Numero Maggio `07

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Numero Maggio `07
Numero Maggio '07
EDITORIALE
Sommersi – e no, non è una metafora – dai CD vi diamo il benvenuto al quinto
numero del 2007 della versione on-line di Fuori dal Mucchio. Davvero tanto il
materiale che anche in questi ultimi trenta giorni ci è arrivato, tra produzioni ufficiali,
autoproduzioni e demo. Come sempre tutto verrà ascoltato e vagliato con la
massima attenzione, ma va da sé che non ci potrà essere spazio per tutto quanto
sulle nostre pagine virtuali, perché proprio una produzione così grande ci porta a
essere ancora più rigidi nella selezione del materiale da trattare, in modo da offrire
sempre un menu di qualità.
A tal proposito, invitiamo ancora una volta tutti coloro – etichette, artisti, promoter,
uffici stampa – che volessero farci pervenire le proprie produzioni a seguire con
attenzione le istruzioni riportate nella pagina “Per invio materiale” linkata qui a
fianco, facendo presente l’importanza di spedire il tutto sia a entrambi i curatori di
questo spazio che ad almeno uno dei collaboratori, in modo da aumentare le
possibilità di un riscontro.
Ciò detto, non ci resta che darvi appuntamento al mese prossimo, augurandovi
come sempre buona lettura e buoni ascolti.
Aurelio Pasini
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Fuori Dal Mucchio è a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini - online at http://www.ilmucchio.it
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Alessandro Stefana
Poste e Telegrafi
Important
Alessandro “Asso” Stefana è un nome – e un volto – noto anche per chi il rock
italiano lo frequenta solo marginalmente. Nel corso degli ultimi anni lo si è infatti
sentito (e visto) su disco e in concerto al fianco di nomi come Marco Parente, Paolo
Benvegnù, Goodmorningboy, El-Muniria, Cristina Donà e Vinicio Capossela, senza
dimenticare la sua militanza nei Lumière Electrique prima e nel collettivo Oleo Strut
poi. Un curriculum di tutto rispetto, dunque, quello del chitarrista bresciano, che con
“Poste e Telegrafi” (pubblicato dalla statunitense Important) taglia il difficile
traguardo dell’esordio da solista. Difficile perché il territorio in cui si muove, quello di
composizioni interamente strumentali, è abbastanza spinoso, e il rischio è quello di
cadere nella mera tappezzeria musicale, ottima da sottofondo ma che però non
riesce a catturare l’attenzione. Rischio che in queste sette composizioni viene quasi
sempre evitato: armato di un campionario di chitarre di ogni tipo, banjo, vecchi vinili
e tastiere d’epoca, Stefana dà vita a una sequenza di quadretti avvolgenti ed
emozionanti, notturni e – soprattutto – mai fini a se stessi. Dalla frontiera
crepuscolare di “Western Soda” al dialogo tra sei-corde e clarinetto basso in
“Whales Cemetery”, un susseguirsi avvincente di atmosfere e stati d’animo che
culmina in una “Poste e Telegrafi blues” sostenuta da una base ritmica incalzante e
giocata sul contrasto tra distorsioni ed elettronica kraftwerkiana. A dargli una mano,
un pugno di ospiti tra cui Enrico Gabrielli (Mariposa), lo stesso Parente e Marc Ribot
(Tom Waits, John Zorn). Ben più che lo sfizio di un session-man, insomma (
www.alessandrostefana.com).
Aurelio Pasini
Almandino Quite Deluxe
Violent Potato
Wallace - Bar La Muerte/Audioglobe
Che cosa ci fa un gruppo noise-garage-blues nel catalogo della Wallace Records,
perlopiù orientata verso i territori dell’avant-rock e della sperimentazione? A rendere
la proposta del duo bolognese perfettamente congegnale all’etichetta suddetta è
un’attitudine abbastanza fuori dagli schemi. Innanzitutto, una strumentazione
scheletrica e minimale (solo chitarra e batteria), in secondo luogo una presenza
scenica che non lascia indifferenti: un ragazzo e una ragazza che indossano
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maschere da wrestler messicani e si dimenano sugli strumenti come degli ossessi.
Infine, la musica: un r’n’r primordiale, convulso, frenetico e selvaggio, che unisce
garage, noise, blues, punk con un pizzico di no wave e free rock (ascoltate “Proud
To Play Loud”). Prendete i Cramps più malsani (la title-track), il r’n’r destrutturato dei
Pussy Galore, la furia iconoclasta del primo Jon Spencer (“My Beautycase Is Full Of
Bones” e “Blue Bottle”), il noise-blues-punk incendiario degli Immortal Lee County
Killers (“Witch Affair”) e degli Hospitals (“Monomaniac”), e avrete più o meno un’idea
del sound prodotto dagli Almandino Quite Deluxe. “Violent Potato” è il terzo lavoro
del gruppo, registrato e mixato ai Ghetto Recorders di Detroit da Jim Diamond
(storico produttore, nonché bassista dei Dirtbombs). Nove pezzi tiratissimi di stampo
Fifties-Sixties ma con suoni terribilmente attuali: brani perlopiù strumentali, ogni
tanto intercalati da gridolini isterico-deliranti e supportati da un drumming tribale,
martellante. Il prossimo passo della band sarà, forse, quello di registrare con
l’americana In The Red? Staremo a vedere (www.almandino.com).
Gabriele Barone
Be Invisible Now!
Neutrino
Boring Machines
Il trevigiano Marco Giotto, alias Be Invisible Now!, non nasconde la sua
provenienza musicale, intesa come background di ascoltatore: “Neutrino”, concept
album a sfondo scientifico (nello specifico si parla degli studi sulle particelle
atomiche), è un omaggio all’epopea dei “corrieri cosmici”, ai viaggi elettronici dei
primi Tangerine Dream, di Klaus Schultze e di tutti coloro i quali più di trent’anni fa si
misero in testa di costruire in seno all’immaginario rock viaggi e vuoti interstellari.
L’impostazione di fondo è quella, il risultato attinge anche a certe espressioni di
elettronica ambientale più recente. Comune, in ogni caso, il denominatore, ovvero
spazi dilatatissimi delimitati dal fluttuare dei sintetizzatori, pulsazioni ritmiche
pressoché assenti, o quantomeno concentrate in alcuni ristretti momenti
dell’evoluzione sonora, una diffusa sensibilità ambient. La title-track è una sorta di
improvvisazione priva di confini visibili, un continuo movimento di suoni e fruscii che
ondeggia sopra un bordone sintetico che non abbandona mai la presa, anche
quando finisce in secondo piano e lascia spazio ad una fioritura inquieta di
sintetizzatori. Più mossi i quattro lunghi brani successivi, anche se altrettanto
aleatori: la progressione di organo quasi chiesastica di “Antiparticella”,
l’adeguatamente gassosa “Sarin”, la più astratta e cadenzata “Super-K-82-83”, la
ruumoristica e robotica chiusa di “Weather Report” mostrano che lo “stargate”
spazio-temporale ha funzionato piuttosto bene, senza derive nostalgiche (
www.boringmachines.it).
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Alessandro Besselva Averame
Bludeepa
In assoluta presenza di fragilità
autoprodotto/Audioglobe
La prima cosa che si nota ascoltando questo nuovo lavoro dei capitolini Bludeepa –
sei brani per un totale di ventisei minuti di durata – è la grande cura messa negli
arrangiamenti. Ogni nota, ogni colpo di batteria, ogni arpeggio: tutto suona davvero
bene e – fondamentale! – in funzione delle canzoni, che si presentano così con una
veste scintillante. Merito della presenza in cabina di regia di Saro Cosentino, certo;
tuttavia l’impressione è che molto sia farina del sacco del gruppo stesso, che pare
muoversi con abilità lungo la linea che demarca il pop dal rock. Chitarre liquide – ma
che all’occorrenza sanno graffiare – si intrecciano con tastiere mai troppo invadenti
e, sorrette da una sezione ritmica precisa e compatta, fanno da contraltare a
melodie che, a seconda del caso, avvolgono o scorrono frenetiche. Qualche eco
subsonico qua e là, specie per quanto riguarda certi passaggi vocali, non deve
comunque fare pensare all’ennesimo gruppo fotocopia dei torinesi, ché i Bludeepa
non solo paiono essere interessati al versante meno sintetico della questione, ma
danno l’impressione di voler cercare una strada propria in un contesto in cui non è
facile riuscire a mettere in mostra una personalità davvero convincente. Non sempre
ci riescono, ma anche nei momenti meno a fuoco del lotto i cinque romani sanno
comunque farsi apprezzare. Forse quel che manca loro sono un paio di
melodie-killer, di quelle che si incollano al cervello e non lo mollano più; e che
magari potrebbero garantire loro una maggiore visibilità anche al di fuori del circuito
indie (www.bludeepa.it).
