Numero Aprile `07

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Numero Aprile `07
Numero Aprile '07
EDITORIALE
Benvenuti a tutti al quarto appuntamento del 2007 con la versione on-line di “Fuori
dal Mucchio”, appendice e approfondimento dell’omonimo – e, lasciatecelo dire,
storico – spazio sul Mucchio Selvaggio cartaceo dedicato a quanto avviene in Italia
in ambito “emergente, autoprodotto, esordiente, sotterraneo, di culto”.
Anche questo mese, il sommario si presenta estremamente ricco: ventisei
recensioni, sei interviste e un live report. Abbastanza per fornire una fotografia –
mossa, certo, ma anche per questo rappresentativa – di quanto sta avvenendo in un
panorama musicale che ogni mese non cessa di stupire in quanto a quantità di
produzioni. Un tasto, questo, che ci pare particolarmente dolente, ma che quasi tutti
i mesi torniamo a premere; non per masochismo, però, ma perché, oltre che
inspiegabile ai limiti dell’assurdo, la cosa ci pare preoccupante. Possibile che nuovi
CD e, soprattutto, nuove case discografiche spuntino come funghi ogni settimana,
mentre i marchi più affermati – quasi tutti, per lo meno – sfornino senza remore
uscite su uscite che, bene che vada, arriveranno a vendere un centinaio o poco più
di copie?
Basiti di fronte a una situazione che ci pare contraria a ogni logica (e che presto
contiamo di approfondire come si deve), continuiamo comunque a svolgere il nostro
lavoro di ascolto e selezione con serietà, severità e rigore, in modo da separare il
grano dalla pula e presentarvi ogni mese il meglio che il “mercato” (le virgolette sono
d’obbligo) offre.
Fiduciosi di esserci riusciti, vi auguriamo ancora una volta buona lettura e,
naturalmente, buoni ascolti.
Aurelio Pasini
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Fuori Dal Mucchio è a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini - online at http://www.ilmucchio.it
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Ancient Oak Consort
The Acoustic Resonance Of Soul
Lizard/Audioglobe
Apparsi come per incanto nel lontano 1997 con un album pieno di stramba magia,
capace di mescolare rock progressivo, elettronica e folk, in un magistrale connubio
di antico e moderno, gli Ancient Oak avevano fatto perdere le loro mistiche tracce. Li
ritroviamo, con nome leggermente esteso, dopo un decennio, alle prese con un
lavoro che continua i temi dell’esordio; con un approccio acustico, come anticipa il
titolo, anche se non mancano variazioni sul tema. A dirigere le danze c’è sempre
Andrea Vaccarella, privo di criniera rispetto al passato, ma con l’immutata volontà di
dare panorama ad un suono che sappia donare emozioni, in un rimestare tra
leggende, fiabe, esoterismo e melodie di estrazione medioevale ma capace di
essere attuali. Il combo siciliano si avvale sempre del contributo di Bruno Rubino (il
batterista dei Fiaba) e della voce straordinaria di Simona Minniti, punti cardine di
una formazione allargata, ricca di ospiti, che offre cultura e talento, per un album
così lontano dalle banalità preconfezionate che circolano oggi (anche laddove
dovrebbe esserci fantasia) da apparire letteralmente un episodio quasi irreale.
Scorrono così le quindici tracce di questo “The Acoustic Resonance Of The Soul”, il
risultato è emozionante e si amplifica ascolto dopo ascolto. Dispiace solo che il
tentativo passato dei testi in italiano, sia stato accantonato a favore di un più
immediato inglese (www.lizardrecords.it).
Gianni Della Cioppa
Baby Blue
Baby Blue
autoprodotto
I Baby Blue fanno maledettamente sul serio, che la mission aziendale sia insegnare
alle nuove generazioni che cos'è il rock'n'roll o semplicemente lasciar deperire
queste strane forme di vita nel loro bagno primordiale fatto di mp3, consolle
giocattolo e abiti firmati. Una certezza maturata sin dal primo contatto con
l'omonimo EP della band toscana e rinvigorita dagli ascolti ripetuti cui abbiamo
sottoposto le sei tracce in esso contenute.
Il disco raccoglie diciotto minuti di materiale ruvido e gracchiante, rumoroso e
decisamente “suonato”, polveroso e vibrante come sa essere soltanto un vinile
sbatacchiato da un mercato dell'usato all'altro. Un sentire che prende a nolo gli
scambi urticanti dei Kills quando si tratta di costruire il dialogo serrato voce-chitarra
di "River"; lo stile scarno di Velvet Underground e White Stripes se l'obiettivo è
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mediare tra melodia e rumore ("Alligator"); i toni suadenti di P.J. Harvey quando al
timone c'è la voce di Simona Altavilla ("So Much"). È tuttavia il “vecchio” blues il
vero protagonista della musica dei Baby Blue, declinato in chiave garage, saturo di
dissonanze, intento a riciclarsi in accelerazioni improvvise e involuzioni strutturali,
perennemente in procinto di sciogliere i legacci del riff, racchiuso in crescendo
elettrici che lasciano senza fiato.
Nel giro di un paio d'anni la band si è aggiudicata il premio Fondazione Arezzo
Wave Italia come miglior gruppo, ha suonato nel second stage dell' Heineken
Jammin Festival e ha aperto per artisti del calibro di Paolo Benvegnù (qui chiamato
a co-produrre). L'impressione è tuttavia che ci si trovi soltanto all'inizio di una
parabola artistica destinata a riservare gradite sorprese (www.baby-blue.it).
Fabrizio Zampighi
Cut Of Mica
Finally It’s Friday
Green Fog/Venus
Nati dalle ceneri dei Toxic Picnic, gruppo dichiaratamente ispirato alle sonorità di
scuola Sub Pop, i genovesi Cut Of Mica hanno mantenuto dei primi la line-up a tre,
preferendo orientarsi, un paio di anni fa (atto di nascita del nuovo progetto), verso i
lidi ben più burrascosi della Chicago noise che ha dato i natali alla Touch And Go.
Se non abbiamo avuto occasione di sentire all’opera i Toxic Picnic, e quindi la bontà
dei risultati, possiamo dire con certezza che i loro successori hanno studiato con
grande dedizione la lezione dei maestri: diciamo gli Shellac in primo luogo, punto di
riferimento impossibile da raggiungere se parliamo di peso specifico ma
metabolizzato alla perfezione se ci mettiamo a parlare di attitudine, grado di
nervosismo e impatto. Ma anche realtà nostrane come Three Second Kiss, dei quali
paiono a tratti una versione più regolare, meno disarticolata e blues. È conciso il
minutaggio di questo “Finally It’s Friday”, poco più di mezz’ora per nove pezzi tra i
quali segnaliamo l’ossessiva “Murdered By TV Vanity”, tutta basso tellurico, chitarre
dissonanti e voce febbricitante, “S.A.R.”, che ospita la voce di Monica Lenti,
impegnata in un botta a risposta con il cantante e bassista Riccardo Pesare, la
calma inquieta spazzata via dalle rasoiate di chitarra di “Sailor”. E concisa risulta
essere pure la spartana eleganza dell’insieme. Indissolubilmente legati ai propri
padri putativi, questi Cut Of Mica ci paiono tuttavia assolutamente credibili e
autentici (www.cutofmica.com).
Alessandro Besselva Averame
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Diabolico Coupé
Diabolico Coupé
Beatference
Molte sono le cose ancora da sistemare, nei Diabolico Coupé; ma se la stoffa già si
intravedeva con gli EP passati, la convinzione che questi ragazzi di Macerata
abbiano stoffa con questo album cresce, cresce decisamente. Introdurre una
cantante poteva essere rischioso: l’effetto
gruppo-trip-hop-con-voce-femminile-e-strumentazione-pop (dagli Üstmamò ai
Madreblu, per intenderci) ha funzionato alla grande per un periodo breve ma poi è
diventato stucchevolezza, una scusa per dare vita a dischi gradevoli nei suoni ma
fondamentalmente senz’anima e senza sugo. Tanto per correre ancora più rischi, i
Diabolici flirtano pure con stilemi da aperitivo milanese, casse in quattro inserite a
sostenere cantanti melodici e atmosfere suadenti (“Metropoli” è un esempio in tal
senso); ma una naturale leggerezza e ispirazione nelle trame e negli arrangiamenti
fa loro sempre evitare la trappola del palloso e del dolciastro insipido. Le dieci tracce
dell’album scorrono quindi davvero bene, non infastidiscono mai, e hanno anzi
punte di eccellenza come la strumentale “Remove All Boxes”, dove si osa e
nell’osare non si cade. Dicevamo che ci sono ancora cose da mettere a posto:
qualche suono un po’ acerbo, qualche batteria francamente troppo legnosa (che
affiora già nella traccia iniziale, “Immagini”). Ma sono tutte cose che si possono
mettere a posto. Ciò che conta, ovvero un talento e una forza d’idee di fondo, c’è.
Siamo molto curiosi di sentire le mosse successive del Diabolico Coupé. Se questo
album è un punto di partenza e non un punto d’arrivo, avremo di che essere
soddisfatti (www.diabolico.net).
Damir Ivic
Elettronoir
#102006
autoprodotto
Debbo ammetterlo, gli Elettronoir mi sono passati sotto il naso: trascurati, sfuggiti
via, relegati lontano migliaia di chilometri; invece vivono a un tiro di schippo da dove
abito e lavoro. Il loro primo CD era là sullo scaffale tra gli Elettrojoyce e Sergio
Endrigo; sono dovuto andare a riprenderlo per espiare la superficilità con cui lo
ascoltai un paio d’anni fa. A scatenare il mio rimpianto è stato il nuovo EP del
quartetto romano, che ho promesso di recensire ancor prima di inserirlo nel lettore.
Una voce potente ed espressiva, un ritmo intrigante e arrangiamenti ben calibrati,
tra chitarre mai troppo rumorose e una buona dose di elettronica, hanno subito
fugato ogni pregiudizio, rivelandomi in un batter d’occhio la bontà del CD e il talento
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di questa giovane band.
Mentre mi godo le atmosfere new wave di “Laika” e “Sciarti”, colgo influenze che
partono dagli anni 80 e arrivano sino ad oggi, seguendo la strada di certo pop rock
d’autore capace di innalzare la più semplice forma canzone ad emblema epocale,
dall’Enrico Ruggeri di “Polvere” a ai Baustelle dei giorni nostri. Tra i cinque brani
racchiusi nel CD spiccano anche due cover: “Memorie di una testa tagliata”, che
rende giustizia ai C.S.I. che furono, e “Mondo folle”, riadattamento in lingua nostrana
di un celebre successo dei Tears For Fears (www.elettronoir.it).
Fabio Massimo Arati
Folco Orselli
MilanoBabilonia
LifeGate/Venus
Il diluvio di tastiere vintage delle Officine Meccaniche di Mauro Pagani è in buone
mani. Nelle mani di un’anima soul che si aggira per le strade lucide e scure di
Milano. Notturno e apocalittico, è Folco Orselli. L’inquietudine negroide già ci saluta
dalle note iniziali de “La fine del mondo”, con un’implacabile chitarra a sirena.
