni fanno riferimento a periodi molto diversi della nostra
attività. “Pròffiti Now!” è il nostro terzo disco di canzoni ed è nato per la triplice
necessità di mettere su supporto la gran quantità di materiale che ci stava nascendo
fra le mani, chiudere l’ideale trilogia iniziata con “Portobello Illusioni” nel 2000 e fare
almeno un disco doppio nella nostra vita. Lo strumentale “Nuotando in un pesce
bowl” è stato pubblicato a fine 2004, ma il materiale risale al 2001, quando Enrico
Gabrielli fu contattato, in veste di giovane compositore, da tale N.V. per un disco
ispirato alla tradizione napoletana. Enrico decise di lavorare con noi, ma, a lavoro
compiuto, di N.V. non se ne seppe più nulla. Il materiale è rimasto nei nostri cassetti
fino a che la Lizard si è fatto avanti per co-produrlo assieme a Trovarobato. Già da
un anno, però, era pronto il suo remix, “Metamorfosi di canzoni napoletane”, un
“remix adulto” operato dal compositore elettronico Lorenzo Brusci di Timet, che,
affascinato dagli strumentali del progetto napoletano, aveva deciso di trasfigurare
ulteriormente le nostre trasfigurazioni attraverso il mezzo elettronico. Per quanto
riguarda la pantomima di teatro e musica “Quanti sedani lasciati ai cani”, è stata
concepita addirittura nel 2000, su commissione dell’Ipercoop Setteponti di Arezzo
per i festeggiamenti del suo primo compleanno. Dopo numerose trasformazioni che
l’hanno vista diventare spettacolo da strada e atto unico teatrale con aggiunta di
canzoni e radiodramma, è approdata infine alla sua forma discografica in
collaborazione con Materiali Sonori. Infine, lo spettacolo “Il gatto di Barrett”,
concepito più o meno anch’esso cinque anni fa, un viaggio musicale, teatrale, visivo
all’interno della mente e dell’opera di Syd Barrett, giace ancora nei nostri cassetti,
anche se abbiamo la seria intenzione di riportarlo alla luce presto. Ho parlato
spesso di Trovarobato. Con questo nome noi vorremmo intendere tutto ciò che
facciamo attorno alla musica quando non suoniamo come Mariposa: una specie di
fucina, non una vera e propria etichetta, una possibile entità produttrice di “varietà
ed eventualità”, sotto forma di dischi, di trasmissioni radiofoniche, di festival e
quant’altro. Una factory, insomma, ma senza tirarsela troppo.
Il sottotitolo di Pròffiti Now! è "prima conferenza sulla musica componibile"...
La dicitura “musica componibile” può essere intesa sotto vari aspetti. Primo di tutti
quello meramente pratico: è la risposta più semplice alla difficile domanda “Ma che
musica fate?”. Forse il termine è nato proprio per rispondere a questa esigenza, ma,
come ci succede spesso, col passare del tempo si è rafforzato con ulteriori
significati. Abbiamo deciso di complicarci la vita andando a chiedere personali
interpretazioni del termine in questione a più di centoventi persone, non solo addetti
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ai lavori, ma anche scrittori, registi, amici, attori, bambini. Lo abbiamo fatto con un
intento molto ludico e con la più estrema libertà. Tutto questo materiale, tagliuzzato
opportunamente, è finito in “Pròffiti Now!”, mescolandosi alle canzoni, a volte
disturbandole, altre volte intervallandole, e in un certo senso siamo riusciti a metter
su l’immaginaria “Conferenza sulla Musica Componibile”. Tuttavia, nonostante i tanti
e lodevoli contributi, non siamo ancora riusciti a darne una definizione certa. Sarà
forse che, come ci ha detto Dario Borso, tutti gli aggettivi in “ibile” riguardano il
“possibile” perciò “componibile” non è una definizione. È indefinibile.
Prossimi progetti in cantiere?