Aurelio Pasini
Dente
Non c’è due senza te
Jestrai
A pochi mesi di distanza da un debutto molto spartano e lo-fi, “Anice in bocca”,
sorta di lavoro preparatorio a questo fratello maggiore, Dente alias Giuseppe Peveri
ritorna con quello che si può considerare un disco più compiuto, e tuttavia brillante
e immune alla banalità come il suo predecessore. Delle parentele musicali del
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cantautore emiliano abbiamo già parlato in precedenza: a voler semplificare, una
specie di strano ibrido di Bugo ed Elliott Smith, se mai una simile chimera fosse
immaginabile, le cui creazioni sono supervisionate da un vigile e discreto occhio
psichedelico. Ruolo quest’ultimo che nel lavoro precedente era gestito da Amerigo
Verardi – e non era affatto un caso – e questa volta dallo stesso Dente. Più robuste
le canzoni di questo “Non c’è due senza te” dicevamo, con qualche infiltrazione
battistiana in più: non è forse il Battisti di metà anni Settanta suonato da
un’orchestra mariachi un po’ sballata quello che si sente in “La battaglia delle
bande”? E che fa capolino nel funk acustico di “Stella”? L’america sognata che
riveste un DNA pop tutto italiano è la sostanza che va a comporre i brani appena
citati, ma anche di un gioiello come “Baby Building”, con il ritmo incalzante e un
polveroso piano dai sapori honky tonk, oppure del blues rurale che fa breccia in “28
ottobre”. Menzione speciale per i testi: paradossali, deformanti e divertenti come il
talento di chi li ha scritti (www.amodente.it).
Alessandro Besselva Averame
Edible Woman
The Scum Album
Psychotica – Bloody Sound – Ame/Audioglobe
Ci eravamo già occupati degli Edible Woman in occasione dell’uscita, all’inizio del
2004, del loro primo lavoro “Spare Me/Calf”, che ci aveva colpito per il piglio sicuro
con cui mescolava furia noise e nervosismi post-punk. Ritroviamo ora la formazione
con “The Scum Album” e, soprattutto, con una novità non da poco in organico:
l’assenza della chitarra, il cui ruolo è ora ricoperto dalle tastiere. Un cambio di
prospettiva potenzialmente radicale, che tuttavia pare essere stato di stimolo per la
band, che pare aver notevolmente allargato orizzonti della propria proposta. Non si
è quindi placata la rabbia degli esordi, ma ora non è più l’unica protagonista, al
punto che in titoli come “When Stars” (con tanto di pianoforte) e “Antonio Fazio’s
Last Prayer But One” si può tranquillamente parlare di atmosfere (relativamente più)
rarefatte e di melodie. Anche in quei momenti, però, aleggia una sottile inquietudine,
pronta a esplodere nel resto del programma, dall’ossessiva “Mystic River” (che non
dispiacerà ai fan degli Oneida) a “Nothing” e “Honeyed Words”, o ancora
nell’elettronica impazzita di “From A Taste Of Gez” e “To A Full Of Gez”, che aprono
e chiudono il CD. Un lavoro tanto sorprendente quanto convincente, in cui una
sezione ritmica tellurica si incastra alla perfezione con le rasoiate e i bordoni di
organi e sintetizzatori e gli occasionali inserimenti di un sax ben poco rassicurante
(la strumentale “Mouseman”), il tutto messo in risalto dalla impeccabile
(co)produzione di Fabio Magistrali. Davvero notevole (www.ediblewoman.it).
Aurelio Pasini
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Eugénie
Qui ed ora!
Riff-Load Up/Venus
Dopo ben cinque anni di silenzio – l’esordio “Ciò che vorrei” è del 2002 – ho accolto
con sincero piacere le voci che davano gli Eugénie prossimi al ritorno, seppur con
qualche inevitabile cambio di formazione, sempre però saldamente in mano al
leader Davide Ferrazzi, voce, chitarra e compositore unico dei testi. L’entusiasmo
nasce dai tanti spunti interessanti dell’album menzionato che metteva in mostra,
nonostante la giovane età media, una qualità di scrittura invidiabile e dalle
prospettive di una auspicata pienezza artistica. E infatti basta un solo ascolto per
ritrovare tra i solchi di “Qui ed ora!”, la band spigliata e coraggiosa che conoscevo,
approdata inoltre a una maturità che abbraccia sia le strutture compositive che
liriche. Tra questi solchi esce rock, ma di quello che sa come sedurre senza
apparire banale, tra chitarre ed una voce davvero originale, si incunea un violino,
che non è un di più, ma una colonna, così come la seziona ritmica, fa parte stessa
della canzone. È chiaro che citare i nostri Afterhours, ma anche i belgi dEUS, come
riferimenti non è errato, tuttavia gli Eugénie hanno quel tenue tocco di distinzione
che li fa scattare in avanti, come possibile prossima realtà della scena rock tricolore.
Lo dimostrano canzoni come “L’atto imperfetto”, la dolcezza di “Sei un’ora”, le
chitarre incessanti di “Dormi dormi” spezzate da un refrain bellissimo, i rintocchi
hard che alimentano “La rincorsa dei pensieri”, il possibile hit “Il silenzio tra di noi”
scelto come video promozionale, che hanno tutti gli ingredienti per permettere agli
Eugénie il meritato approdo sotto dei riflettori sempre accesi (www.eugenie.it).
Gianni Della Cioppa
Fish Of April
Violet Pharmacy
Seahorse/Goodfellas
“Fish Of April nasce dopo 5 anni di canzoni registrate cantando i bassi, le chitarre,
le tastiere, imitando una batteria con bacchette suonate su letti, armadi, pavimenti, il
tutto sovrainciso a più piste con un walkman”. Poi il titolare del progetto, Alessio
Pinto (il quale così si descrive: “giornalista, scrittore, accanito scommettitore,
trascorsi in galera e poc’altro”: personaggio quantomeno interessante), si è
imbattuto in Paolo Messere, leader dei Blessed Child Opera nonché titolare della
Seahorse Recordings, che ha rimesso in sesto il materiale accumulato dal nostro
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uomo aggiungendovi chitarre, basso e quant’altro. Senza calcare la mano, almeno
stando a sentire il risultato, lasciando anzi una impronta riconoscibile di questa
attitudine DIY: il passo un po’ claudicante, basso e batteria, del primissimo post
punk inglese, con frequenti incursioni nei ritmi in levare e in quelli dell’hip hop, una
voce che declama testi in inglese e che si fa scura e psichedelica, un poco
deragliante, evocativa e trasandata quanto basta per creare l’ambiente necessario
ad un concept album sulle corse dei cavalli. Il tutto funziona e ingrana al meglio, con
le premesse di cui sopra e seguendo un ritmo costantemente strascicato che fa
pensare a tratti a degli Arab Strap ancora più minimali. Più che sui singoli episodi, il
disco si regge sull’atmosfera che riesce ad evocare. Lo fa molto bene, e se è un
pesce d’aprile, dobbiamo ammetterlo, è quantomeno assai riuscito. Un progetto
ancora acerbo, forse, ma dotato di indiscutibile forza. (www.myspace.com/fishofapril
).
Alessandro Besselva Averame
I/O
Polytone
Ebria - Fratto9 Under The Sky/Jazz Today
Negli anni, la Ebria Records ci ha abituati a rispettare musicisti che scelgono
coscientemente la via della sperimentazione a tutto tondo come canale
preferenziale. Un linguaggio che cresce e si sviluppa in contesti differenti - siano
essi l'elettro-kraut degli Echran, la narrativa in note dei Nippon & The Symbol,
l'avanguardia spigolosa di Uncode Duello o magari l'estremismo espressivo degli
OvO - ma che in tutti i casi punta a generare una musica senza barriere né
compromessi.
Nel roster della casa discografica lombarda rientra a pieno titolo anche il progetto
I/O, già sugli scudi tre anni or sono con l'omonimo esordio discografico. Una formula
minimale quanto intransigente, febbricitante e frenetica, chiamata in questa sede ad
ampliare la visione d'insieme abbozzata in passato, nell'ottica di un rinnovamento
poco incline ai cedimenti commerciali. Se il leit motiv del primo episodio era – parole
della band – “i timbri e la rarefazione del suono”, in “Polytone” (pubblicato in
collaborazione con la Fratto9 Under The Sky, l’etichetta degli Ultraviolet Makes Me
Sick) il fulcro diventa la parte ritmica rapportata all'improvvisazione: parentesi
estemporanee in cui il contrabbasso di Paolo Romano, la chitarra di Luca Mauri, la
voce di Andrea Reali e il rullante di Paolo Benzoni creano free decontestualizzato,
frammentazioni e cacofonie, trance ritmiche, ascese a perdifiato e sussulti tribali,
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pur rimanendo ancorati a un tessuto razionale invisibile quanto presente (
www.ebriarecords.com/io).