“Arrivan di notte” è costruita ritmicamente per sembrare dispari e inciampante dispettosa - anche se non lo è. “Brazil” è America latina lubrica e goliardona; bel
testo, ma un po’ accademica “Il crogiolo”, che si tiene troppo accostata al
canone-Buscaglione. Quando osa di più Orselli mostra di avere numeri da
sommare, come nella visionaria e iterativa “La cera squaglia”. O come in “La
spettacolarietà”, bluesy e sporca, dai suoni abbrustoliti e ruminanti. Il catalogo è
riassunto nell’ottimo rhythm & blues di “MilanoBabilonia”, molto molto groovy, con
Wurlitzer e Hammond, e i fiati da inseguimento. Lo scenario del 2000 è composto
da modelline fatte e ignoranti, neo-senegalesi (che hanno soppiantato i marocchini),
buttafuori, e da chi “di notte va a mignotte poi vota Berlusconi”. L’allegoria marinara
“Jack Tar” è per metà col freno a mano, poi si apre a sorpresa ariosamente tra la
luce sopra di noi e l’abisso verticale. Bel ritratto fosco di perdizione “Jimmy Corea”,
dedicato a un artista alcolizzato, finito tra miseria e libertà, che picchia gli accordi
per terra, sul parco, mentre immagina il piano (www.folcoorselli.it).
Gianluca Veltri
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Funkallisto
Live a Ponte Sisto
Express Yourself/Goodfellas
Per chi scrive, Roma è la città più bella del mondo. Un posto assurdo, di una
bellezza sfolgorante certo e di una storia che ti piomba addosso e ti lascia a bocca
aperta – ma questa è la scoperta dell’acqua calda. Il vero fascino nascosto di Roma
sta in tante piccole cose che ti accadono attorno, anzi, che ti accadono addosso
quando cammini in giro. Avremmo da raccontarne a migliaia. Una di queste era che
allontanandosi o avvicinandosi a quella bolgia serale che è Trastevere, passando
per Ponte Sisto era facilissimo imbattersi a metà ponte in gente che suonava. Nulla
di straordinario, direte, di buskers è pieno il mondo. Vi sfidiamo però a trovare una
situazione in cui vi trovate di fronte non i peruviani, non qualche cantante folk, non
qualche (valida) orchestrina jazz ma una vera e proprio funk band con tutti i crismi
(e con gli strumenti appoggiati tutti sui sampietrini della pavimentazione del ponte).
Tutti i crismi, e un sacco di abilità: e che questa nostra impressione non fosse
dettata dalla magia della bellezza di Roma e di qualche bicchierino di troppo
trangugiato a Trastevere è confermato da questo CD, che immortala su supporto ciò
che per tutta un’estate era possibile vedere sul ponte. Funk anni 70 di pregevole
fattura. Pare di essere ripiombati indietro ai tempi nascenti dell’acid jazz, quando
tornavano all’improvviso in giro persone vogliose di ridare vita tanto ai Meters
quanto agli Headhunters. I Funkallisto lo fanno in maniera non scolastica ma
creativa, pur restando nell’ortodossia funk. Basta sentire il servizio che fanno a
“Cissy Strut” dei Meters e a “World War IV” degli Antibalas per restare conquistati.
Insomma, compratevi anche voi questa cartolina da Ponte Sisto: per avere un
tangibile ricordo della funk-apparizione che vi si è messa davanti una notte
dell’estate scorsa se questo vi è successo, o per immaginare l’effetto che faceva (
www.funkallisto.net).
Damir Ivic
Fuzz Orchestra
Fuzz Orchestra
Wallace-Bar La Muerte/Audioglobe
Black Sabbath, Ennio Morricone e Neu!: qualsiasi musicista sarebbe sfacciato a
citarli tutti e tre assieme tra le proprie influenze; non la Fuzz Orchestra. Finalmente
un gruppo rock, potente, incazzato e fuori dagli schemi! Marco Mazzoldi, Luca Ciffo
e Fabio Ferrario li conosciamo già da diversi anni, perché costituiscono tre quarti dei
Bron Y Aur. Per fortuna si sono presi un periodo di vacanza, hanno messo da parte
gli abusati estremismi sperimentali della scena milanese ed hanno riattaccato la
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spina. L’omonimo CD che segna il debutto di questo nuovo progetto è tutto un
vibrare di corde e pelli, fervore elettrico che si manifesta in sinistro disagio
(“Transport”), in furore collettivo (“Omissis”), se non in pura e semplice liberazione
interiore (“Eclisse Fuzz”). Ovviamente il retroterra avanguardista da cui muove il
terzetto garantisce alcune soluzioni estrose, mantenendo a debita distanza lo
standard tradizionalista del power trio: puzzle rumoristi e giochetti minimali,
campionamenti ed effetti analogici – che pure esternano il risvolto tematico
dell’opera – convivono in perfetta armonia con la selvaggia caparbietà dei fuzz.
Attendiamo di vederli dal vivo, convinti che tanta energia non possa essere relegata
soltanto in cinque pollici scarsi di plastica (www.wallacerecords.it).
Fabio Massimo Arati
Gianluca Becuzzi - Fabio Orsi
Muddy Speaking Ghosts Through My Machines
A Silent Place
A seguito del suo “Osci”, uscito esclusivamente su vinile un paio d’anni fa, Fabio
Orsi ha inaugurato pochi mesi orsono – assieme ai My Cat Is An Alien – una collana
di opere sinergiche per il marchio A Silent Place (etichetta figlia della Small Voices,
dedita a certa sperimentazione folclorica d’impronta psichedelica). Al finaco
dell’artista pugliese c’è oggi quello stesso Gianluca Becuzzi che aveva prodotto il
suo elleppì di esordio. Tra i due è nata una cooperazione fondata sulla reciproca
stima e alimentata da una stimolante dicotomia espressiva: da un lato la ricerca
elettronica dell’ex Limbo, i cui più recenti progetti – sia da solista che come Kinetix –
sconfinano in un esasperato sperimentalismo minimale; dall’altro il mondo rurale di
Orsi, fatto di registrazioni in presa diretta, canti e voci raccolti nei campi, suoni della
natura e chitarre acustiche, così grezze e dissennate da riportare alle più antiche e
profonde radici del blues. “Muddy Speaking Ghosts Through My Machines"
racchiude una musicalità sottile e incantata: armonie appena accennate, piccoli
tasselli di un fluire sonoro che rimane nell’aria, come la presenza di un fantasma. Né
la collaborazione tra i due musicisti finisce qui: da poche settimane un’altra loro
opera – “The Stones Know Everything” – ha visto la luce per una piccola label con
base in Oklahoma: la Digitalis Recordings (www.asilentplace.it).
Fabio Massimo Arati
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Gionata
Si può essere un’alba
Eclectic Circus-V2/Edel
Ci eravamo imbattuti nel nome – e nella musica – del ticinese Gionata Zanetta in
occasione dell’uscita del suo esordio, “Mi sono acceso”, pubblicato nel 2001 da
Sonica Factory e co-prodotto da Gianni Maroccolo: un lavoro esplosivo e
multicolore, che metteva in luce una personalità fuori dagli schemi e ricca di guizzi
interessanti. Ritroviamo il cantautore svizzero in occasione del suo terzo album a
proprio nome (senza contare compilation e progetti paralleli), che aveva visto la luce
una prima volta nel 2005 per il solo download e che ora, grazie alla Eclectic Circus,
trova la via anche dei negozi italiani. E quello che oggi abbiamo davanti è un artista
maturato, meno propenso agli scarti inaspettati e più introspettivo, ma sempre in
grado di scrivere, cantare e arrangiare canzoni di buon livello. Spostato l’accento
dall’elettronica (comunque presente in veste di occasionali battiti sintetici, bassi
gommosi e sintetizzatori più o meno vintage) a un indie pop-rock elettroacustico,
Gionata si dimostra tessitore abile di trame avvincenti, in cui gli intrecci tra corde e
tasti mettono ancora di più in risalto melodie ben congegnate e testi che riescono ad
affrontare temi anche scottanti (“Niente di giovane dietro una droga”) senza quasi
mai cadere nella trappola dei luoghi comuni. Un album ricco di sfumature e stati
d’animo, divertente nei brani più ritmati (“Vorrei essere la moda”) e introspettivo e
sentito in quelli più lenti (“Chi ci orchestra?”, la notevole “Per Milla”). Ed è proprio nei
momenti più notturni e intimistici che, a parer nostro, “Si può essere un’alba” ha le
sue armi migliori. Una conferma piena (www.gionata.net).
Aurelio Pasini
Goad
In The House Of Dark Shining Dreams
Black Widow/Masterpiece
Attivi da cinque lustri e capaci di sviluppare una discografia ampia, seppur non
continua, di raccogliere consensi ed entusiasmo (ovviamente limitato a un pubblico
di nicchia), con alla spalle numerosi concerti e quindi meritevoli di ritagliarsi nel
tempo il ruolo di piccola grande leggenda dell’underground, meglio se di taglio dark
rock. Ma tutto ciò non è bastato ad evitare il rischio di una fine prematura: nessuno
infatti sembrava interessato al ritorno dei fiorentini Goad. Molto triste se pensiamo
alla paccottiglia di estrazione dark che circola sul pianeta. Inevitabile quindi che,
prima o poi, le strade della Black Widow e dei Goad si incontrassero. Troppo vicine
e simili le filosofie, ovvero stupire, depistare l’ascoltatore, dimostrare che esiste un
percorso diverso dalle mode, dalle banalità del finto alternativo, un rock che sa
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essere classico e futuribile allo stesso tempo. Un obiettivo che i fratelli Maurilio e
Gianni Rossi, anime dei Goad, hanno fatto proprio sin dai primi passi. In questo
senso, se escludiamo una copertina dal tratto anonimo, questo “In The House Of
Dark Shining Dreams” è l’ennesimo passo in avanti della band, che ha nel proprio
DNA echi di space rock, di progressive e dark rock (in scaletta “Killer” dei Van Der
Graaf Generator e “21st Century Schizoid Man” dei King Crimson, oltre a nove pezzi
originali sulla stessa linea), il tutto distillato con una propria filosofia, sia lirica che
musicale, non sempre così lucida e semplice da illuminarsi con un ascolto distratto,
ma entrare pazientemente nel mondo dei Goad, vuol dire crescere e conoscere
nuove prospettive. Vale la pena accettare la loro sfida (
www.myspace.com/goad2006).
Gianni Della Cioppa
Le Man Avec Les Lunettes
Le Man Avec Les Lunettes?