Prima di tutto sentiamo la necessità di dare una forma ben definita alla Trovarobato.
Questo potrebbe tradursi in un piccolo periodo di sabbatico riposo. Nel frattempo
potremmo finalmente fare quei giorni di prova e di studio che stiamo rimandando da
anni. Per quanto riguarda l’etichetta, uscirà a fine estate il cd d’esordio del
cantautore padovano Alessandro Grazian, anche questa una coproduzione, questa
volta con la Macaco Records. Vorremmo assolutamente collaborare
produttivamente a un nuovo disco dei romagnoli Transgender, uno dei gruppi più
incredibili che ci siano in Italia. Vorremmo lavorare su un geniale percussionista e
sperimentatore elettronico, anche lui di stanza a Bologna, che si chiama Davide
Tidoni. Ma l’impresa forse più complicata sarà quella di rimettere in piedi una
compilation, registrata ormai nel 2001 e mai pubblicata dall’Erosha, dove molti nomi
appartenenti al fertile e purtroppo misconosciuto ambiente musicale bolognese
reinterpretano brani degli Stormy Six. Potrebbe essere l’occasione per ascoltare Ella
Guru, Stefano Zorzanello, Vakki Plakkula, Ossatura e altri nell’atto di trasfigurare
pesantemente lo storico gruppo prog al quale noi stessi siamo stati più volte
avvicinati. Un periodo di riposo molto relativo, dunque. Chiudo ricordando che Forza
Musica si presenterà compatta alle prossimi e elezioni e, se ci voterete, vi
promettiamo un consistente abbattimento dell’abbrutimento creativo tramite la
riduzione al 3% del cantautorato jazzettino di marca Cammariere, Carlo Fava e
compagnia. Buone musiche.
Alessandro Besselva Averame
Contatti: http://www.trovarobato.com/
Vega Enduro
“Big Time 25:33 p.m.” è il secondo album per i Vega Enduro, che hanno le idee
chiare su cosa stiano facendo e se la prendono comoda. Si divertono, insomma,
anche se il complesso evolversi di ogni frase delle loro nuove canzoni porta alla
conclusione che abbiano maturato una maggiore raffinatezza pop mantenendo
però, per fortuna, la loro leggerezza. E chissà se e quanto pesi il fatto che Giovanni
Ferrario, oltre a occuparsi nuovamente della produzione artistica sia divenuto
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membro effettivo del gruppo. Ne abbiamo parlato con Vittorio Carli, cantante e
chitarrista.
Rispetto al primo disco sembrate un po' meno d'impatto e di conseguenza
meno fruibili. Com'è cambiato il vostro modo di comporre?
In genere questa è la prima considerazione che viene fatta da chi, come te, ha
avuto modo di fare un raffronto tra i due cd. All'inizio la cosa mi sorprendeva,
considerando che personalmente non percepisco questo contrasto. Il fatto che ciò si
ripresenti puntualmente mi porta a credere che sia come dici. Quel che più mi
incuriosisce nelle reazioni di chi ascolta è che spesso emergono cose che
difficilmente avresti previsto. Per quel che riguarda il procedimento di scrittura, non
è cambiato. Prima lavoro al pezzo "grezzo": testo, melodia, linee principali di
chitarra; poi Giovanni e gli altri fanno sì che esso acquisisca la sua dimensione
definitiva.
Chi vi ha trasmesso la passione per la musica?
Ognuno di noi ha avuto "un'iniziazione" differente, chi didattica sullo strumento e chi
invece è partito ascoltando dischi e solo in seguito, da solo, ha iniziato a suonare.
Da parte mia, la musica ha da sempre accompagnato il mio percorso. Ho avuto la
consapevolezza di quanto la musica sarebbe stata importante per me quando a sei
anni, incuriosito da uno dei registratori a bobine Geloso delle mie sorelle maggiori,
ho ascoltato la colonna sonora di “Easy Rider”.