Fabrizio Zampighi
Les Petits Enfants Terriblez
Les Petits Enfants Terriblez
Mizar
Attivo nei cunicoli underground, nel quale si è mosso con abilità, sfruttando tutte le
possibilità che le nuove forme di comunicazioni offrono, questo quartetto dal nome
bizzarro (collocabile geograficamente tra l’area mantovana e bresciana) si presenta
con una sterminata biografia, piena di dettagli e – per fortuna – ironia, ma che più di
tanto non fa capire che tipo di musica suonino. E la risposta non è così chiara
nemmeno con l’ascolto di questo esordio, che arriva dopo sei anni di prove e
concerti e la benedizione della critica, che sin dai primi demo ne ha colto l’ardore e il
coraggio, nonché una buona dose di incoscienza. Solo questa virtù, se tale è, può
garantire l’incolumità artistica a una band che si permette di aprire l’album di esordio
con il battito electro-pop di “Superdance”, duplicato dal canto assente di “The Day
Before The Crash” sorta di tributo agli anni 80, e dosarli nello stesso miscelatore di
“Pnx Vol.2”, meeting post rock che si specchia nei ricami di “You Know Nothing You
Know”, mentre in “Jeunesse” appaiono i primi Ultravox! (quelli veri insomma!). Con
“Vampyroteuthis Infernalis” e “The Cake” gli infanti terribili rincorrono un noise fatto
di melodie e chitarre geometriche e ritmiche incessanti: un genere che sembra
prevedibile, ma che se invece lo ascolti bene è una vera sfida. Meno interessanti
invece le tracce tipicamente dance, come “No, Martina” e “Land Of Peaches”, che
ha però una bella coda psichedelica. Corposi e nonostante la varietà di temi, ben
focalizzati negli intenti: da seguire (www.lpetz.net).
Gianni Della Cioppa
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LNRipley
LNRipley
Casasonica/Emi
Ecco come funziona il karma: per non aver seguito con attenzione la scena italiana
di questi ultimi anni, nel momento in cui ho iniziato a leggere la breve biografia
riguardante gli LNRipley ho avuto l’impressione di essere entrato al cinema a film
già cominciato. Il progetto, nato da un’idea di Victor (voce) e dell’amico Ninja
(batteria), conta nelle sue fila Pier-funk (basso), un secondo bassista (Verror) e
infine, Alebavo e Sukko al groovebox. Un paio di nomi sono noti anche a me, per
passate infatuazioni “soniche”; per gli altri, posso solo dire che hanno dei
soprannomi notevoli. Ciò che più conta è che uscirà a breve il loro omonimo debutto
e siccome non so tenere un segreto molto a lungo, vi anticipo fin da subito che si
tratta di un album fottutamente bello e potente. Il brano di apertura (“Criminal”) va
subito al nocciolo della questione con un’elettronica nervosa, suonata prima ancora
che meditata, figlia di una drum‘n’bass sporca, che non disdegna virate industriali. In
questo contesto la voce di Victor si sposa alla perfezione, rabbiosa quanto basta,
talvolta ipnotica, ma capace di scelte melodiche interessanti (“Red In My Eye”,
“Alley Cat”), evitando così l’effetto soporifero di cui hanno sofferto dischi affini.
L’originalità, all’interno di un genere che ha già avuto il suo momento di gloria, è ciò
che rende questo album un’uscita impedibile. Non è un caso che il brano meno
interessante in scaletta sia una cover, per quanto personale, di “Killing In The
Name”. Un disco da ascoltare (e ballare) fino allo stremo (
www.myspace.com/lnripley).
Giovanni Linke
Lush Rimbaud
Action From The Basement
From Scratch/Bloody Sound/Sweet Frame
Spesso la musica migliore circola in maniera carbonara, senza che nessuno se ne
accorga, grazie alla passione di più persone che si mettono assieme e – non senza
sforzi – riescono a dare alla luce ad un disco che riesce a colpire. È il caso
dell’esordio dei Lush Rimbaud, anconetani che, dopo dei 7” con Eaten By Squirrels,
escono allo scoperto con un album marchiato From Scratch, Bloody Sound e Sweet
Frame. Sul sito si leggono influenze di Shellac, Fugazi e Pixies e girando per la rete
si trovano paragoni con realtà italiane tipo Red Worm’s Farm. Tutto vero, infatti
l’attitudine post-punk cara ad Albini e soci si sente forte e chiara, ma da queste parti
vogliamo alzare ulteriormente il tiro mettendo in mezzo numi tutelari più ingombranti:
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Pere Ubu, Fall, Primal Scream. Gli Ubu per le dissonanze e la rabbia intrinseca, i
Fall per il gusto dissacrante e certi cantanti alla Mark E. Smith, i Primal Sream per
l’inizio elettro-punk alla “Xtrmntr” e le linee di basso spesso figlie di Gary Mounfield.
Queste sono le due facce della medaglia di “Action From The Basement”, diviso in
un esatto prima/dopo. Le prime quattro canzoni richiamano le sonorità più
new-wave di cui sopra, mentre le ultime quattro (quasi come fossero lato A e lato B)
pescano a piene mani dal post-punk e dal math-rock di scuola Touch And Go e
Dischord. E tutto questo suona benissimo. Infatti, il disco è godibile, creativo ed
ispirato. I Lush Rimbaud sembrano seguire l’onda del loro stesso entusiasmo e i
risultati si vedono e – soprattutto – si sentono che è un piacere (
www.lushrimbaud.com).
Hamilton Santià
Marcilo Agro e il Duo Maravilha
Viva a ilusao
L’Amico Immaginario/Audioglobe
Ancora un elogio alla brevità: arrivata al primo album vero e proprio, dopo un ottimo
mini pubblicato due anni fa, la formazione novarese dall’impossibile nome anche
questa volta punta sulla concisione, concentrando 9 canzoni in appena 25 minuti.
Formato poco diffuso in tempi recenti, quello della mezz’ora: lascia un certo
retrogusto di vuoto da riempire per alcuni, ma d’altro canto scoraggia la scarsa
ispirazione e soprattutto i riempitivi. Ed è effettivamente così, in questa nuova
raccolta di storie acustiche, in cui troviamo nove variazioni su uno schema molto
semplice, pop lieve come una piuma ma allo stesso tempo capace di insinuarsi nei
meandri della nostra psiche musicale attraverso intrecci di chitarre acustiche e voci
dall’apparente semplicità. Una formula che sin dall’esordio è stata associata con
una certa approssimazione ai Kings Of Convenience, ma che dichiara la propria
originalità attraverso una sensibilità melodica tutta italiana. Pop della categoria più
nobile insomma, ludico quando le pene d’amore che illustra farebbero al contrario
immaginare riflessioni intimiste (le trovate vocali e il gusto per il paradosso nella
bilingue “Again”), ironico quando si affida del tutto all’inglese, una lingua
volutamente barocca e fuori dal tempo in “De Vezze”, una piccola storia di calcio
minore, e ironico pure quando mette in musica alcune recensioni dell’esordio (“Tra
l’altro”). Un disco brillante e leggero, ricco di personalità e di idee che, se già
nell’esordio emettevano luce propria, qui risultano ulteriormente amplificate (
www.marciloagro.com).
Alessandro Besselva Averame
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Mas Ruido
Choose!
Zapted/Universal
A leggere il marchio Universal sul retro di questo secondo disco dei Mas Ruido
viene subito da pensare che forse le major stanno cambiando. Perché questi quattro
ragazzi partiti da Cosenza non sono il classico gruppo “gggiovane” con cui far
innamorare le adolescenti dello stivale, ma una band con una storia reale alle
spalle. Una storia che parte nel 2000, dal nu-metal con personalità e da un esordio
intitolato “Bleak”. Molti concerti e migliaia di chilometri separano quell’esperienza da
“Choose!”, registrato in Germania e assemblato scremando i ben 27 (ventisette!)
pezzi che la band aveva approntato per l'occasione. Tredici schegge di melodia e
grinta rock compongono il lavoro, e spicca la grinta rosa di Kate, vocalist del gruppo
e, credetemi, vero animale da palcoscenico. Un cantato in lingua inglese molto
buono sostenuto da una sezione ritmica che fa (bene) il suo mestiere e da una
chitarra in bilico tra riffoni e aperture. Non c'è, e non è da intendersi come un limite,
un vero tormentone, ma il disco è costellato di episodi che entrano in testa al primo
ascolto, dall'iniziale “My Angels” passando per “In Two” e “My Sad Song”. A definirlo
in una parola si potrebbe dire “godibile”, ma senza quel retrogusto di patinato e finto
che darebbe fastidio. Solo una raccomandazione: per favore, non tirate in ballo
paragoni con Avril Lavigne et similia, sarebbe un errore colossale (www.masruido.it
).