Zahr-MyHoney/Audioglobe
Che molti gruppi della scena indipendente nostrana siano da anni impegnati a
cercare una convincente formula pop in grado favorire aperture verso l’estero, non
tanto per motivi commerciali quanto per il semplice bisogno di vedere legittimato e
riconosciuto un percorso che in patria concede pochissime soddisfazioni, non è un
mistero. Che siano in pochi a raggiungere con autorevolezza un tale obbiettivo non
è, ugualmente, un mistero, ma quando ci si imbatte in un disco come questo,
raccolta di vari singoli e brani sparsi pubblicati da questo trio bresciano tra il 2004 e
il 2006, magari non si grida al miracolo ma si pensa che l’obbiettivo sia
abbondantemente a portata di mano, tanto più che il gruppo ha già fatto circolare il
proprio nome oltre confine. Una pigra indole beatlesiana da domenica pomeriggio
(ma con qualche incursione nell’attiguo giardino dei fratelli Davies), immersa in
suggestioni vittoriane e ricordi lontani di Swinging London, con qualche inserto che
sa di sunshine pop californiano e una scelta di strumentazione che sembra fare
riferimento ad una sorta di “psichedelia da rigattiere”, con tastiere vintage e antichi
sintetizzatori ad affiancare chitarre e batteria: questo, per sommi capi, il contenuto.
Nel dettaglio non crediamo di esagerare dicendo che canzoni come la formidabile
doppietta iniziale “Sybil Vane” e “Agin Again”, il vaudeville di “The Dogsitter” e la
soprattutto la conclusiva “Victorian Swimming Pool” sono magnifiche. Il resto è
semplicemente eccellente (www.lmall.it).
Alessandro Besselva Averame
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Luca Urbani
ElectroDomestico
Discipline/Venus
Era il 1998 quando i Soerba diedero alla luce il tormentone “I Am Happy”, un
concentrato di techno-pop tanto leggero quanto orecchiabile. Nove anni dopo,
terminata quell’esperienza, ecco arrivare l’esordio a proprio nome di una metà del
duo lombardo, Luca Urbani. Che, almeno per sommi capi, non si discosta troppo
dall’ambito stilistico della band: un pop dalle fortissime connotazioni sintetiche che,
senza voler tirare in ballo Franco Battiato, potrebbe essere collocato sulla falsariga
Garbo-Bluvertigo (non a caso, allora, il primo e Andy dei secondi figurano qui in
veste di ospiti). Per sommi capi, pèrò, si diceva, perché a guardare più da vicino
qualche differenza c’è, e neppure da poco: nei suoni, più curati e meno solari, e nei
testi, che abbandonano il disimpegno e affrontano tematiche più mature e
intimistiche, personali e universali insieme. Ed è proprio qui che “ElectroDomestico”
mostra qualche crepa, perché brani come “Festa borghese”, “Top Song” o “Il mondo
è uno slogan”, pur essendo indubbiamente figli di una urgenza e un disagio in tutto
e per tutto sinceri, si muovono un po’ troppo sul ciglio del luogo comune per non
cadervi di tanto in tanto. Detto questo, non si può comunque negare la discreta
solidità – musicale e melodica – di alcuni dei brani in programma, dalle aperture del
ritornello di “Quanto basta” all’amarezza travestita da allegria di “Un mese all’anno”
fino alla notturna “Intorno”, conclusione e momento più interessante della scaletta (
www.karusonet.com).
Aurelio Pasini
Mariposa
Best Company
Trovarobato/Audioglobe
Naturale per i Mariposa, al di là della professata fede nei confronti del concetto di
musica componibile da loro stessi ideato, misurarsi con le cover, visto il loro
comprovato eclettismo di fondo, una miscela di perizia strumentale e indole dadaista
unica in Italia. Non stupisce affatto, quindi, che l’ensemble di stanza a Bologna
abbia deciso di dare alle stampe una antologia di brani altrui incisi nel corso degli
ultimi sei anni. Alcuni li abbiamo potuti sentire in compilation di vario tipo (tra gli altri,
“Un’idea” di Gaber e “Monti di Mola” di De André dai rispettivi tributi allegati al nostro
Extra), un paio di episodi, lontanissimi all’apparenza ma entrambi scelte inevitabili
se stiamo a sviscerare il complesso DNA del gruppo, sono stati registrati durante i
primi giorni del 2007: si tratta nello specifico della struggente resa di una delle
canzoni più malinconiche di Enzo Jannacci, “Si vede”, con le tastiere e la voce di
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Alessandro Fiori che si rincorrono a strappi su un tappeto di spleen da periferia che
si taglia con il coltello, e di un frammento (“Oily Way/Outer Temple/Inner Temple”)
da “Angel’s Egg” dei Gong, filologicamente fedele allo space rock surreale,
progressivo e zappiano dello storico gruppo di Daevid Allen. Tra questi due estremi,
di tutto: una geniale rilettura di “Ob-la-di Ob-la-da” dei Beatles con tanto di
campionamento da film di Bud Spencer, una “Male di miele” (Afterhours) tra
l’infantile e l’elettropop, una bella versione de “L’apprendista” degli Stormy Six. Da
avere. Anzi: avercene, di gruppi così (www.trovarobato.com).
Alessandro Besselva Averame
Merci Miss Monroe
Some Minor Crimes
Ghost/Audioglobe
Non c’è niente da fare: al punk degli anni giovani è difficile scappare, anche quando
si decide di abbandonare un ambito che incomincia a stare stretto e ci si impegna a
metabolizzare più complesse lezioni e a proporre qualcosa di nuovo. E tuttavia, nel
caso dei varesini Merci Miss Monroe la persistenza – meglio, il riemergere – di
determinati modelli non è affatto un male. Anzi, in questo nuovo lavoro il quartetto
lombardo irrobustisce il proprio power pop di matrice indie con un tiro più potente e
con chitarre più rumorose, incrementando l’efficacia di quella che già nell’omonimo
esordio del 2004, su Ghost Records come questo nuovo episodio, ci era parsa una
buona vena compositiva, con un non comune senso della melodia ad emergere
come carattere predominante. L’immediatezza è ancora una volta il punto di forza
dei quattro, che si esplica in canzoni come la punkeggiante e nevrotica “Gang Of
Blondes”, una “St. Valentine’s Day Massacre (Some Like It Hot)” che ha incedere e
coretti che fanno venire in mente gli Weezer, una appiccicosissima “Permanent For
A While” che ti si pianta in mente almeno quanto la oscillante “Girls In Krakow” e le
sue chitarre wah wah e il momento scanzonato (con slide guitar e kazoo), da party
in spiaggia, di “At The Dawn Rendezvous”. Difficile parlare di originalità nel caso di
un disco come questo, e di certo non perché è un disco italiano. Molto meglio
parlare di buon artigianato power pop. Niente di più, ma soprattutto niente di meno (
www.mmmonroe.com).
Alessandro Besselva Averame
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Plastica
Plastica
Sferica/Self
Qualche volta fare le cose per bene diventa controproducente. Perché evidenzia
maggiormente ciò che ancora non va. Suonano bene, i milanesi Plastica, mettono
insieme poi anche un contributo di Marco Messina (ex 99 Posse, uno dei fondatori
della ottima Mousikélab) alla produzione e un mastering che viene effettuato niente
di meno che all’Exchange di Londra. Mica cose da poco. Il disco quindi ha un suono
inappuntabile, è rifinito nei particolari, è pulitissimo… ma tutto questo, purtroppo, è
controproducente. Perché i Plastica hanno dei problemi costitutivi alla base:
vorrebbero essere i Bluvertigo o i Subsonica (questi riferimenti in pezzi come “Blu”
sono veramente palesi), ma hanno nelle loro corde una scrittura costitutivamente
pop da Sanremo. Il risultato finale è che invece di suonare come Morgan e soci o
come la perfetta macchina di hit&qualità targata Casacci&C., pare di sentire Mango.
Che di tutti i sanremesi, magari è anche uno dei meno disprezzabili (provate a
pensare agli altri); ma è pur sempre Mango. Pop melodico italiano, italianissimo,
stucchevole spesso, e anche l’uso dell’elettronica si adegua a questo andazzo o ne
viene infettato. C’è poi un altro problema alla base nei Plastica: la voce. Dovrebbe
essere stilosa, misurata, è invece inutilmente viva, eccessiva. Insomma: da un lato
apprezziamo l’etica del lavoro e la ricerca della qualità che sta alla base di questo
CD; dall’altro, ci spiace dirlo, l’impressione è che qua non si vada da nessuna parte:
è inutile chiamare in causa Marco Messina (o Carlo U. Rossi, di rimbalzo), è inutile
andare all’Exchange, se poi si ha il pop italiano più scontato nelle vene. Anzi, non è
inutile: è peggio (www.spazioplastica.it).
Damir Ivic
Presi per Caso
Delinquenti
Musica Made in Biella/Goodfellas
I Presi per Caso, sono un gruppo aperto, nato all’interno del carcere di Rebibbia.
Doveva essere un passatempo per sopravvivere alla vita carceraria e invece è stato
molto di più, perché chi vi ha partecipato si è donato sinceramente. La musica
diventa una zattera di salvataggio in un mare in tempesta: un mare agitato che si
placa grazie a questa nuova speranza per evadere attraverso le note. Splendide
canzoni intrise d’amarezze, ma raccontate con una sorprendente ironia. Salvatore
Ferraro canta, suona la chitarra e scrive i testi, a parte “Il tempo della prigione” che
è stato donato al gruppo dal poeta Alessandro Hellmann. “Delinquenti” è il loro
secondo album, visto che avevano debuttato con il resoconto su CD di un musical:
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“Radiobugliolo”, ideato dallo stesso Salvatore. C’è del talento in tutto questo che
aiuta ancora di più a delineare gli spunti dei racconti, trasformare le angosce in
poesie/canzoni e a sfogare il proprio dolore, alla maniera di qualunque crooner. Con
“La macchina del capo” descrivono le regole per compiere una rapina; “Canapa
blues” è un vero inno alla canna libera dal punto di vista di un sognatore; “Cristo
gospel” è una preghiera con rimprovero sulla propria condizione in chiave davvero
gospel, assolutamente splendida; “Scacchi ner cielo” è il senso di claustrofobia di
trovarsi al chiuso. Super ospiti: Rodolfo Maltese e Francesco Di Giacomo del Banco
del Mutuo Soccorso. Un disco che potrebbe essere accostato per musicalità e
intenti a Elio e le Storie Tese, ma con un male di vivere che accentua per forza di
cose la poesia (www.presipercaso.it).