Cosa vorreste sentirvi dire dall'ennesimo ragazzetto che viene a parlarvi dopo
un concerto?
Il fatto che venga a esprimere il proprio apprezzamento è già di per sè gratificante.
Le vostre orecchie sono attente alle nuove uscite, o percorrere direzioni
blues come fate voi vi porta a sentire vecchi e consumati vinili?
Compatibilmente al tempo disponibile sono sempre alla ricerca di sonorità che
accompagnino i miei momenti; una cosa oggi non facile, ma insistendo si viene
ripagati. Ad esempio l'ultimo riscontro in tal senso l’ho avuto con gli Hidden
Cameras. Ciò non toglie che nei periodi di magra anche le cose già “digerite” tornino
a fare sentire la loro valenza o addirittura si vadano a riscoprire musica del passato.
Com'è avvenuta la preparazione del disco, e a quando risalgono i pezzi?
Le registrazioni sono iniziate all'inizio del 2004 nello studio casalingo di Stefano
Stefanoni in un cascinale sulle colline adiacenti il fiume Mincio e sono poi proseguite
a casa di Giovanni; il missaggio è stato invece fatto a Brescia nello studio di Marco
Franzoni e infine abbiamo masterizzato a Milano negli studi Eclipse. E poi Desvelos
a Cagliari, Macaco a Mestre e Shinseiki a Brescia sono state le etichette che hanno
fatto sinergia per la realizzazione del cd. Le canzoni sono state scritte nel 2003 e
durante le incisioni hanno assunto la loro forma definitiva.
Cosa pensate dell'altro cd uscito tre anni fa? Lo rifareste uguale?
La realizzazione di “Vega Enduro” ha avuto caratteristiche diverse in quanto la
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formazione non era quella attuale e sopratutto per il metodo di procedere, molto più
naïf rispetto a quanto fatto ultimamente. È proprio questo l'aspetto che lo
rende valido: il fatto che fotografi fedelmente il momento in cui è stato concepito.
Vi offendete se critico la vostra brutta copertina? Sotto il primo foglio ce n’è
una splendida, come molto belle sono anche le foto all'interno del libretto?
Quella foto di copertina, che piaccia o meno, non è fine a se stessa ma ha attinenza
con il titolo dell'album. "Big Time 25.33 p.m." è un'ora al di fuori del tempo, il
momento in cui tutti i tasselli del puzzle trovano la loro esatta collocazione. Perchè è
l'ora delle risposte, l'ora scoccata la quale possiamo toglierci l'elmo dell'armatura
che indossiamo, - è a questo che si riferisce l’immagine - perchè è arrivato il
momento in cui abbiamo finito di combattere la lunga battaglia contro noi stessi,
l'unica battaglia che si vince solo deponendo le armi. Perchè si decide di smettere di
difendersi; ed è proprio questa la cosa più difficile: "l'accettazione dell'altra volontà,
non tanto quella imposta dalla nostra coscienza ma da una legge intrinseca,
immutabile della nostra soggettività” (Sandor Marai); bisogna prepararsi al
momento. L'ostacolo principale che si frappone alla realizzaaione di questo
obbiettivo è il tempo limitato e forse non sufficiente che abbiamo a disposizione. Alla
luce di questo, forse, “Big Time" si rivela un'illusione, forse una volta intrapresa la
crociata contro noi stessi e indossata l'armatura non la togliamo più.
Francesca Ognibene
Contatti: http://www.shinseiki.it/
Snowdonia Records
Sempre più prolifica, più “unica” per scelta di artisti e predilezioni sonore all’interno
nel panorama indipendente italiano, la Snowdonia di recente ha sfornato la no-wave
cocente dei Larsen Lombriki e “Lo Zecchino d’Oro dell’Underground”, raccolta di
interpretazioni di piccoli “classici” dell’indie (o quasi indie) italiano da parte di
bambini e, del resto, operazione che bene incarna l’anima ludica dell’etichetta
messinese. I suoi due padroni di casa Cinzia Lafauci e Alberto Scotti raccontano qui
di seguito, in maniera “politicamente scorretta” quanto basta, lo spirito che anima la
loro “creatura”.