Giorgio Sala
Mats Gustafsson / Paolo Angeli
Phonometak Series # 2
Phonometak - Wallace/Audioglobe
Seconda tappa della serie Soundmetak, secondo split in vinile edizione limitata per
l’etichetta creata da Xabier Iriondo e distribuita da Wallace. Anche questa volta (la
precedente uscita riguardava lo stesso Iriondo in compagnia degli Zu e gli americani
Iceburn) le due facciate si dividono tra due nomi di spicco dell’improvvisazione
mondiale, il sassofonista svedese Mats Gustafsson e il chitarrista sardo Paolo
Angeli. Siamo ovviamente nel campo della musica free meno accomodante, non
stupisca quindi sentire l’artista svedese esplorare in modo assai poco canonico il
proprio strumento, oggetto di sperimentazione sonora portata agli estremi che porta
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a sua volta alla formazione di microcellule di suono che sembrano lottare con il
silenzio che le circonda per riuscire ad emergere. Tre brani piuttosto simili quelli di
Gustafsson, mentre la seconda facciata, quasi un quarto d’ora per un unico lungo
brano registrato in concerto, ospita un saggio della bravura di Angeli, alle prese con
il proprio strumento d’elezione, una chitarra sarda preparata che si trasforma in una
tavolozza su cui costruire trame percussive, imbastire ambientazioni
elettroacustiche, pizzicare e sfregare le corde – ci si avvicina alle dinamiche degli
strumenti ad arco ad un certo punto,per poi sfiorare il noise - in un continuum che
non rischia mai di diventare un esercizio di bravura fine a se stesso. Un viaggio
attraverso le potenzialità dello strumento a corda che non può davvero lasciare
indifferenti (www.soundmetak.com).
Alessandro Besselva Averame
Muffx
…Saw The…
Beard Of Stars
Aliena da quelle che sono le dinamiche del mercato di tendenza italiano, sia indie
che metal e consapevole che comunque si parla pur sempre di nicchie, la Beard Of
Stars sin dagli esordi ha scelto una propria linea, collocabile tra lo stoner, il rock
psichedelico e certo garage rock’n’roll. Il tutto quasi sempre condito da artwork
bellissimi, realizzati dalla Malleus Art. La label di Savona pone davanti a tutto
l’istinto, ovvero quella volontà di riportare il rock alle fondamenta, alle radici
primitive, dove rabbia, sogni e frustrazione, possono davvero diventare il motore per
allestire una band. La dimostrazione vivente sono questi Muffx, quartetto salentino
che debutta con un album pieno di schermaglie rock, accordi scalfiti da una voce
che azzanna melodie , come nell’incredibile “Breakfast With The Devil”, dilaniata da
un synth, che cola sopra un riff grasso. E questa è probabilmente la traccia più
significativa delle nove totali, ma dobbiamo segnalare anche la cupa “La Cafard”,
l’incedere rumoroso di “Hot Ice Eyes” e la chiusura danzante di “My Popper”.
Ascoltando “…Saw The…”, si ha la sensazione che i Muffx sianmo spinti da un
impulso naturale e procedono nell’unica direzione possibile, un rock soffocante, fatto
di riff, segatura e sacchetti di plastica sulla faccia e pare quasi fuori posto l’arpeggio
di “Desert”, anticipazione di una “Song For You”, sorta di danza ubriaca, sorretta da
una melodia sbilenca e da un cantato atonale (www.myspace.com/muffx).
Gianni Della Cioppa
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Museo Kabikoff
Brilliant Cagnara
Videoradio/Erazero
“Too much information”, cantava qualcuno: un sacco di input, una frastornante
girandola di informazioni. È il manifesto costitutivo per il secondo album dei Museo
Kabikoff. Un tessuto sdrucito, nervoso, un cavallo che s’imbizzarrisce senza
accettare il lazo. La cagnara – “brillante” e post-tutto - fagocita e maneggia linee
discontinue e feroce sovrabbondanza. Con una line-up rinnovata e Fabio Magistrali
in cabina di regia, il gruppo del chitarrista Alberto Turra declina free-jazz, crossover,
balcan punk e disarmanti melodie, non-sense, rock selvaggio dalle larghe fauci
elettriche, stropicciature mediorientali. La missione sociale dovrebbe essere la
rinuncia a gestire la molteplicità, l’impossibilità di ridurre a uno ciò che è complesso.
Invece i Kabikoff quella cagnara la compendiano con sagacia e cattiveria, sia che
ondeggino verso un funk a nervi scoperti, in “Cart(il)agine” o in “Non esiste”, sia che
inserti ritmici dispari sottraggano le poche certezze residue (“La madonna medusa”).
I due minuti strumentali di “Essaouira” sono scuri, i sette e mezzo di “Dea” sfibrati;
“Gina” è rhythm’n’blues deviato con un’apertura d’ingannevole dark-pop. È una
strega la cantante Chiara Castello, non stanno tranquilli un attimo il basso negroide
di William Nicastro e la batteria guastatrice di Marco Cavani; di Turra manco a
parlarne. Frank Zappa e Nine Inch Nails, Vernon Reid e Queens Of The Stone Age.
Post-industriali e davvero poco confortevoli, ribollente è il frullatore di suoni Kabikoff
(www.museokabikoff.com).
Gianluca Veltri
The Tunas
Au…GoGo
Gravedigger’s
Il migliore disco garage-punk italiano degli ultimi mesi è targato Tunas, quintetto
bolognese che dopo il primo singolo “I Want You (Dead)” (Psychout, 2006) fa uscire
finalmente il tanto atteso debutto sulla lunga distanza, prodotto da Gravedigger’s
Records, etichetta sarda dell’appassionato cultore degli anni 60 Fabrizio Floris
specializzata in uscite sixties-punk. I modelli di riferimento dei Tunas sono
ovviamente i gruppi garage (Sonics, Chocolate Watchband, Tell-Tale Hearts,
Gravedigger V, Morlocks), ma il loro sound risente fortemente anche di influenze
soul, rhythm’n’blues, punk’n’roll. Volendo fare un paragone con formazioni più
recenti mi vengono in mente soprattutto gli svedesi Maggots e gli ultimi Hives (“Indie
Kids”). Dal vivo dicono siano la più travolgente garage band italiana in circolazione,
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merito anche delle incontrollate performance di Erica, ballerina “non stop dancing”
del gruppo. Le tredici tracce di questo nuovo lavoro non concedono un attimo di
respiro e ispirano balli sfrenati con la loro energia, irruenza e carica irrefrenabili. Si
passa dal puro garage del brano d’apertura “Girl, You Turn Me On” e di “Don’t Talk”
all’R’n’B selvaggio di “Graveyard Mary” e “You Put A Tiger In My Pants”, per arrivare
al r’n’r scatenato di “She (Made A Slave Of Me)” e “Let’s Steal A Tractor”, uno degli
episodi più trascinanti. “Never Ending Summer” e “In Your Time Of Dying” sono altri
due r’n’r ipercinetici con deraglianti inserti di armonica. Splendida con le sue
venature soul “You’re Not A Punk”, un avvertimento per chi oggi crede di essere
punk. Se volete seguire un mio consiglio, fatevi contagiare da questa incontenibile
orgia di suoni rock’n’roll (www.myspace.com/tunabomber).
Gabriele Barone
Thrangh
Erzefilish
Altipiani/Goodfellas
Penalizzati da un nome (che probabilmente sarebbe piaciuto al futurista Filippo
Tommaso Marinetti ma che risulta davvero poco radiofonico) e da una veste grafica
quanto meno rivedibile e che non credo verrà ricordata negli annali (il vostro
recensore ha impiegato un mese abbondante per vincere l’idiosincrasia nei confronti
dell’agghiacciante copertina…), i Thrangh confezionano un’opera semplicemente da
applausi. Il viaggio del quartetto romano muove dalle sperimentazioni strumentali e
dalle improvvisazioni care, ad esempio al maestro John Zorn o ai progetti, i più
estremi, dell’altro maestro Mike Patton (o, per restare da “noantri”, degli Zu) e riesce
a modulare fiati in salire, percussioni diaboliche, scale ricche di un magnetismo che
non ci sorprenderebbe affatto ritrovare dalle parti di Chicago con un’attitudine, una
vena, un afflato che senza timore di smentita può venir definito “punk”. Il più delle
volte è una confusione tutt’altro che caotica a reggere la scena, mentre altrove ci
sono momenti di calma apparente (“Cobra verde”) che si trasformano, con
l’elettricità che accompagna i grandi, in suite dall’enorme impatto. “Asa Nisi Masa” e
la lunghissima (quattordici minuti) title-track, poi, commuovono nel ricordo dei
Morphine e di quegli incroci tre blues, jazz e indie che rappresentano il vero e
proprio filo rosso di una dozzina di brani eseguiti senza soluzione di continuità, un
po’ come erano soliti fare i Ramones, e che confermano le incredibili capacità dei
Thrangh (www.thrangh.it).