Francesca Ognibene
Replace The Battery
Replace The Battery
In The Bottle
È pazzesco notare come basti aggiungere una linea di voce e una struttura “a
canzone” (strofa-ritornello e tutto il resto) per rendere un brano potenzialmente
post-rock in una canzone shoegaze. Questa non vuole essere una critica, anzi. In
una scena indipendente che ha ormai scopiazzato lo scopiazzabile, l’ennesimo
disco puramente post-rock sarebbe stato nulla più dell’ennesimo lavoro di cui non
sai che fartene. Insomma: basta post-rock! Ecco perché i Replace The Battery
costruiscono canzoni che, nonostante paghino un’influenza fin troppo palese verso
certi gruppi degli anni 90, riescono ad affascinare e piacere senza troppe remore e
buonismi di sorta. Questo loro esordio omonimo di quattro canzoni si apre con
“Run”, melodia soffusa, chitarre shoegaze ed atmosfera dream-pop tra Cocteau
Twins e Slowdive. “Your Tears” è invece più elettrica e satura, avvicinandosi a certe
dilatazioni psichedeliche care agli oxfordiani Ride mentre “Glass”, l’unico pezzo
puramente strumentale, ricorda il background della band caro a gruppi come
Mogwai ed Explosions In The Sky. Non male per essere un pezzo post-rock già
sentito milioni di volte, però. Chiusura dedicata a “Black Rain”, unica composizione
vagamente pop per durata – 3.52 contro i 6 minuti di media degli altri episodi – che
per struttura, che ricorda gli ultimi Giardini di Mirò ed è semplicemente una canzone
pop dilatata molto molto avvincente e, sì, bella. Degna chiusura di un esordio da
scoprire. Trovassero la loro personalità nelle pieghe di questo sound, potrebbero
essere una nuova punta di diamante (www.replacethebattery.net).
Hamilton Santià
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Rudy Marra
Sono un genio ma non lo dimostro
Alabianca/Warner
Quarto lavoro per l’emiliano-salentino Rudy Marra, che torna con la sua “sopa”
-letteralmente: “zuppa” - a confermare la volontà di mescidare gli stimoli e i sapori.
Marra si propone come eclettico moralista-battitore libero, alternando la delicatezza
perentoria di “Quello di cui ho bisogno” e il flamenco naufrago (con canto alticcio) di
“Viaggi naufragi e salvataggi”, allo stile andino-mex della title track, con charango,
trombe e cavaquiño, una sorta di combat di contrabbando e spiccioli di
filosofia di sopravvivenza. Rudy con voce roca e ragnosa srotola un talkin’ con sotto
tappeto funk (più o meno nu) in “Trompe l’oeil” (“Facciamo finta che un giorno mi
sveglio e dico quello che voglio”), in stile Celentano. “Barricate” espone, in
un’atmosfera ispano-americana sandinista, una serie di giustificati motivi d’allarme
che hanno “sbarrato il passaggio al cuore del mondo razionale”; “L’uomo mosca” ha
il disincanto lirico di un Fossati (a proposito: co-direzione artistica di Stefano
Melone), mentre “L’ombra” fa convivere un impasto ritmico giocattoloso alla B-52’s
ad atmosfere nere d’antan (“sparale/ sparale in faccia”).
Il “genio” è parafrasato in copertina: è Marra calato nel self-portrait di Van Gogh. La
dinamica tra disprezzo del mediocre e incomprensione solitaria è ripresa anche
nella scrittura scura di “Theo e Vincent”. Ma Rudy poi spiega, più in là, la chiave di
volta. Quando canta “basterebbe il buon senso”: ecco la vera genialità (
www.rudymarra.it).
Gianluca Veltri
Spanish Johnny
JokerJohnny.II
autoprodotto
Con leggero ritardo, qualche mese fa ci eravamo occupati dell’ottimo esordio di
questi bresciani Spanish Johnny, ed ecco, non senza un briciolo di sorpresa, che li
ritroviamo alle prese con questa seconda prova. Va detto: non una band di primo
pelo, vista l’esperienza dei protagonisti, che affondano radici disparate, dal rock
progressivo dei settanta al rock stradaiolo, ma il tutto è rivisitato con intelligenza e la
giusta attitudine. Il punto di riferimento rimane comunque quel Bruce Springsteen,
che ha ispirato il nome della band e di cui rileggono con fare ruvido e polveroso il
classico “Born In The U.S.A.”, qui proposto come se uscisse dal megafono di una
prigione. Ed è proprio questo suonare disilluso e senza meta che è il comune
denominatore dell’album: se nel debutto la via da seguire era una lingua di asfalto,
piena di seduzioni, qui si esce dalla strada madre e si entra in sentieri di polvere,
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privi di indicazioni se non il sole e qualche raro viandante. L’America degli sconfitti,
tema sfruttato verrebbe da dire, che qui rappresenta una metafora di tutte le
disuguaglianze del mondo. Non sempre convince il cantato in inglese mentre i pezzi
in italiano, alcune volte, paiono davvero di alto livello. La dimostrazione sta in “Io
personalmente”, l’inno “La tua rivoluzione” e la stupenda “Assenza di tempo”
impreziosita da una voce femminile. In chiusura, vagamente alla Tom Waits, una
splendida e tenue “R’n’R Funeral”. Un presagio? (www.spanishjohnny.it)
Gianni Della Cioppa
Tarick1
Il dischetto rosso di Tarick1
Green Fog/Venus
Tanto è improbabile il nome d’arte scelto (ma nel contesto del titolo non ci pare
affatto male) quanto è divertente il contenuto di questo album, inattesa escursione
della Green Fog in campo elettronico. Dietro ad un nome si cela sempre un uomo,
in questo caso il genovese Andrea Calcagno, ex tastierista dei Laghisecchi e poi dei
Numero6, DJ sui generis in quanto la sua creatura, i cui passi solitari sono puntellati
da basso di Pietro Bosio, dalle percussioni di Stefano Piccardo e Giorgios Avgerinos
(anch’essi ex Laghisecchi) e dalle tastiere di Clara Grignaschi, lambisce la dance –
versante electro – ma preferisce in più di una occasione prendersene gioco con
abbondanti dosi di ironia, a partire dai frammenti vocali che attraversano te tracce.
Un distacco che però non ci sembra mai intellettualistico, visto che i brani pompano
davvero, e non hanno nessuna intenzione di prendersi su serio nella loro opera di
demolizione di certi luoghi comuni del dancefloor. E più che un punto di vista
indietronico sulla questione (qui di indie c’è poco, se non il background dei
personaggi coinvolti), il risultato di questa escursione è una sorta di dance naïf
che pesca negli anni 80 ma lo fa senza malizia, e allo stesso tempo mette in mezzo
un po’ di melodie lontanissime dalla sedicente provocatorietà della ormai
insopportabile ondata elettroclash. Un esperimento interessante, inconsueto, per tre
quarti d’ora di godibile entertainment (www.greenfog.it).
Alessandro Besselva Averame
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The Gumo
Are You Sure?
Midfinger/Venus
Da un anno a questa parte, la varesina Midfinger sembra aver cambiato direzione
artistica, passando da paesaggi sonori più “grunge” a un indie trasversale. Una delle
band simbolo di questo cambio di rotta sono i The Gumo, gruppo aretino capitanato
da Stefano Cerisoli e Alberto Serafini, due artisti con un background decisamente
estraneo alle solite esperienze di musica underground: insegnanti di chitarra e
batteria (Cerisoli è addirittura un concertista per chitarra classica) e collaboratori del
progetto One Of These Days patrocinato dalla fondazione Arezzo Wave. Se questo
è il loro passato, il presente li vede impegnati in questa nuova creatura che, con
l’esordio “Are You Sure?”, si presenta nel migliore dei modi. Non solo indie-pop di
marca Grandaddy – “Something We Couldn’t Be” – ma anche arrangiamenti più
soffusi e psichedelici – “Better Day”, un po’ Air, un po’ Mojave 3 – un tocco di
indietronica per ricordare come l’insegnamento di Notwist ed affini possa essere
usato a proprio vantaggio e tanta, tanta melodia. Il principale pregio dei The Gumo,
infatti, è la capacità di scrivere melodie pop dal respiro internazionale, nient’affatto
banali e che invogliano all’ascolto. E questa non è che l’ennesima dimostrazione
che quando una band vuole fare la musica che si sente di fare, e non la semplice
riproposizione di qualcosa già visto e sentito due mesi fa negli Stati Uniti, la fa nel
migliore dei modi, coerentemente e senza complessi d’inferiorità (www.thegumo.it).
Hamilton Santià
The Vendetta
Demolition
Countdown
Vendetta. Difficile, con un nome del genere, non pensare a qualcosa di forte, di
“hardcore” nel senso più ampio del termine. E l’opinione non può che rafforzarsi se
si pensa che questo è il nuovo nome di un gruppo che si chiamava Bloodline.
Bisogna poi dire che ascoltare “Demolition”, ultima fatica dei quattro veneti, è la
prova definitiva di quanto affermato. Rispetto a quanto sentito in precedenza il
sound ha spostato il proprio baricentro su sonorità anni 80, e pur rimanendo
hardcore si trovano molti punti in comune con un certo metal, e questo vale
soprattutto le linee di chitarra, taglienti e veloci. Ma il vero punto di forza dei
Vendetta, aldilà delle indubbie capacità tecniche di un gruppo compatto e preciso, è
la voce: Angel ha una delle ugole più rock della penisola, con quel miscuglio di
Lemmy ed Henry Rollins che fa fare alla band il salto di qualità meritato. Si fa notare
poi anche la registrazione: merito dei Mofo Studios, realtà produttiva emergente nei
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pressi di Piacenza, capaci di dotare brani come “Strangulation” – di cui troviamo
anche il video – di un sound rétro senza per questo sacrificare la qualità sonora.
Insomma, stiamo parlando di un buon prodotto, e anche se i tempi attuali vedono un
sovraffollamento di gruppi e musiche non possiamo che continuare ad apprezzare
questa band e aspettare con curiosità il suo nuovo lavoro, già annunciato per i
prossimi mesi (www.countdownrecords.com).
Giorgio Sala
Velvet Score
Scarecrows
Black Candy/Audioglobe
Quattro anni separano “Youth”, la promettente opera prima dei Velvet Score, dal
suo seguito “Scarecrows”. Anni fatti di concerti, cambi di formazione e registrazioni
andate perse per improvvidi problemi tecnici. E, nel frattempo, l’ancora giovane
quartetto toscano è cresciuto, ha fatto esperienza e ha aumentato i colori della sua
tavolozza sonora: asciugato il proprio songwriting, la band non ha affatto rinnegato
la formula dell’esordio, in cui istanze noise e post-rock venivano rilette in chiave
indie, ma ne ha decisamente ampliato i confini. Robuste cavalcate elettriche (“Flies
Will Be Bees”) convivono quindi con efficaci intermezzi acustici (“The Bridge”),
chitarre si intrecciano con pianoforte (“.New Plans”) e vecchi sintetizzatori (“Falling
Stars Know Where To Fall”), il tutto dosato con una notevole attenzione alle
dinamiche e con una certa qual propensione per i crescendo (“Brand New Bad
Days”, “The Lovesong Maker”). Ciò che ne esce è un disco multiforme, ricco di
sfaccettature e di cambi anche repentini di stato d’animo, non privo di una certa
ambizione (“Bionic”) ma sempre lontano dagli eccessi, eccezion fatta per una “Moon
Won’t Wake Tonight” che, pur potendo vantare al suo interno idee a sufficienza per
farne un album intero, finisce per perdersi in barocchismi (specie per quanto
concerne la presenza della voce femminile) che con un minimo di senso della
misura in più si sarebbero potuti evitare. Ma quando si cresce può anche capitare di
farsi prendere la mano, in attesa di acquistare quella fermezza di polso necessaria
per centrare il bersaglio. Un poco di rigore in più – anche le costruire le melodie – e
il gioco sarà fatto; con un potenziale così, c’è di che ben sperare (
www.velvetscore.com).