Mi sembra di capire che una delle parole chiave per Snowdonia sia "gioco".
Voi due giocate, vi piace che gli artisti "giochino": sbaglio?
Tutto dipende dal senso che si dà al termine. Uno dei comandamenti più irritanti del
mondo dello spettacolo recita che un artista non dovrebbe mai prendersi sul serio,
noi non siamo d’accordo. Ma anche qui bisogna intendersi sul concetto di “prendersi
sul serio”. Bono Vox che schiocca le dita per mandare i soldi in Africa sta “giocando”
col fuoco, per sua fortuna viaggia scortato, altrimenti qualsiasi essere umano di
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buon senso lo prenderebbe a ceffoni. Si gioca a fare i discografici in un contesto di
rifiuto, pressapochismo e apatia, si gioca a fare le rockstar. La vera tragedia è che
siamo tutti impotenti come bambini, nessun viagra può aiutarci. La nostra è una
moscacieca esistenziale.
I giochi, però, hanno quasi sempre delle regole. Quali sono le "vostre" regole
di etichetta o, per intenderci, cos'è per voi il gioco scorretto, quello che vi fa
proprio incazzare?
Ci fa incazzare molto il fatto che manchi il senso della comunità: troppi fili staccati,
troppa gente che senti ogni giorno quando c’è un progetto in ballo e poi non senti
più. Ci fanno incazzare quelli che usano i forum per sfogare le frustrazioni. Odiamo
quelli che pensano che la musica sia una faccenda di note in sequenza più o meno
logica (quello suona peggio, quello suona meglio, quello mi ha fatto ballare). Non ci
piacciono i giornalisti da catena di montaggio, quelli che il disco poi finisce in cantina
(oddio! C’è la rece da fare, cosa ha scritto Stefano Isidoro Bianchi?). In genere ci si
ferma al messaggio immediato, perchè non capisci il senso profondo delle cose? La
poesia nel rock’n’roll, l’aspetto malinconico di Alvaro Vitali, i proiettili sensoriali di
Pasquale Panella. Gli OfflagaDiscoPax fanno cagare perchè ci sono già stati i
Massimo Volume. La musica è troppo new wave, somigliano tanto ai CCCP.
Anche la citazione è una forma di gioco e mi pare di capire che le fonti di
ispirazione hanno un ruolo particolare nella "poetica" snowdoniana.
È assolutamente vero. Tutti noi abbiamo dentro un miliardo di immagini, suoni,
colori, suggestioni. A noi piace farle venire fuori, nell’illusione di rianimarle,
ricontestualizzarle, farle stridere, ostentarle. Il ricordo, la citazione è un fatto
sentimentale, ma anche una strategia politica. Si tratta di tirar fuori il coniglio dal
cilindro. La citazione è come un sale che si fa annusare a chi è svenuto.
Probabilmente siamo patetici, ne abbiamo consapevolezza, però crediamo che gli
esseri umani possano essere capaci di fare meraviglie, basta svegliarsi, lavarsi il
viso, andare.
La Snowdonia potrebbe essere lo strano frutto di un'amore della no-wave
nato sotto il sole messinese.
Sì, è vero: qualche volta, ascoltando i Contortions ci siamo immaginati a New York,
dentro un film di Abel Ferrara a trapanare le vittime, per rinascere puri. Poi ci siamo
accorti che i Tangerine Dream avrebbero potuto comporre “Electronic Meditation”
sul lago Maulazzo e che Palermo non è meno selvaggia e disperata delle metropoli
americane. La nostra ambizione massima è raccontare di noi, senza scadere in
osceni razzismi etnografici e castratori in stile Agricantus.