Gabriele Pescatore
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Urania
Kainua
autoprodotto
Formatisi su iniziativa di due nomi conosciuti della scena emiliana, il chitarrista
Giulio Sangirardi (ex Votiva Lux) e Mimmo Mellace (già percussionista de Il Parto
delle Nuvole Pesanti), in seguito affiancati dal basso di Francesca Baccolini e dalla
chitarra di Gianfranco Riga, gli Urania sono nati essenzialmente come live band
dedita ad uno space rock dalle cadenze percussive e dalle coloriture post rock (ma
anche shoegaze, ci verrebbe da aggiungere, se non ci sembrasse sempre un poco
una parolaccia). Scelta impeccabile, dunque, veicolare attraverso questo EP
d’esordio alcune registrazioni tratte da concerti bolognesi dello scorso anno, e
sigillarlo in chiusura con un brano in studio. Parlando dei titoli dal vivo, emerge
soprattutto un ottima intesa tra i componenti del gruppo, una sezione ritmica dalla
non comune inventiva e un suono di chitarra molto eclettico, che predilige le
pennellate atmosferiche ma non disdegna incursioni acide. Passa in secondo piano
la scrittura, prevale la jam sulla costruzione articolata, ma vista la natura live del
progetto quelli che parrebbero teoricamente difetti non danneggiano la riuscita
dell’operazione. Tuttavia dobbiamo ammettere che ci intriga assai di più il breve
frammento in studio, “Navile”, delicata ragnatela di arpeggi acustici circolari e tocchi
misurati di viola, quella di Marco Dainese dei BEV. Attendiamo quindi sviluppi in tal
senso, visto che la testimonianza live ci pare di per sé sufficientemente esplicativa (
www.uraniaband.it).
Alessandro Besselva Averame
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…a Toys Orchestra
Tristissimo, dirompente, fragile, esaltante: fondamentalmente rock emozionale.
Questo è “Techicolor Dreams” (Urtovox/Audioglobe). Un ottimo ritorno per i campani
più giocherelloni d’Italia che invece di maturare – visto che si tratta del loro il terzo
disco – continuano a giocare imperterriti. Ogni canzone pari alla gioia infantile di una
bolla di sapone: soffiate pure e fateci il favore di non crescere mai. Ne parliamo con
Enzo Moretto, cantante e chitarrista della formazione.
Dopo “Job” (Fridge, 2001) e “Cuckoo Boohoo” (Urtovox, 2004), alla luce di
questo vostro terzo disco ufficiale vi sentite – almeno questa è l’impressione
che si ha ascoltando le movenze di “Mrs. Macabrette” o “Powder On The
Words” – meno esterofili rispetto al passato e più vicini alla tradizione della
forma canzone di stile italiano, pur continuando a cantare in inglese?
Personalmente ascolto ed ho sempre ascoltato molta musica italiana: da Morricone
e i compositori di colonne sonore, a Luigi Tenco, De André, Rino Gaetano, la
Rettore; passando per Alberto Rabagliati e Domenico Modugno. Ultimamente sto
riascoltando molto le voci femminili degli anni 60: Dalida, Mina, finanche Gigliola
Cinquetti. Penso che come succede per tutte le altre, anche queste canzoni lancino
un input che confluisce poi inevitabilmente nella scrittura. È difficile negarsi esterofili
se si canta in inglese, ma qui potremmo entrare in un discorso che va dal gusto al
background fino a scelte personali ben precise. Musicalmente ci sentiamo europei e
siccome l’Italia è in Europa nessuno può contestarcelo. Comunque, mia madre mi
dice sempre che da bambino adoravo Alberto Camerini.
Come si è evoluto in questi anni il vostro modo di comporre?
Gli anni passano e ci sono cose che cambiano e altre che si radicano. Penso che la
stessa cosa succede pure per il modo di comporre: ci sono cose che abbandoni e
altre che consolidi. Tendenzialmente ci piace rinnovarci ciclicamente, ma allo stesso
tempo ci sono esperienze di cui facciamo tesoro. Siamo al terzo disco e non mi va
di parlare di maturità, mi piace dire sempre che stiamo crescendo.
Ad un certo punto della vostra vita musicale avete aggiunto i puntini di
sospensione prima del vostro nome: cosa vi premeva sottintendere?
…a Toys Orchestra, si scrive con i puntini sospensivi e l’articolo indeterminativo
minuscolo. Probabilmente ci sembrava che rendesse il nome, meno carico di
responsabilità. Gli dà quel tocco di sospensione nel vuoto, non è facile da
descrivere…forse così lo sentivamo più comodo, meno ridondante e più vicino alle
nostre personalità, ma anche più intrigante. Ognuno può vederci qualcosa in quello
spazio. Poi in questo modo in ordine alfabetico siamo sempre i primi!
Come sono i sogni in technicolor?
“Technicolor Dreams” è una citazione di un termine molto usato negli ambienti
psichedelici degli anni 60. Ha un suo lato ironico, in quanto penso che quello spirito
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sia fuori dal nostro tempo, ma ne ha anche uno molto onirico che si riferisce alla
tecnica del technicolor introdotta nel cinema, che serviva a trasformare le pellicole
dal bianco e nero, al colore, per cui ho pensato che in un epoca in cui i sogni
sembrano sempre più sbiaditi e inflazionati, a vantaggio di una realtà il più delle
volte triste e soffocante, sarebbe stato bello ridonargli colore.
Qual è la storia del disco maggiormente riuscita che vi ha soddisfatto di più
dal punto di vista letteral-musicale?
Per me che le scrivo, hanno tutte un loro senso e una loro ragione di esistere. Con
mia sorpresa mi accorgo che la gente si affeziona a quelle più tristi e malinconiche.
Quali musicisti sono insiti nel vostro cuore?
Di musicisti fossilizzati nei nostri cuori ce ne sono davvero tanti. Personalmente mi
porto dentro Barrett da sempre. La prima cosa che imparai a suonare alla chitarra fu
il riff di “Interstellar Overdrive”, la seconda, se non sbaglio, fu “Come As You Are”
dei Nirvana.
La dipartita del batterista Fabrizio Verta, in che modo, se l'ha fatto, ha
cambiato il modo d'operare della band?
All’inizio ci sembrava una tragedia. Con Fabrizio avevamo un grosso feeling e
quando ci ha comunicato che avrebbe lasciato il gruppo fu un vero colpo. Aveva le
sue imprescindibili motivazioni per farlo, ma noi ci trovavamo con il culo per terra.
Poi si presentò Andrea. Conosceva tutte le canzoni e quando lo provinammo ci
folgorò. Adesso ci sembra quasi come se ci
fosse sempre stato..
In quali circostanze avete incontrato Dustin O'Halloran dei Devics che ha
prodotto artisticamente il disco?
Dopo il tour di “Cuckoo Boohoo” ho scritto una manciata di canzoni tutte al
pianoforte. Pensai che per interpretarle al meglio in registrazione ci sarebbe tornato
utile il supporto di una persona dalla grossa sensibilità pianistica. In quel periodo
ascoltavo tutti i giorni “Piano Solos” di Dustin O’Halloran. Ho capito che lui era la
persona giusta.. Paolo di Urtovox mi ci ha messo in contatto pochi minuti dopo che
gli comunicai la mia volontà. Quando Dustin ha ascoltato i provini si è veramente
entusiasmato. È stato formidabile lavorare con lui. Non si è mai messo davanti a
noi, né ha mai cercato di creare un ipotetico ibrido “…a Devics Orchestra”, ma ha
lavorato soprattutto sulla ricerca della nostra personalità musicale e ci ha indotto ad
enfatizzarla. Ha voluto dare il suo contributo anche suonando qua e là nel disco.
Siamo diventati davvero ottimi amici. Credo che nel periodo delle registrazioni, quel
disco lo sentisse quanto noi, anche e soprattutto dal punto di vista emozionale.
D’altronde abbiamo trascorso un mese chiusi in un casolare di campagna senza TV,
radio e Internet. Oltre a suonare passavamo molto tempo a chiacchierare e
passeggiare nei campi di meli, a fare la pasta in casa, i dolci, a bere vino e a
combattere con le zanzare. L’empatia era nell’aria.
Tre delle canzoni di “Technicolor Dreams” faranno parte della colonna
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sonora di "The Beautiful Ordinary" di Jess Manafort, film in uscita. In base a
cosa avete scelto le canzoni da fargli usare?
Anche in questo caso devo ammettere che è accaduto grazie a Dustin. Come saprai
lui lavora spesso a colonne sonore, anche molto importanti, come ad esempio
quella per “Marie Antoinette” di Sofia Coppola. Subito dopo il nostro disco, Dustin
stava appunto curando la soundtrack per il nuovo film di Jess Manafort.