Aurelio Pasini
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Vivianne Viveur
The Art Of Arranging Flowers
Seahorse/Goodfellas
C’è tutto un mondo dietro all’esordio sulla lunga distanza dei Vivianne Viveur: sette
anni di attività, due demo-ep e, soprattutto, una carriera tra l’Italia e Londra, dove si
sono saputi conquistare una piccola nicchia in un panorama live prestigioso quanto
difficile e affollato. Tutto questo per dire che, pur non mancando di qualche
ingenuità, specialmente in fase produttiva, “The Art Of Arranging Flowers” può
sfoggiare una sicurezza che manca a tante opere prime. Influenzate dalla new wave
più scura ma non prive di riferimenti a un indie rock più vicino nel tempo, le canzoni
del trio sono pervase da una forte teatralità, che si trasforma in un romanticismo
intenso e tormentato, enfatico e teso. Avvolgono le trame strumentali, ma sanno
anche graffiare, scartare in maniera imprevedibile (magari contaminandosi con un
tocco di elettronica), giocare con le alternanze tra lento-veloce e vuoto-pieno. Un
contesto non sempre perfettamente a fuoco ma non privo di momenti davvero
interessanti; peccato che sovente sia penalizzato da una voce non all’altezza,
troppo sottile e strozzata (specie quando si spinge verso l’alto) per abbinarsi in
maniera convincente agli scenari cupi e fascinosi disegnati dagli strumenti, finendo
così per minarne le peraltro giustificate ambizioni. Risolto questo – tutt’altro che
marginale – problema, il futuro della band potrebbe riservare sorprese interessanti,
di cui titoli come “Angel Grave”, “Virgin” e la stessa “The Art Of Arranging Flowers”
paiono buoni presagi (www.vivianneviveur.com).
Aurelio Pasini
Yugen
Labirinto d’acqua
AltrOck
Per gli addetti ai lavori e i fruitori dell’ala più colta e avant-prog era il disco italiano
più atteso dello scorso anno, per via di certe anticipazioni e di presenze significative
tra cui l’ex Stormy Six Tommaso Leddi (mandolino e liuto) e il batterista americano
David Kerman, conosciuto con stimati ensemble come Thinking Plague, Present,
5uu’s. Segnali importanti, ma solo parte di un progetto di grande spessore e
ricchezza, che trova rare analogie italiane anche retrocedendo sino all’epopea del
rock progressivo tricolore settantiano. Sarebbe peraltro improprio o quantunque
riduttivo collocare gli Yugen in uno scompartimento di genere, quando il crocevia
dichiarato da subito sa assemblare forti connotazioni cameristiche che omaggiano
con grande raffinatezza stilistica ed esecutiva Satie e Stravinskij, a insistite e
devianti incursioni avant “rock in opposition” dall’impressionante precisione
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matematico-compositiva, vicine alla migliore avanguardia progressive europea.
Quella, per intenderci, dei belgi Univers Zero o degli svedesi Samla Mammas
Manna. Francesco Zago, già chitarrista nel cult-CD genesisiano dei The Nicht
Watch di dieci anni or sono, è l’ideatore delle poliedriche architetture e sfaccettature
di “Labirinto d’acqua”, coadiuvato dalla preziosa collaborazione organizzativa di
Marcello Marinone, a cui si è aggiunto lo straordinario lavoro tastieristico di Paolo
“Ske” Botta (anche French TV), il sax e il basso degli svizzeri Markus Stauss e
Stephan Brunner, il polistrumentista Peter Schmid (clarinetto, tuba, sax, flauto,
subcontrabbasso). Un tourbillon sonoro dalla monumentale esuberanza timbrica e
matematica, tra lunghi brani portanti e brevi ma arguti intermezzi cameristici,
sconfinando ovunque, con le “omelette norvegesi” a flirtare con rock obliquo e
avanguardia neo-classica, riattualizzando persino il vecchio mellotron (www.yugen.it
).
Loris Furlan
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Dejligt
Matteo “Matteite” Dainese, già alla batteria negli Here e negli Ulan Bator, si è
dedicato alla canzone con ottimi risultati: il suo debutto a nome Dejligt, “Feed The
Dog”, che coincide con la nascita dell’etichetta autogestita Matteite (distribuita da
Venus), mostra un artista creativo e dotato di personalità. Lo abbiamo intervistato
Le canzoni del disco le hai accumulate nel corso degli ultimi anni, e a un certo
punto hai deciso di dar loro questa veste elettroacustica. Per chi ti ha sempre
visto impegnato in molti progetti dietro ai tamburi può sembrare un po'
curioso ritrovarti nelle vesti di cantante e chitarrista. Come ci sei arrivato?
Quali erano i tuoi modelli, se ne avevi, quando ti sei avvicinato alla scrittura e
alla forma canzone?
Posso risponderti paradossalmente partendo dall’ultima cosa che menzioni, ovvero
la forma canzone. Spesso con Enrico (Molteni, bassista dei Tre Allegri Ragazzi
Morti e principale collaboratore di Dainese nel progetto Dejligt, NdI) si parla del fatto
che entrambi da fanciulli abbiamo passato anni a riempire le giornate con gli amici
ascoltando e confrontandoci con un sacco di musica: dagli anni 70 agli anni 90, che
ci appartenevano di più. Pomeriggi interi spesi registrando brani uno dietro l'altro
con un quattro tracce. Non era neppure importante la qualità o se si fosse
veramente in grado si suonare un particolare strumento. L’obiettivo era arrivare a
sera con un brano che avesse delle parole, un cantato, una melodia e soprattutto un
ritornello che potesse in qualche modo farci stare bene. Ho sempre scritto molti
diari: raccontarli in una canzone è un meccanismo quasi perfetto.
Il nome del progetto deriva da una parola danese, e i pezzi sono stati
"risistemati" a Copenhagen. Un modo per dare particolare risalto al momento
e al luogo in cui hai deciso di fissarli in una forma definitiva: è così?
Sì, decisamente. A un certo punti i pezzi erano pronti, ed avevo davvero bisogno di
un nome. Stavo lavorando in una fattoria in Danimarca, da un mio carissimo amico,
Kent, ed è stato facile, mentre organizzavo uno studiolo posticcio in un fienile,
domandargli quale fosse la sua parola preferita. La parola era “dejligt”, (pronuncia:
“dailit”), il corrispettivo dell’italiano “figo” e dell’inglese “cool” per intenderci.
Dejligt tuttavia non è un progetto solista: come si diceva, hai coinvolto Enrico
dei Tre Allegri Ragazzi Morti nelle registrazioni, per dare più corpo ai brani, e
altri ospiti. Immagino che sul palco assuma una forma ancora più allargata...
Ebbene sì. In principio dal vivo c’eravamo solo io ed Enrico, in duo acustico.
Abbiamo fatto una serie di date in Italia, Gran Bretagna, Irlanda e Slovenia. Poi,
dopo aver riempito “Feed The Dog” di bassi e batterie, nell’aprile 2006, abbiamo
avuto la fortuna di suonarlo dal vivo in Danimarca e a New York, allargando
inevitabilmente la line up della band. Al momento la squadra vede alla batteria
Federico Piccin (Circe South), al basso Enrico Molteni oppure, nel caso sia
impegnato con i Tre Allegri Ragazzi Morti, Andrea Pierasco, e poi Carolyn
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Honeychild ai cori e al synth e il sottoscritto a voce, chitarra, basi e Farfisa.
“Feed The Dog” non coincide solamente con la prima uscita di Dejligt, ma è
pure il primo disco a uscire su Matteite, etichetta da te fondata. Cosa ti ha
spinto ad avviare un progetto del genere?
Diciamo che principalmente è stata la voglia di tutelare completamente la mia
musica, ma soprattutto la voglia di stampare la musica di altri artisti che amo e
rispetto un sacco.
La lingua in cui canti è l'inglese e il viaggiare in giro per l'Europa non ti è
nuovo. Immagino che tu abbia pensato all'estero come campo d'azione per
Dejligt. La ritieni una opzione possibile? Che idea ti sei fatto dell'attuale stato
della scena indipendente italiana?
Credo che in Italia come in tutti gli altri paesi la scena pulluli di belle idee, musica e
addetti ai lavori. Ed è proprio per questo che, anche se dal 2002 ho base all’estero,
e anche se come Dejlight durante il 2006 non si sia suonato molto in giro per la
penisola, con il primo disco ho deciso di investire in Italia aprendo una etichetta,
appoggiandomi a un buon ufficio stampa e occupandomi in prima persona di un
sacco di cose. L’estero è come l’Italia: se investi in tempo, energia e soldi (questo
vuol dire per me credere in qualcosa) allora forse il progetto può iniziare ad avere
un potenziale.
Vista la tua conclamata iperattività, quali sono i progetti in corso e quelli
futuri? Ti concentrerai su Dejligt o si tratta di una parentesi, pur essendo un
progetto che senti particolarmente tuo?
Al di là della mia iperattività, che è più che altro legata al mio perenne stato di
agitazione, è chiaro che Dejlight mi prende molto tempo, più che altro a livello
burocratico. Inoltre nell’autunno 2006, sempre in Danimarca, ho già scritto un altro
disco. Nel frattempo mi tengo occupato con la batteria suonandola e registrandola a
distanza per i nuovi album di Carolyn Honeychild e Troy Von Balthazar. In questi
giorni sto pure iniziando a lavorare con altri amici friulani a un nuovo progetto in
italiano e inglese nel quale probabilmente suonerò i tamburi e controllerò un bel po’
di questioncine elettroniche. Mi piace scrivere e far succedere le cose e non mi do
priorità: se una cosa mi fa star bene ci investo tutto me stesso.
Contatti: www.matteite.com
Alessandro Besselva Averame
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Don Quiból - Paolo Saporiti
Di poche parole Paolo Saporiti, ma con le idee chiare. Quelle che lo hanno portato
nel giro di pochi mesi a licenziare per la Canebagnato prima un disco solista intenso
come “The Restless Fall” e poi l'esordio discografico del progetto Don
Quiból, a ben vedere due facce della stessa medaglia.
Il primo passo della vita artistica “adulta” di Paolo Saporiti è stato l'esordio
solista “The Restless Fall”, un disco caratterizzato da toni raccolti e brani di
impianto generalmente acustico. Mi pare che con il progetto Don
Quiból le cose cambino e di molto...
Si, anche se poi, alla fine, riascoltando il disco, ci si trova comunque a dirsi di
quanto l’impianto acustico sia andato a sostenere e stimolare l’intero lavoro di
gruppo e della musica in generale. L’aggiunta delle chitarre elettriche e della batteria
hanno aiutato a tingere di nero, sporcare di “rock”, quell’intenzione strettamente
cantautorale, raccolta, che aveva contraddistinto i brani all’epoca della loro nascita.