Mi pare che cerchiate il più possibile un certo compromesso tra esterofilia e
campanilismo sonoro: un equilibrio tra oltre-post-punk e cantato in italiano.
Ci interessa che ogni nostro gruppo in un modo o nell’altro parli di sé: non è
questione di pop, punk, rock, avanguardia, jazz o post punk. L’abilità sta nel far
proprie quelle forme, cucirsele addosso e riempirle della propria vita, dei propri
sogni, frustrazioni, allegrie, esperienze, ambizioni. Nessun musicista dovrebbe dire
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in musica qualcosa che si discosti più di tanto da quello di cui parla con gli amici o
da ciò che sogna quando si addormenta.
Immaginatevi un festival Snowdonia con due ospiti e un presentatore
d'eccezione, pescando tra quelli che avete sempre sognato di trovarvi davanti.
Suonerebbero, ovviamente, tutte le "vostre" band.
Buona sera (segue battuta che ammicca a quel particolare umorismo piccolo
borghese che sta a metà strada tra le barzellette della settimana enigmistica, il TG5
e gli scherzi pseudo nazisti da ufficio/Zelig). Sono il vostro Enrico Silvestrin, sono
molto alternativo, ho deciso che mi abbasserò le mutande (risate). Ecco a voi
Loredana Bertè! Ecco, sì, ho deciso, adesso lo ammazzo. Loredana uccide
Silvestrin e si mette a modulare suoni bellissimi con il suo naso (togliendolo dalla
faccia con un coltello dal manico di tartaruga). Peggio per te che hai tagliato i capelli
cretino! Qualcosa di buono esce dal corpo di Silvestrin, il corpo morto di un veejay
produce musica ok. W Loredana, scheggia impazzita! Si dia inizio ai concerti, con
calma però.
Marina Pierri
Contatti: http://www.snowdonia.it/
Scuola Furano
Qualcuno li ha definiti i Daft Punk italiani e per chi scrive sono la novità più
convincente del 2005. A fidarsi di loro, nelle tracce del loro primo, omonimo album ci
si scontrerebbe con “materiali ballabili, shakerati a furia dentro uno scatolone di
adolescenze collettive”. In realtà, “Scuola Furano” è un frullato di hip-hop
contaminato, house, elettronica da cameretta e suggestioni electro. Perfettamente in
sintonia con il catalogo di quella Riotmaker che, negli anni, ha prodotto perle del
calibro di Amari e Fare Soldi. Ne abbiamo discusso con Borut e Marco, i titolari del
progetto.
Come nascono gli Scuola Furano?
Ci conosciamo da circa dieci anni, ma è dal 2001 che i nostri rapporti hanno
incominciato a intensificarsi. Stanchi di ascoltare solo rap, e con la voglia di
approfondire altri panorami, ci siamo avvicinati "al dancefloor" a colpi di Superfunk,
Cassius, Artful Dodger e Dimitri from Paris. Il disco che ha sancito la definitiva svolta
è stato “Discovery” dei Daft Punk: da lì non solo abbiamo iniziato a "scavare" nel
genere ma anche a voler fare qualcosa,produrre e metterci alla prova. Partendo da
un lavoro durato tre anni,dove abbiamo raffinato sia i gusti musicali che la tecnica
produttiva, è uscito l'album.
Come siete entrati in contatto con la Riotmaker?
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Dopo le prime tre tracce,assemblate con un campionatore Akai 2800 e una versione
"old-skool" di Cubase, abbiamo consegnato il nostro unico ep con tanto di
packaging, foto e disegni ai ragazzi della Riotmaker, che conoscevamo di fama dato
la particolarità di una etichetta come la loro in Friuli.. Loro si sono subito
appassionati alle nostre prime produzioni sghembe, tracce french-house da sei
minuti con campioni tagliati male, e hanno creduto in noi.
A quanto pare, e credo voi siate l’esempio, anche in Italia è possibile
contaminare l’estetica elettronica con una credibilità pop...