Chiacchierando con lei della sua esperienza in Italia siamo venuti fuori noi. Lei si è
incuriosita ed ha voluto ascoltare il nostro disco. Fortunatamente le è piaciuto molto,
tant’è che ha voluto assolutamente che fossimo inseriti nelle musiche del suo film.
La pellicola uscirà in America in estate e dovrebbe arrivare in Europa in autunno e
siamo molto curiosi di vederlo montato. Per noi è un grosso traguardo raggiunto, un
obbiettivo che avevamo in cantiere da tempo!
Cosa potrebbe significare l'immagine in copertina di due gemelle siamesi
rivolte in direzioni opposte?
Non mi piace dare una spiegazione ad ogni cosa, anche se io ne ho una mia
personale, preferisco che ognuno posso vederci quello che ci vuole vedere. Nel
crearla, insieme al disegnatore Roberto Amoroso, abbiamo giocato molto sul
personaggio di Alice nel Paese delle Meraviglie, creando un miscuglio di favolistica
e sinistro. Le due teste, possono far pensare a un freak, o a uno sdoppiamento di
personalità, ad un’affezione da bipolarismo. Ilaria (D’Angelis, tastierista e cantante
della band, NdI) ed io abbiamo cercato di cogliere bene le sensazioni delle immagini
e di rapportarle con la musica del disco. Mi stimola però pensare che qualcuno
possa vederci qualcosa di diverso da quello che ci ho visto io o Ilaria o Roberto:
come succede per i testi, talvolta mi ritrovo a scrivere delle cose assolutamente
intime e personali che riscopro essere storie di tutti.
Come sarà impostato il vostro live-act?
Come al solito con un sacco di strumenti sul palco che ci palleggeremo tra noi.
Adesso dal vivo abbiamo aggiunto anche fisarmonica, glockenspiel, organo e
tromba ai classici basso, batteria, chitarre, piano e synth che già utilizzavamo.
Abbiamo mantenuto il nostro impianto rock colorandolo con altri “giocattoli”.
Contatti: www.atoysorchestra.com
Francesca Ognibene
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Ennio Rega
“Lo scatto tattile è nell’imperfezione della memoria e nel suo recupero. Dopo molti
anni i miei ricordi sono unici, non somigliano a quelli di nessuno con cui ho vissuto
le stesse esperienze. Io scrivo canzoni per far sì che la mia memoria lotti contro
l’oblio e restituisca il mio cinema”. Questo è Ennio Rega, musicista la cui prolificità
discografica è inversamente proporzionale al brillante valore delle sue produzioni.
“Lo scatto tattile” (Scaramuccia/Egea) è il suo ultimo, bellissimo, album.
Si fa fatica a capire cos’è più importante per te, tra testo e musica.
Il mio approccio è per ogni canzone diverso, ma ho sempre pensato che la musica
fosse più nobile delle parole. Le parole restituiscono ciò che il nostro animo canta, il
pensiero è aria, l’aria è un suono. Ci sono parole che nascono sui tasti e procedono
senza intoppi, Musica e parole nascono e procedono insieme ma a volte rispulcio un
tema musicale precedentemente composto e ci penso sopra una storia.
Non tratti gli ascoltatori come dei deficienti, anzi chiedi loro molto. Che idea
che ti sei fatto del tuo pubblico?
Negli anni 70 il mio non sarebbe stato chiedere molto, anzi sarei stato criticato per
non aver chiesto abbastanza. Dovremmo recuperare l’orgoglio dell’eccellere in
fantasia e grandezza dell’arte. L’uomo si emozionava di più nel paleolitico inferiore,
la verità è insita nel gesto antico, è sul papiro. Il mio non è un pubblico di tipi da
spiaggia, di quelli che sull’asciugamano, con l’ausilio di stecchini, si abbronzano
anche la pelle sotto le unghie. Per il mio pubblico (dall’appassionato, in senso
stretto, colto, al ventenne dei centri sociali), l’eccellere in sentimenti ed emozioni
vere, l’originalità del fraseggio musicale, sono buone ragioni per ascoltare un
musicista.
Da cosa nasce “Lo scatto tattile”? Ci spieghi questa immagine di un senso –
il tatto – associato a un movimento fulmineo?
Quando salendo delle scale calpesto foglie morte abbandonate naturalmente
all’indifferenza del mondo, per un attimo riconosco il suono sotto la mia scarpa 28
del 1960. Lo scatto tattile è anche il suono evocativo provocato da un passo. Ogni
grande sogno è nella nebbia.
“Lavoro studio sviluppo” è la tua presa di posizione contro la guerra. Usi un
collage di immagini molto forti, su cui incombono il cinismo e la distrazione
del mondo. La musica mi fa pensare quasi a un drammatico musical (un
ossimoro). Ci racconti la canzone-guida del disco?
È una delle più belle canzoni che abbia scritto, una grossa fatica, nel parlare di
guerra si rischia una sconcertante ovvietà. Voleva essere la canzone guida del
disco, non mi pare che lo sia diventata, forse perché ho chiesto molto all’ascoltatore
(il “drammatico musical”). Ma la poesia e il canto non ignorano le ingiustizie sociali.
È prioritario per me dimostrare che scrivendo o cantando non smarrisca la mia
facoltà di giudicare.
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Davvero tutto è solo a beneficio dell’intrattenimento, anche il dolore di un
padre? Questo mondo disumanizzato e shakerato che tu canti, di cosa è
malato?
Non mi invento niente, stavo in un pub con tanto di schermo, il telegiornale
trasmetteva le immagini strazianti da Bagdad del padre urlante con la figlia morta tra
le braccia, nessuno si è fermato un attimo a riprendere fiato, anzi la birra era ancora
più gradita, tutto scontato, anche l’uccisione gratuita di un bambino. La
disumanizzazione di cui è malato il mondo passa anche per l’industria musicale,
anche al giro d’affari dovuto alla vendita di suonerie, che collaborano a fornire ai
giovani una visione della realtà ridotta e inadeguata. Se non impariamo dal passato
non avremo un futuro migliore.
La violenza giovanile è diventata un tema centrale della nostra società te ne
occupi in “Un treno di conseguenza”. Imperano il bullismo, la sopraffazione,
l’insofferenza facile. Tu cerchi di metterti dall’altra parte: cosa hai scoperto?
Io sono assolutamente tutto dall’altra parte e continuerei ad esserlo anche se, spero
mai, ne diventassi io stesso vittima. Specifichiamo, parlo di violenza giovanile e non
della violenza delle maestre che abusano sessualmente dei bambini. I giovani sono
stati parcheggiati nella discarica delle tecnologie pseudo-innovative. La violenza
giovanile è il frutto di questa mancanza di etica che continua a seminare,
globalizzandosi nei media, alimentando xenofobia nel dna della piccola borghesia.
Non riesco ad associarti a null’altro di italiano. Una piccola dose di CSI, una
piccolissima di Avion Travel… Ma poi penso soprattutto a Kate Bush, alle Voci
Bulgare. C’è qualcuno a cui ti senti più vicino, a qualsiasi titolo?
Mi sento vicino per ragioni diverse a tutti quelli che hai nominato e davvero
complimenti per aver colto qualcosa di verosimile, mi fa piacere perché questo
accostarmi ad altri cantautori seppure grandissimi mi pare ingeneroso. Ho dischi di
jazz, rock, classica poi il mio vinile spazia da Mina a Little Richard a tutto Zappa, a
Berio e Nono ma cantautori mai ascoltati se non casualmente per radio. Questa è
tutta la pura verità. Apprezzo De André, Tenco, Ciampi, Conte, Gaber e io sono
della stessa “razza in estinzione” che detesta termini come format, target,
audience… Ma le mie passioni musicali spaziano dalla classica a Bud Powell ai cori
di Ray Conniff; soprattutto fu il rhythm & blues a folgorarmi.
Stai portando in giro il tuo lavoro in una versione alquanto diversa da quella
realizzato in studio. Come sta andando il tour tattile?
In studio sotto molti aspetti viene meglio, ma nei club c’è il pubblico che produce
adrenalina pura, in sala di registrazione ti rivolgi a un fonico. Se questa rivisitazione
in trio è riuscita lo si deve al fatto che i brani ci sono, a prescindere dall’orchestra. È
un trio (io al pianoforte e voce, Lutte Berg alle chitarre e cori, Tina Muto al
contrabbasso ad arco e cori) che vorrò proporre in un tour teatrale. In estate
passerei volentieri al sestetto dei jazzisti improvvisatori perché, a modo mio, sono
un grande improvvisatore e cambierei volentieri ogni sera introduzioni, strumentali e
finali, a pelle, nell’attimo, l’ho sempre fatto in passato e non cambierò mai. La
musica è il mio grande gioco, spero che non mi si trasformi tra le mani in mestiere.