La vedo come un’evoluzione del lavoro.
Nelle fila della band ritroviamo, oltre a te, Christian Alati e Lucio Sagone,
entrambi militanti dei Gatto Ciliegia Contro Il Grande Freddo. Quali gli input
alla base di questa collaborazione e, conseguentemente, del progetto Don
Quiból?
Il legame con i Gatti nasce nel passato, con l’esperienza dei “Cods”, a suo tempo
prodotta dalla stessa etichetta (la Beware!) e dall'amicizia e stima reciproche che
uniscono i singoli elementi dei due gruppi. Il progetto Don Quiból è nato
dall’espressione del progetto Cods (per ora giunto al capolinea) e l’incontro con la
mia realtà di solista.
Benché nel disco vi siano differenze “estetiche” marcate rispetto a “The
Restless Fall”, l'impressione che si ricava ascoltando le dodici tracce in esso
raccolte è che la scrittura parta comunque da un lavoro del singolo sulla
chitarra e solo successivamente diventi patrimonio comune della band...
È proprio così, come dicevamo prima, a causa della genesi del gruppo stesso. La
band si è formata così. Per quanto riguarda la composizione dei brani non è detto
che la strada rimanga sempre quella. Staremo a vedere, soltanto il tempo ci saprà
dire.
Nelle corde del gruppo coesistono elementi riconducibili allo stile di
songwriter atipici come Mark Lanegan, scenografie “on the road”, inquietudini
diffuse, suoni di frontiera: è davvero questo l'universo di riferimento dei Don
Quiból?
Inquietudine. In questo disco è sicuramente stato così, anche per questioni di vita
personali e per gli ascolti che ci hanno condotti verso quelle strade. La musica,
come le persone, è in evoluzione costante e mi aspetto qualche sorpresa per il
futuro. Indubbiamente il panorama a cui facciamo riferimento è e rimarrà quello
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anglofono.
La vostra proposta rimanda alla scena alt-country, almeno per alcune
soluzioni stilistiche. Quali i punti di contatto – se ne esistono – con questa
scena e in particolare con realtà affermate del sottobosco indie italiano che vi
rientrano? Pensiamo ad esempio a Franklin Delano...
Beh, c’è da dire che Lucio, il batterista, tra le sue numerose collaborazioni ne vanta
una proprio con i Franklin Delano, concretizzatasi nella registrazione del loro ultimo
disco e nella tournée americana. Quindi, i punti di contatto, se ci sono - e ci sono sono quanto meno concreti...
È prevista una seconda vita all'estero per la band?
Direi che si tratta di un auspicio, una speranza sincera, per la quale mi sentirei di
sottoscrivere un contratto!
Uscite per Canebagnato Records. Che giudizio dai al lavoro dell'etichetta e,
più in generale, al clima che respira un musicista come te nell'Italia delle case
discografiche indipendenti?
A Milano c’è lo smog! Sono ancora nel pieno della fase di scoperta di tutto quello
che riguarda la musica reale. Ancora di più per quanto concerne le case
discografiche indipendenti. Per quella che è la mia esperienza, posso ritenermi
assolutamente soddisfatto sotto il profilo strettamente creativo della cosa, tenendo
ben presente chi siamo e quali erano i punti di partenza. Siamo dei neonati, tutti.
Questo ha giovato sotto alcuni aspetti, ad esempio nella creazione del packaging o
nell'autonomia di cui abbiamo goduto durante la registrazione dei brani. Purtroppo
però, ci si scontra con le difficoltà che incontra chiunque si trovi in un nuovo
ambiente di lavoro. A questo si aggiunga la visione di un mercato un “pochino”
fermo e un “filino” chiuso, arroccato su posizioni consolidate e regole e tempi ben
precisi. La fortuna è la nostra sfortuna comunque. La giovinezza fa sì che un disco
come “The Restless Fall” possa capitare anche soltanto ora nelle mani di un
giornalista importante ed essere recensito a distanza di mesi. Questi sono i vantaggi
dell’anonimato, dell’essere degli sconosciuti, del non aver avuto una distribuzione
capillare ed un’agenzia di booking che abbiano lavorato a pieno regime per noi. Ma
fa parte della gavetta. Chissà che non ci faccia durare soltanto più a lungo.
Contatti: www.canebagnato.org
Fabrizio Zampighi
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Giancarlo Frigieri
Possiamo affermare senza nessuna paura che "Close Your Eyes, Think About
Beauty" (Black Candy/Audioglobe) è uno dei migliori dischi - forse addirittura non
solo italiani - usciti in questo inizio di 2007. Un disco profondo, cupo e malinconico.
Folk come solo certa gente è riuscita ad essere e con canzoni bellissime e piene di
un fascino livido. Parlarne con il suo autore, l'ex leader dei recentemente disciolti
Joe Leaman Giancarlo Frigieri, era quindi una mossa obbligata, se non altro per
prendere tutto un po' meno sul serio.
"Close Your Eyes, Think About Beauty" arriva dopo lo scioglimento dei Joe
Leaman. Partire da qui è inevitabile. Cosa ha provocato la fine di
quell'avventura? Il tuo esordio da solista era un passo già programmato o è
nato tutto spontaneamente?
La voglia di fare un disco da solo con queste sonorità mi venne durante le
registrazioni di “No One Releases Cassettes Anymore”, il nostro ultimo disco che
non verrà mai pubblicato se non in download gratuito tra qualche tempo. I Joe
Leaman, per quel che mi riguarda, sono finiti lì, in quelle sessioni. Il resto del tempo
è servito solo ad ammetterlo a noi stessi. Sui motivi dello scioglimento,
semplicemente abbiamo scoperto che anche se mentre suonavamo ci credevamo il
miglior gruppo del mondo, nel resto del tempo non ci divertivamo più.
Le radici del suono della tua vecchia band richiamavano il college-rock
americano e, soprattutto, l'attitudine degli Hüsker Dü. Nella
recensione del disco si è sottolineata la coincidenza delle coordinate sonore
tra il tuo esordio e "Woorkbook" di Bob Mould. Pensi che l'eredità di un
gruppo come gli Hüsker Dü - come suono ma, soprattutto, come
attitudine - sia stata gestita male dalla musica indipendente italiana? Voglio
dire, che fine ha fatto l'attitudine? Ci hai mai pensato? Te ne è mai fregato
qualcosa?
Non ne ho la più pallida idea. Se devo dirti la verità, tutti questi giochetti non li
sopporto più e li ritengo una gran perdita di tempo. La musica dovrebbe essere
espressione del proprio animo. Questa è l’unica attitudine che conosco.
Tornando alle sonorità del tuo disco, oltre a Bob Mould vengono in mente il
Johnny Cash delle "American Recordings", Bonnie Prince Billy, Howe Gelb e
anche il Bruce Springsteen di "Nebraska". Sembra quasi che il disco sia stato
scritto con lo sguardo rivolto agli Stati Uniti più "provinciali" e desertici. Hai
usato strumentazione prevalentemente acustica - tranne qualche chitarra
elettrica - e hai suonato praticamente tutto tu. Era questa l'idea che ti eri fatto
o ad un certo punto hai pensato che era meglio fare tutto da soli?
Di quella parte degli Stati Uniti spero di aver preso la voglia di suonare senza
pensare al resto; una voglia che ho ritrovato in alcuni personaggi americani con i
quali ho avuto il privilegio e la fortuna di suonare insieme. Riguardo alla scelta di
suonare tutto da solo, ho sempre pensato che se qualcosa la puoi fare da te,
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chiamare altri non serve. Non a caso anche nei dischi dei Joe Leaman quando
c’erano ospiti servivano a fare cose che noi non eravamo in grado di fare. Non avrei
mai chiamato uno a suonare la chitarra o il basso.
Era proprio il tipo di suono che avevi in mente?
Un’idea di base degli arrangiamenti me l’ero fatta, ma il suono in sé è stato il suono
di quel giorno. E’ stato registrato tutto molto spontaneamente. Se mi piaceva si
teneva, altrimenti rifacevamo tutto. Non abbiamo rifatto quasi nulla, a parte “Leaves
Of Your Mind” che era partita come una canzone più abrasiva. Arrivati alla quarta
sovraincisione ho detto ad Andrea Rovacchi di buttare via tutto e l’ho registrata
chitarra e voce. Anche lui era d’accordo, anche se quando sono uscito mi prendeva
per il culo chiamandomi “Cat Stevens”.
Per le registrazioni ti sei per l'appunti affidato ad Andrea Rovacchi. Sono
state fatte in analogico o in digitale? Le foto del booklet, l'atmosfera e il tipo di
strumentazione fa pensare ai vecchi nastri ma il suono è comunque nitido e
pulito. Come ti ha aiutato Rovacchi?
Le registrazioni sono state fatte in digitale così facevamo prima. Riguardo al
“metodo”, sono entrato in studio e in un’ora ho dapprima posizionato tutti gli
strumenti in vari punti dello studio e Andrea ha microfonato tutto. Dopodiché ho
suonato per dodici ore di fila, più una pausa di un’oretta per cenare e bere qualcosa.
Riguardo ad Andrea, abbiamo una visione della musica parecchio simile e ci
intendiamo a meraviglia. Registrare con lui è divertente e se dovessi dirlo oggi
penso che i dischi me li farò fare sempre da lui. Ogni album ha una sua frase
illuminante e in questo è stata: “Un disco così non si mixa. Mentre suoni metto un
poco a posto e poi lo passiamo così com’è!”. Scelta impulsiva in apparenza, in
realtà molto saggia. Per quel che riguarda il libretto, il genio della lampada è una
signorina chiamata Cristina Malagoli, con la quale ho la fortuna di dividere ogni
giorno della mia vita.
Nel disco hai anche ripreso "Blood Of Eden" di Peter Gabriel, un'artista
apparentemente diversissimo dalle tue coordinate e che mai avrei pensato di
veder coverizzato da te. Da cosa nasce la scelta di questo brano? Tra l'altro la
tua versione è molto diversa, molto più dolente, rispetto all'originale.
Peter Gabriel è da sempre uno dei miei artisti preferiti, produzione con i Genesis
compresa. La versione del pezzo è dolente nel vero senso della parola, visto che in
studio era pieno di candele che notoriamente portano via l’aria e, dopo un’ora e
mezza senza nemmeno una pausa e con la porta chiusa, per tutta la seconda metà
del pezzo ho pensato: “Adesso svengo...”
Cambiando decisamente argomento... Non so se si può dire o è ancora top
secret, ma parlando con i Mosquitos mi accennavano al progetto di un disco
insieme, canzoni tue e strumenti loro. Ce ne vuoi parlare? Di che progetto si
tratta? In effetti le vostre attitudini sono molto simili e potrebbe uscirne
qualcosa di interessante...