Lo abbiamo sempre pensato. In realtà concepire un album di canzoni"house" che si
limitino a essere una raccolta di singoli in vinile destinati al mercato dei club e delle
discoteche non è mai entrato nei nostri piani. Nonostante proponiamo musica
facilmente "ballabile" - e non solo in cameretta - cerchiamo di darle dignità di
canzone pop: lunghezza contenuta in tre-quattro minuti, sviluppo di vari periodi
all'interno della traccia stessa, un taglio "adatto a tutti" insomma.
Il vostro immaginario è un frullatore di stimoli che arrivano dagli anni Ottanta.
Un atto d’amore o la semplice “devozione” a una moda che - a quanto pare inizia a eclissarsi?
Direi la prima. Amore per i "nostri" anni '80, quelli che non abbiamo mai vissuto
pienamente per evidenti ragioni anagrafiche ma dei quali siamo innamorati. In
particolar modo citerei tutto l'immaginario newyorkese di fine '70 e di prima metà
degli Ottanta, con i vari Keith Haring, Larry Levan, Basquiat, Grandmaster Flash... Il
percorso a ritroso che ci ha portato a scoprire queste figure ha dato una forte
impronta sonora al disco, quindi non mi sento di tirare in ballo mode passeggere;
anche perchè se si analizzano i cosiddetti "suoni anni 80" che tanto piacciono ora, ci
si rende conto che sono un recupero di sonorità spesso bianche ed europee
(new-wave, synth pop) mentre noi abbiamo spinto più per una certa “negritudine
inside”.
Quanto sono importanti i campionamenti nel vostro suono?
Per questo primo album tantissimo, compongono l'ossatura di quasi ogni pezzo.
Siamo sempre stati dei forti sostenitori del "sampling" ma soprattutto del "diggin",
della ricerca; infatti passiamo molte ore in mercatini, fiere e negozi dell'usato a
cercare vecchi dischi sconosciuti ai più. Abbiamo ereditato questa "impronta" dal
rap, dove la produzione delle basi è quasi sempre vincolata a dei campioni.
Purtroppo il rap di oggi non è modaiolo e va a pescare raramente nella old-school.
Ci sono realtà musicali italiane che sentite particolarmente vicine?
Oltre alla nostra etichetta ci piacciono particolarmente la Nature di Marco Passarani,
con Pigna rec. e Jolly Music al seguito, Stefano Fontana con il suo progetto
Stylophonic e Pinktronix da Bologna.
Come si articola un vostro set live?
In pratica c'è un laptop affiancato da un sintetizzatore e da una drum machine, più la
voce. Vengono rilette "in diretta" le canzoni dell'album con qualche inedito e qualche
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sorpresina...
Sembra che intorno al vostro nome si stia creando il giusto hype. Ve lo
aspettavate?
A dire il vero le nostre intenzioni erano quelle di fare un buon disco, apprezzato
dalla stampa di settore. E stato così, nella maggior parte dei casi, quindi siamo
soddisfatti. Poi è logico che se il nome gira non puo' che farci piacere, soprattutto
quando viene paragonato ad artisti da noi molto rispettati.
Credo che potreste lavorare ottimamente remixando brani di altri. Ci sono in
tal senso collaborazioni in vista?
È appena uscito il remix per Pinktronix di "Booty Sez", su Irma, in più ne abbiamo
preparato un altro per i Confusional Quartet all'interno di una raccolta di pezzi storici
della Italian Records edita da Mantra. Ultimamente stiamo terminando il remix per
un brano di Deda, ex Sangue Misto, che a sua volta ha remixato noi....
Cosa propone una vostra playlist?
È eclettica, va da Busy P a Stevie Wonder, passando per Roisin Murphy, Dj T,
MayFly e Chicken Lips...
Giuseppe Bottero
Contatti: http://www.riotmaker.net/
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