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Contatti: www.enniorega.com
Gianluca Veltri
Epo
Una bella sorpresa tutta italiana, gli Epo. Non è facile trovare lavori di qualità in
grado di coniugare una musica affascinante e liriche in lingua di Dante nient’affatto
banali, o spocchiose, o – come spesso accade – assolutamente esilaranti. Ne
parliamo con Ciro, voce e anima principale del progetto che, con “Silenzio assenso”
(Blend'r/Venus) è diventato un vero e proprio gruppo.
"Silenzio assenso" è il vostro secondo disco. Come si è evoluta la vostra
storia musicale in questi anni? Che tipo di esperienze avete raccolto e da
dove siete partiti per questo vostro nuovo lavoro?
Gli anni che dividono “Il mattino ha l’oro in bocca” da “Silenzio assenso” sono serviti
innanzitutto a saldare i rapporti all’interno degli Epo. All’epoca del primo disco “Epo”
era un nome di un progetto musicale; il tempo ha trasformato i “collaboratori” al
progetto in una vera e propria band. I consensi riscossi dall'album e dai nostri
concerti ci hanno convinti a spingerci ancora un po’ oltre nella ricerca di una identità
sonora. Il fine era quello di realizzare musica pop fruibile, utilizzando suoni o
sensazioni poco convenzionali.
Le sonorità sono moderne ma il gusto melodico è figlio di un certo modo di
intendere il pop in italiano. Come avete conciliato queste due idee? C'è una
ricerca sonora particolare? Volete creare un'atmosfera particolare?
Cerchiamo di dare il giusto vestito alle canzoni, rispettando innanzitutto il senso del
testo e senza preoccuparci troppo di dare una coerenza d’insieme al disco. Anzi.
Ben venga un disco eterogeneo che non annoi in fretta l’ascoltatore in modo che, di
tanto in tanto, possa scoprire una sfumatura che non aveva colto prima.
Parliamo dei testi. Nel disco si snocciolano immagini che possono essere
quotidiane, le metafore sono di impatto e le parole si legano magnificamente
alla melodia. Rimane però un vago senso di cripticismo, come se non dicessi
tutto e lasciassi intende che c'è molto "dietro lo specchio". Cosa c'è dietro?
In fondo le canzoni, in una maniera o in un'altra, parlano di me. Probabilmente a
volte scrivo cose talmente personali che possono essere colte solo da persone che
mi conoscono bene o, forse, solo da me stesso. Di solito, dietro lo specchio ci sono
le stesse cose che si trovano davanti ad esso. È la nostra visione personale, quindi
necessariamente parziale, della vita che le interpreta, codifica e trasforma nella
“nostra” realtà.
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Da cosa partono i tuoi testi? Esperienze personali? Immagini? Situazioni
ideali? Nella nostra recensione si accennava a Mogol/Battisti ed è vero, ma
parlando di contemporanei ho trovato una certa affinità con Paolo Benvegnù...
Diciamo che utilizzo di tutto, dalle mie sensazioni alle esperienze personali. Da
considerazioni sulla realtà che mi circonda alla pura fantasia. Sono cresciuto con le
canzoni di Mogol/Battisti, credo che alla fine le cose che ti influenzano di più sono
proprio gli ascolti fatti da piccolo, quando “usi” la musica in modo incosciente.
L’accostamento a Paolo non può che onorarmi, ho amato tantissimo gli Scisma e
amo anche i suoi lavori da solista. Ho ascoltato le sue nuove canzoni ultimamente e
il fatto che abbia ancora la capacità di essere così ispirato e vivo è un gran
bell’esempio da seguire per me.
C'è qualche personaggio - poeta, scrittore, cantautore? - a cui ti ispiri in
modo particolare?
Le poesie di Allen Ginsberg sono sempre un bel posto da visitare di tanto in tanto.
Cosa nasce prima, il testo o la musica?
Non ho un metodo preciso. Ho spesso la sensazione di non scrivere io la canzone,
ma che la canzone si lasci scrivere da me. Aspetto ore che succeda qualcosa su
quel foglio bianco, ma nulla accade. Poi in pochi minuti il testo e la melodia sono li.
Magari non finito, ma l’ossatura principale è sotto ai miei occhi.
Siete un gruppo molto "lirico" ed è quindi normale che cantiate in italiano.
Cosa pensate dell'esterofilia dilagante nell'underground italiano? Non sembra
quasi si voglia mascherare il fatto di non aver cose da dire?
Potremmo dire che non è necessario un testo per avere un messaggio. Nel senso
che magari si riesce a veicolare una sensazione anche solo con la voce intesa
come strumento.
Di certo è anche una scelta comoda. L’italiano è una lingua davvero difficile da
addomesticare all’interno di una struttura canzone. Soprattutto se vuoi evitare luoghi
comuni o strade già battute.
Come è stato accolto il disco dal pubblico? E dalla critica?
“Silenzio assenso” è stato accolto molto bene dalla critica. La cosa che non ci
aspettavamo era questa accoglienza così calda da parte del pubblico. Ho scoperto
tanto affetto intorno agli Epo. Un affetto fatto di persone che hanno scoperto per vie
traverse il nostro primo disco e lo avevano amato.
Ora quale sarà il vostro prossimo passo?
Continueremo a fare altri concerti in giro per l’Italia, credo che ripartiremo a maggio,
e realizzare un secondo videoclip, per promozionale ulteriormente il nostro lavoro e
per cercare di arrivare a quante più persone è possibile.
Contatti: www.epo.na.it
Hamilton Santià
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Laundrette
Quattordici anni, quattro dischi. Questo il bilancio dei Laundrette, che tornano sulle
scene grazie alla fiorentina Black Candy (distribuita da Audioglobe) con l’ispirato “A
State Of Form”. Ne parliamo con Marco Carlini, batteria e voce della band.
Esistete dal '93 e avete pubblicato solo quattro album. Il vostro lavoro
precedente, "Weird Place To Hide" è del 2003. Cosa è successo in questi
quattro anni? Come mai vi prendete sempre tutto questo tempo tra un disco e
l'altro?
Quattro anni possono essere tanti nella vita di una band e possono essere pochi
nella vita di tre persone che cercano di far convivere il proprio percorso musicale
con il proprio quotidiano. Nelle nostre vite sono però successe tante cose,
fortunatamente, perché sono le stesse cose che ci hanno permesso di realizzare un
disco molto sincero e intuitivo dopo un periodo delicato coinciso con l'uscita dalla
band di Lucio, uno dei membri fondatori della band. È stato un esame difficile che ci
ha frenato ma allo stesso tempo profondamente stimolato. Soprattutto ad
affrancarci da certe dinamiche cervellotiche che avevano caratterizzato i nostri ultimi
periodi come quartetto e a ricercare un linguaggio più diretto. In generale,
comunque, ritengo che possa essere relativamente facile sfornare un disco dietro
l'altro, mentre può essere una bella e dura prova mettersi in gioco alla lunga
distanza facendo i conti con l'esperienza.
Quarto disco, quarta etichetta. Come è nato il legame con Black Candy? Che
differenze ci sono nel loro modo di lavorare rispetto alle altre vostre
esperienze? Cosa vi ha convinto?
Conoscevamo i ragazzi di Black Candy fin da un nostro concerto che organizzarono
anni fa. E naturalmente conoscevamo il buon lavoro che l'etichetta stava facendo,
così come molti dei loro gruppi. Quando abbiamo deciso di far sentire il nostro
materiale ad alcune label, ci siamo limitati ad un ristretto gruppo di etichette che
apprezzavamo, e fra tutti loro si sono dimostrati subito interessati. E poi ogni tanto ci
piace scherzare con gli amici di You Should Play In A Band e dire che in realtà noi li
seguiamo a ruota in qualsiasi etichetta loro si accasino, per riuscire a fare più date
insieme, che è sempre un piacere. In questo lasso di tempo ci sembra di poter dire
che questa esperienza con Black Candy ci ricorda, a livello di atmosfera, quella di
parecchi anni fa con Gamma Pop più delle altre.
Da dove parte "A State Of Form" rispetto ai vostri precedenti lavori? Qual è la
sua "forma"?
Direi che "A State Of Form" nasce più da un istinto a togliere che a mettere, a
semplificare più che a decorare. Una scelta che se per certi versi è stata frutto di
una necessità, dall'altra si è rivelata ciò che inconsciamente volevamo e cercavamo
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senza rendercene conto. Questo ci ha permesso di concentrarci particolarmente sul
songwriting. E di conseguenza la forma del disco è la forma canzone, come non lo
era mai stata in precedenza.
Come mai siete tornati in tre? Cosa non vi ha convinto nell'esperimento a due
chitarre?