Avevo queste canzoni ma non avevo più una band, ragion per cui ho pensato a loro
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visto che hanno pubblicato alcuni dei dischi più belli degli ultimi dieci anni in ambito
rock. No, dico, hai mai sentito per bene “Electric Center”?
E per quanto riguarda questo disco? Cosa farai? Lo promuoverai con
concerti in solitaria o hai pensato a qualcosa di nuovo?
Ho già fatto una ventina di date. Suono da solo con una chitarra acustica, armonica
e una loopstation. A volte capita che suoni per tre ore di fila facendo un sacco di
cover. Girando da solo ho la fortuna di costare pochissimo, ragion per cui suono un
sacco. Mi diverto da matti e il pubblico, spesso, anche. Penso ci sia bisogno di
ritornare a prendere contatto con le cose e le persone e io sto facendo la mia parte.
Contatti: www.miomarito.it
Hamilton Santià
Pennelli di Vermeer
Intervista collettiva ai Pennelli di Vermeer, più che promettente ensemble
partenopeo, del quale è atteso l’esordio sulla lunga durata dopo l’EP “Trame
dannata” (La Canzonetta-Sintesi 3000/Self). Rock definito pittorico, il loro, fatto di
pennellate prog e scrittura densa, barocco e bizzarro. Nel dischetto anche una cover
di “Princesa” di De André. Ne abbiamo parlato con i Pennelli Pasquale Sorrentino
(cantante e compositore), Raffaele Polimero (tastierista), Giovanni Santoro
(bassista), Pasquale Palomba (chitarrista) e Marco Sorrentino (batterista).
Il bello è nell’incontro fortuito. Com’è avvenuto il vostro?
Pasquale Sorrentino: Eravamo in sei su un furgone diretto a Capo Nord e lì ho
conosciuto Giovanni Santoro. ho tirato fuori la chitarra e gli ho fatto ascoltare alcune
canzoni che avevo scritto. Dopo aver ascoltato due o tre pezzi mi dice: “Quando
torniamo a Napoli perché non mettiamo su un gruppo?”. Non l’avesse mai detto…
ho tirato fuori tutto il repertorio.
Che c’entrano Vermeer e i suoi pennelli?
PS: Prima di darmi alla musica ho provato con l’arte visiva ma mi è andata male. Mi
è rimasto l’amore per la pittura fiamminga del Seicento. Di questo filone Vermeer è
stato il massimo esponente anche se in vita non se la passava bene: dipingeva solo
per riparare ai suoi debiti. Economicamente dipendeva dalla suocera e non si sa
tanto sulla sua breve vita (1632-1675); inoltre è stato buttato nel dimenticatoio per
quasi duecento anni e riscoperto dai post impressionisti. Ho proposto il suo nome e
qualcuno ha suggerito perché non Pennelli di Vermeer? È andata cosi!
Ne vien fuori la suggestiva definizione di “rock pittorico”. Che s’intende?
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Raffaele Polimero: Questa definizione ha cominciato a circolare già tempo fa. A noi
è piaciuta perché avevamo difficoltà a etichettarci. L’abbiamo adottata. Ci piace
considerare la nostra musica come una “tavolozza” di suoni e generi.
Non credo che la vostra musica sia un incontro casuale tra forme musicali
disparate, piuttosto una fusione ch’è frutto di lavoro. Quali ingredienti
indichereste?
RP: Il “processo creativo” è quello che si fa in studio. In questa fase siamo abituati a
non risparmiarci niente. Un suono o un frastuono, riff e feedback possono rivelarsi la
chiave di volta per arrangiare una canzone. L’elemento casuale ci dà spesso lo
spunto e solo dopo avviene la razionalizzazione di parti e incastri tra strumenti, con
gli “ingredienti” a noi più cari: progressive, psichedelia, teatro–canzone, atmosfere
mediterranee e canzone d’autore.
Vi dico un po’ di riferimenti che mi sono venuti in mente: Jethro Tull, Pink
Floyd, Le Loup Garou, Avion Travel, Branduardi. Mi accorgo che dentro c’è un
filo che unisce: il gusto d’antan, il progressive, il burlesco, il teatrale.
Giovanni Santoro: Dei Jethro Tull ci affascina il connubio tra l’elemento rock e
quello barocco mentre dei Pink Floyd prediligiamo la componente psichedelica.
Ma hai centrato anche i riferimenti italiani: gli Avion Travel sono il gruppo che
incarna alla perfezione la formula del teatro-canzone verso cui abbiamo un occhio di
riguardo così come le atmosfere colorate e divertite dei Le Loup Garou.
Poi c’è Branduardi che sembra emergere di tanto in tanto nel cantato e in quelle
atmosfere più folk che ci sono congeniali.
Un altro importante richiamo a Napoli e dintorni sono i 24 Grana, altra band
della scuderia “La Canzonetta”. Cosa pensate di incarnare, di Napoli?
GS: I 24 Grana sono tra quei pochi gruppi che hanno ridato nuova vita alla canzone
della cultura napoletana sottraendola agli stereotipi dei salottini culturali
pseudoborghesi e caricandola di significati sociali che affondano nei disagi e nelle
contraddizioni. Sulla scia di gruppi come loro, 99 Posse e Almamegretta è derivato
un “manierismo musicale” con cui viene subito identificata la scena underground
napoletana, ma di cui noi non ci sentiamo far parte. Ci sentiamo “controtendenza” e
voler ritrovare in noi alcuni caratteri della napoletanità è una forzatura… tranne che
per la teatralità. Insomma con gli altri gruppi citati condividiamo l’area geografica.
Cosa amate del Seicento? Cosa ci insegna quell’epoca, oggi?
Pasquale Palomba: L’irregolarità, la stravaganza nelle arti come nella musica,
l’illusionismo, l’effimero e la ricerca di materiali nuovi. È stato un secolo di
transizione minacciato da instabilità politica, peste, paure secolari, riforma luterana,
controriforma della chiesa e ribellioni dei popoli alle monarchie, ma nello stesso
tempo ha gettato le basi per periodi migliori. Le inquietudini e incertezze che
aleggiano nel nostro tempo sono sintomi della necessità di sconvolgimenti
socio-politici… è necessario smuovere la acque.
Nel vostro EP spicca, inevitabile, la rilettura non oleografica di “Princesa”.
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Come vi siete misurati con De André? È uno dei vostri maestri?
Marco Sorrentino: Più che in punta di piedi ci siamo avvicinati a De André con la
sfacciataggine che ci caratterizza (musicalmente). Rifare una cover quasi fedele
all’originale ci sembrava un’operazione inutile. Così ci siamo catapultati in una
nuova rilettura del brano seguendo il nostro intuito e consapevoli di suscitare anche
i malumori dei fan di De André di cui facciamo parte. Comunque sembra che il
brano funziona e ci piace definirne l’arrangiamento come prog sintetico.
L’impressione è che la vostra cifra si possa esprimere ancora meglio su
tavolozze più vaste, con suite lunghe, per esempio. A quando un album di
lunga durata? E come suonerà? Sarà l’estensione di “Trame dannata”?
MS: Nelle lunghe suite strumentali ci sentiamo a nostro agio e in alcuni pezzi come
“Onde” ci siamo lasciati andare; ma ci piace anche contenerci nella più tipica forma
canzone senza solismi magniloquenti e cerebrali. La sfida reale è riuscire a fare del
prog-rock in tre minuti di canzone. Nel dicembre del 2007 è prevista l’uscita del
nostro prossimo cd per il quale stiamo lavorando. Siamo fiduciosi: gli “ingredienti
sonori” ci sono, basterà indovinarne le dosi!
Contatti: www.ipennellidivermeer.it
Gianluca Veltri
Petrol
I Petrol nascono nel 2005 su iniziativa di Franz Goria, voce dei Fluxus, e Dan Solo,
ex bassista dei Marlene Kuntz, con il successivo coinvolgimento di Ale Bavo (Sushi)
e Valerio Alessio: un tentativo, piuttosto riuscito a nostro parere, di mescolare la
canzone d’autore con certo rock elettronicamente modificato, che giunge al debutto,
dopo un EP disponibile in Rete, con “Dal fondo” (Casasonica/Emi). Con Franz
bloccato a casa dall’influenza, Dan ci ha illustrato motivazioni e obbiettivi della
formazione torinese.
Il progetto nasce da te e Franz, che vi siete incontrati e avete buttato giù di
getto un po’di canzoni. Poi però avete deciso di coinvolgere altri musicisti…
È stato un percorso spontaneo, non ragionato. Iniziando a suonare insieme c’era la
volontà da parte di entrambi di dare un segnale: fare il punto della situazione nelle
nostre vicende artistiche e andare avanti. Il caso ha voluto che ci incontrassimo e
che ci piacessimo. Come in una storia d’amore, in una band ci sono sempre queste
dinamiche affettive, si crea una scintilla. Le canzoni prendevano forma ma abbiamo
sentito subito l’esigenza di coinvolgere altre persone. Ale Bavo, produttore di
Casasonica, inizialmente era venuto a farsi un giro per sentire che aria tirava. Torino
è piccola, si parlava già di questa collaborazione anche perché avevamo fatto
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un’apparizione pubblica recitando un pezzo di Gaber, “Se fossi Dio”. È venuto per
origliare ed è rimasto a suonare entrando a tutti gli effetti nel progetto, che poi si è
completato con Valerio Alessio alla batteria. Per questioni di mio gusto personale,
pur con tutto il rispetto, non sarebbe stato possibile suonare con un tastierista
canonico. Ale è arrivato con amplificatore ed effetti, suonando parti che in genere si
affidano alla chitarra, e la cosa ha funzionato, amalgamandosi perfettamente con il
resto.
Petrol mi sembra gettare una sorta di ponte ideale, se mi permetti l’iperbole,
tra De André e i Nine Inch Nails, tra due mondi apparentemente lontanissimi.
Sei d’accordo?
Questo perché tutto deriva dagli ascolti comuni miei e di Franz. Da un lato la
canzone d’autore, dove c’è il primato della parola e della voce, in particolare il De
André di “Storia di un impiegato”, per la storia di entrambi un disco fondamentale,
dall’altra certo rock dove la parola si amalgama al suono di una distorsione. È una
fusione che ci è venuta spontanea, e ce ne siamo resi conto a posteriori. La voce di
Franz si presta molto a creare questo legame. È la prima volta nella mia esperienza
di musicista che sento cantare queste note basse così corpose e così piene in un
contesto rock.
Il nome del gruppo denota una certa predilezione per i colori scuri, mentre dai
testi direi che emerge una coscienza civile anche se non politicamente
esplicita.
Certo, c’è questa componente di coscienza sociale. Io e Franz ci incrociamo da
anni, ma il fatto di suonare insieme poi ti porta a conoscere davvero le persone, e a
scoprire che si condivide una certa visione “sociale”. Non schieramenti o colori di
appartenenza, ma un’attitudine a osservare la società. Non denuncia, ma fotografia
di un momento storico, senza l’obbiettivo di dare messaggi ma cercando di far
riflettere e rendere consapevoli. Sul colore: si parla di verde petrolio, ed il petrolio
non è nero o comunque non è solo nero, e non è quello il colore dominante di
questo progetto. Anche nella copertina emerge un po’ di verde. C’è una varietà
cromatica che essendo compressa e schiacciata viene percepita come nera, ma
solo perché molto densa. Nel momento in cui abbiamo scelto il nome avevamo già
un po’ di canzoni scritte, ci sembrava perfetto per identificare quel tipo di suono e
quel tipo di linguaggio. Doveva rappresentare qualcosa che devi estrarre scavando,
e che viene fuori grazie alla propria forza dirompente.
Che tipo di live avete imbastito? Tradizionalmente rock oppure, vista la
componente autoriale del progetto e le sue origini avete pensato anche a
situazioni più raccolte?
Il concerto rock è fatto di amplificazione, la musica deve essere amplificata non per
limitarsi a fare rumore ma per consentire al pubblico di tuffarcisi dentro, offrire una
sensazione di avvolgimento. Il bello è essere nel mezzo delle note. Una sorta di rito
moderno, un intrattenimento di tipo emozionale. È imprescindibile, almeno in questa
fase del progetto, l’elettricità. Creare l’intimità in una grande sala, attraverso
l’amplificazione, è un obbiettivo magnifico, quando il concerto funziona riesci ad
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avere uno scambio energetico con la gente, ed è una sensazione unica. Con noi ci
sarà un altro chitarrista, per permettere a Franz di concentrarsi un po’ di più sulla
voce, anche perché ci sono un paio di sovraincisioni di chitarra, all’interno del disco,
che non volevamo perdere. A darci una mano sarà un amico, Nino Azzarà,
chitarrista dei Mambassa e titolare del progetto Betty Page
Qualcos’altro da aggiungere?
Sì. Tutto questo sta succedendo grazie a Casasonica, giovane etichetta fatta da
persone di notevole esperienza , il cui percorso ci sembra possa ricalcare in
parallelo la storia dei Petrol. Max (Casacci, NdI) ad un certo punto ha voluto buttarsi
direttamente nella discografia, cercando di portare avanti un discorso di qualità, a
partire dalla scelta dei gruppi: in genere le nuove etichette cercano di mettere
sottocontratto tutti, per farsi un catalogo, qui invece c’è la volontà di prendere pochi
gruppi in cui si crede e seguirli al meglio. Ringrazio Max per aver creduto in noi,
credo sia doveroso. C’è poi una bellissima sinergia tra le persone e questo non può
che far bene a tutti, in primo luogo alla musica.
Contatti: www.petrolmusic.it
Alessandro Besselva Averame
Presi per Caso
Salvatore Ferraro è cantante e chitarrista di un gruppo molto particolare, i Presi per
Caso, che in chiave ironica parlano del proprio vissuto all’interno del carcere di
Rebibbia. Un progetto nato nel 1997 per affrontare i giorni senza sole. Basti
ricordare una canzone come “Scacchi ner cielo”, che descrive l’unica prospettiva
carceraria: l’unico scorcio che ne ha chi sta dentro un carcere è infatti di vederlo a
scacchi attraverso la grata. Adesso i componenti sono tutti liberi, e hanno appena
realizzato “Delinquenti”, il loro secondo album, uscito per Musica Made in
Biella/Goodfellas.
Visto, immagino, le difficoltà di essere reclusi in un carcere com’è potuto
partire il progetto?
È partito da persone che per ragioni diverse sono state condannate e collocate in un
contesto intramurario e si sono trovate in sintonia per la passione musicale. Quindi,
abbiamo insistito e ottenuto, grazie ad un’amministrazione abbastanza illuminata,
una stanza dove riversare i nostri vecchi strumenti con i quali abbiamo iniziato a fare
degli esperimenti sonori per i detenuti e per le loro famiglie.
Ma le canzoni come le componevate?
All’inizio erano delle cover, perché ovviamente in mezz’ora di svago la gente vuole
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rilassarsi con canzoni che già conosce, quindi si cercava di assecondare i gusti di
chi ascoltava. Poi naturalmente, quando si è trattato, una volta fuori, di dover
raccontare la realtà carceraria, i testi sono venuti facilmente fuori, per quanto la
necessità di riportare storie tragiche e amare portava quella di farlo in modo ironico
e in modo che chi era al di fuori potesse acquisire con un po’ più di gradevolezza
delle tematiche che gradevoli non sono affatto.
Ma quando un componente veniva rilasciato poi tornava a trovarvi in carcere
per fare le prove?
La caratteristica unica di questa band è che quando si trovava all’interno del carcere
gli avvicendamenti erano continui. Le defezioni erano salutate con gioia da tutti gli
altri perché significava riconquistare la libertà. Questo tra l’altro ha anche inciso
nella cultura musicale della band, perché in questa sala musica, sono passate
almeno dodici etnie diverse.
Uscito dal carcere, tu hai realizzato un musical “Radiobugliolo” che poi è
anche il vostro esordio su disco. Come sono andate le cose?
É stata una gran faticaccia, ma ne è valsa la pena. Si trattava di raccontare
di ventiquattrore di carcerazione, ma con una tempistica da musical quindi con testi
molto veloci, sarcastici, ironici e soprattutto con una trama di prosa intervallata da
musica. Devo riconoscere che ci hanno aiutato molto anche i magistrati di
sorveglianza. Quando è andato in scena il musical, parecchi dei componenti
stavano ancora in libertà limitata o in semi libertà. C’era quindi chi aveva bisogno di
permessi che furono rilasciati con una certa facilità.
Com’è stato il vostro primo concerto fuori dal carcere?
Molto emozionante. In tantissime situazioni vedevamo persone con le lacrime agli
occhi, anche lì dove la tensione poi sfociava in una grassa risata. La nostra
caratteristica rimane la composizione ironica ma devo dire che era sempre una
risata condita da un filo d’amarezza. Da tre anni il progetto Presi per Caso continua
anche fuori le mura grazie al supporto della gente che sempre ci segue, ci scrive
mail d’apprezzamento e solidarietà o compra i nostri dischi ai concerti.
“Delinquenti” è il titolo del CD che richiama il vostro marcato senso di ironia,
come mai subito all’inizio avete inserito un testo malinconico come “Il tempo
della prigione”?
“Il tempo della prigione” è l’unico testo che non è scritto da un detenuto, ma da un
poeta genovese, Alessandro Hellman. Noi interloquimmo con Alessandro
chiedendogli un poco d’attenzione sul mondo carcerario e lui nel giro di due
settimane ci spedì questo testo che io personalmente proposi alla band e fu messo
in moto questo strano giochetto. Tutti erano convinti che chi avesse scritto questo
testo fosse un detenuto e ciascuno attribuiva quanti anni di detenzione per scrivere
questo testo. Alessandro che non è mai stato in carcere è riuscito veramente a
fissare alcuni capisaldi tristi amari di stare in prigione. “C’è questo tempo che
diventa un mare fermo…”, cioè l’impossibilità di dare un senso al tempo se non
assorbirlo nella sua passività. Un mare fermo che può essere anche una bellissima
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immagine ma è sempre fermo, quindi rende spogliata la dimensione umana, inerte e
destinata ad un certo degrado.
Poi ci sono ospiti illustri come Francesco Di Giacomo e Rodolfo Maltese del
Banco del Mutuo Soccorso. Come li avete contattati?
Quello per molti di noi è stato il coronamento di un sogno adolescenziale visto il
nostro culto per il rock progressive. Li abbiamo contattati con una facilità quasi
imbarazzante: c’è stato dato un numero di telefono e loro hanno detto
semplicemente sì e sono venuti a farlo. Poi anche con un’umiltà e un rapporto quasi
amicale che secondo noi è quello che dovrebbe avvenire normalmente per
annullare qualsiasi tipo di barriera o di pregiudizio e iniziare a dialogare in modo
diverso.
Adesso che siete tutti fuori come vi siete organizzati?
Abbiamo una piccola sala prove, tanto entusiasmo e voglia di riscatto per il tempo
duro che abbiamo affrontato. Questo ci permette di provare e pensare al futuro del
progetto.
Quindi il prossimo album parlerà nuovamente di carcere?
La mia idea è di parlare di realtà anche esterne al carcere ma in qualche modo
imprigionate al pregiudizio. Ci siamo avvicinati di recente al mondo delle
transessuali che è una delle categorie più discriminate. Noi l’abbiamo visto in
carcere ma sono discriminate anche nella società dei liberi. Ed è un peccato che
magari persone di grandissima dignità e cultura non debbano ottenere più diritti e
riconoscimenti all’interno della società.
Il disco è uscito per Musica Made in Biella.
Partecipammo al grande festival di musica indipendente di Biella per il quale siamo
arrivati al quinto posto. Il direttore del festival rimase impressionato, dal nostro
progetto e capì che investirvi, poteva essere un grande anticorpo nei confronti della
società che può tendere alle devianze così decise di dare un contributo per la
realizzazione di questo piccolo strumento di comunicazione che è il nostro CD.
Contatti: www.presipercaso.it
Francesca Ognibene
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Le Man Avec Les Lunettes
Caffè Boglione, Bra (CN), 2/3/07
Uomini con gli occhiali parte prima: bei discorsi sull’estetica indie che appassiona
adolescenti e post adolescenti di tutto il (nostro) mondo; l’appartenenza al catalogo
di un’etichetta – la MyHoney Records – che diverte solo alla vista, colmo com’è di
oggetti romantici e particolari; un tour carico di date in locali piccoli, artigianali,
informali. Poi arriva la parte seconda: quella che racconta di una band
perfettamente a suo agio nelle atmosfere pop e delicatamente psichedeliche dei
pezzi che riempiono l’omonimo album d’esordio, capace di superare la lezione dei
tre minuti e via creando un impatto sonoro delicato eppure deciso, sospeso fra
ricerche di purezza beatlesiane e scarti cari a Grandaddy e Flaming Lips. Insomma,
un gruppo dalla doppia anima: quella della superficie, che galleggia senza problemi
in un lago placido e bucolico, e quella sotterranea, che scalpita in virtù di un
approccio spesso obliquo e senza bussola alla materia trattata. Anime che si
mostrano, incrociandosi divertite, nella flessuosa “A Tea At The Station” e nella bella
cover di “Venus” (rimodellata sull’originale “inno indipendente” appartenuto ai
Wedding Present), nel bell’esperimento retropop di “The Dogsitter” e nella stralunata
conclusione a base di bis, improvvisazioni e divertiti duetti che regalano ai presenti
la convinzione che – in un panorama variopinto e sovraffollato come quello italiano –
i Le Man avec les Lunettes rappresentino al meglio la generazione 2.0 di quello che
ci ostiniamo a chiamare “sottobosco indie” dimenticando troppo spesso che
l’alternativa, quella dei numeri che contano, è ormai retaggio di pochi, pochissimi,
disinteressati ascoltatori.
Giuseppe Bottero
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