Non è che l'esperimento a due chitarre non ci avesse convinto. Tutt'altro. "Weird
Place To Hide" in questo senso era per noi un esperimento ben riuscito, il primo
passo di un percorso che avevamo fortemente voluto e un lavoro al quale siamo
tuttora affezionati. Esserci ritrovati improvvisamente un trio ci ha però messo di
fronte a una scelta. O cercare ancora una seconda chitarra e provare a ricostruire
un feeling con un nuovo elemento, oppure continuare in questa nuova realtà, alla
quale non eravamo di certo estranei. Però in sala prove si era creata una situazione
per cui la carica era tale che non sentivamo la necessità di altro, per le cose su cui
stavamo lavorando. Per cui la risposta è venuta da sé.
Le coordinate del vostro suono non hanno mai subito delle rivoluzioni
copernicane. Come voi, molte altre band in giro per il paese. Come mai questo
tipo di suono ha trovato terreno fertile in Italia? Negli anni passati c'è stata
una vera e propria messe di uscite... Cosa può contribuire alla popolarità; almeno presso gli addetti ai lavori - di un genere anziché un altro? Oltre al
gusto personale, s'intende.
In realtà, se penso ai nostri quattro lavori – e se penso a band che con noi hanno
iniziato e condiviso un percorso più che decennale – vedo che si è portato avanti un
proprio linguaggio, disco dopo disco, tanto che ormai certe band le riconosci al
primo ascolto. Che poi la stagione di un certo suono americano sia stata per molti
una stagione esaltante, è vero. Da lì si è appreso parecchio più dal punto di vista
attitudinale che stilistico, a fare le cose con grande professionalità anche quando
non si è professionisti. Inoltre in Italia quel fenomeno non poteva che trovare terreno
fertile, poiché da noi il rock non è mai stato cultura popolare come in altri paesi. Per
cui un genere all'apparenza difficile e "per pochi" non poteva che conquistare, come
successe tempo addietro con il progressive. Salvo poi conoscere personalmente gli
artisti che ci sono dietro e capire che non c'è niente di difficile ma che in realtà ci
sono delle persone molto semplici e alla mano.
Coltivate ancora i vostri progetti paralleli?
Il nostro progetto parallelo importante è stato quello dei Red House Blues Revue,
che ci ha impegnato e assorbito a tratti come un vero e proprio gruppo. Al momento,
per questioni pratiche più che artistiche, siamo in fase di attesa. Sean Meadows è
da un paio di anni papà e per lui tornare in Italia con la stessa assiduità di un tempo
è diventato più difficile. Ma la voglia di ritrovarci c'è in tutti. D'altronde
l'appuntamento semestrale o annuale con Red House Blues per fare concerti o
comporre e registrare era diventata una piacevole consuetudine che aspettavamo
con ansia, un po' come un compleanno.
E in futuro cosa farete? Avete qualche idea?
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Adesso ci godiamo questo momento e i frutti di "A State Of Form". Contiamo di
suonare assiduamente dal vivo, e speriamo di poterlo fare in buona parte anche
all'estero. Per il futuro, ogni tanto diciamo che la prossima sarà la volta buona di
inserire qualche strumento più classico ed orchestrale nella nostra musica. Magari
nel prossimo lavoro avremo voglia di mettere più che di togliere.
Contatti: www.laundrettetheband.com
Hamilton Santià
The Wild Week-End
Il punk’n’roll più eccitante, furioso e adrenalinico esistente oggi in Italia ha un nome:
The Wild Week-End, terzetto salernitano con due singoli alle spalle e due album
licenziati da una delle migliori label hard-r’n’r-punk nostrane, la Nicotine. Il gruppo
omaggia le radici punk ‘77 (Dead Boys, Heartbreakers, Saints, Ramones), il lo-fi
punk degli anni 90 (Rip Offs), con aperture al power-pop e incursioni hard/glam,
seguendo un crudo approccio da garage band. Con “Orrendo rock” il combo ha
messo a segno uno dei più bei dischi punk’n’roll del 2006. Ne abbiamo parlato con
Gianpaolo Trifone/Wil JP, fondatore della band.
Il vostro ultimo lavoro, “Orrendo Rock”, ha avuto un ottimo riscontro di
critica. Come sta andando l’album?
Non saprei dare una risposta precisa. Il fatto è che francamente a noi interessa
suonare. Diciamo che delle vendite si occupa la nostra etichetta; raramente si arriva
a vedere una “cosa di soldi”. Una band underground, in una città
under-underground, in un Paese (l’Italia) extra-ground che suona una musica come
la nostra, ossia punk rock tutto sommato fuori dagli schemi, non spera
realisticamente di vendere come Laura Pausini.
Raccontami la storia dei Wild Week-End, a partire dai loro esordi nel ‘99 con
Yena/Peppe Ferrari, originario bassista del gruppo.
È una storia lunga e tormentata. Peppe è un caro amico che all’epoca possedeva
un basso italiano anni 60 da quattro soldi. Prima di allora non aveva mai toccato uno
strumento musicale in vita sua. Quale migliore condizione per formare una band
punk rock? Al momento che mi fece la proposta, declinai l’invito. Io suonavo già da
dieci anni, ero passato dal blues alla psichedelia all’hard rock. Comunque, poi
abbiamo messo su la band, con un altro elemento degno di considerazione:
Stefano/Joe Braccialetto/Jannone. Dopo un esordio fallimentare in un locale
salernitano, ci sembrò il caso di fare una demo-tape registrata in presa diretta con
un solo brano originale e 5-6 cover, cantate senza conoscerne i testi. Mandammo
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subito questa “cosa” a “Rumore”; curiosamente fummo anche recensiti, ma fummo
stroncati. Qualche mese dopo ci abbiamo riprovato: nuova cassetta, sempre
schifosa, con qualche brano originale in più. Produzione rigorosamente casereccia e
via verso nuove recensioni. Per la verità, questa seconda volta nessuno si sognò di
darci credito. Il giorno prima di capodanno, abbiamo registrato il primo singolo “Next
Your Bombs” (2001) uscito su vinile per Lo-fi Records. Un grande disco. A quel
punto, non potevamo che farne un altro, “Hypertyroid” (2003), sempre su vinile e su
Lo-fi Rec, registrato in modo amatoriale. Anche quello, grande disco. Insomma, ci
pareva che il fatto di prendere le cose in maniera approssimativa e grossolana fosse
la chiave del successo. Naturalmente non è così, ma quello è diventato il nostro
modo di intendere la band. Poi Peppe ha fatto una figlia, se ne è andato fuori città, e
abbiamo cambiato organico. Il resto è storia.
Il nome della vostra formazione è un omaggio a una storica punk band
settantasettina, gli Zeros, detti i "Ramones messicani". In che cosa gli Zeros
sono stati per voi una fonte d’ispirazione?
Ci piacciono molto gli Zeros, ma non direi che ci abbiano ispirato più di altri. Per la
verità erano uno dei nostri ascolti fissi quando abbiamo
formato la band, per cui hanno finito col darci il nome. Le mie fonti di ispirazione
sono diverse. Io ho dei gusti musicali molto cafoni: mi piacciono i Black Sabbath e i
Kiss.
Il vostro sound, tipicamente punk'n'roll, è un ritorno alle radici, al punk '77.
Avete altre influenze?
Come dicevo, ci piace un sacco di musica diversa. Per quanto mi riguarda, Chuck
Berry, Lou Reed, Iggy, gli AC/DC, ma anche Sly and the Family Stone e i
Parliament, tanto per dire che non è necessario che si tratti di punk. Wild G – il
bassista – ha ascoltato per un certo periodo i neo melodici napoletani. Io
personalmente li odio, perché vivo nei quartieri spagnoli a Napoli dove dalla mattina
alla sera, se va bene, ti becchi Gigi D’Alessio a dei volumi che i Motörhead non
potrebbero neanche immaginare.
Che cosa rappresenta per voi il punk, se ha ancora un senso questa parola?
Il punk non rappresenta altro che musica. Voglio dire, lascio a chi ne ha voglia di
discutere del significato politico, sociale, filologico. A me piace il suono dei vecchi
Marshall e delle vecchie Gibson; mi piacciono i Dead Boys, i Ray Ban a goccia e i
giubbotti di pelle aderenti. Sono le cose che mi attiravano da bambino e che mi
hanno indotto a farmi comprare la chitarra da mamma e papà. Hai presente il video
dei Twisted Sister in cui il ragazzino risponde al padre “I Wanna Rock”? Ecco, quel
genere di stupidaggini lì sono il “mio” punk rock. Non ho motivi per pensare alla
musica in termini diversi che non siano lo svago.
C'è un motivo particolare per cui avete scelto per il nuovo album le cover di
Misfits (“Vampira") e Rose Tattoo ("Nice Boys Don’t Play R’n’R")?
La cover dei Misfits doveva andare su una compilation tributo che non è mai più
uscita, per quanto ne sappiamo. Quanto a "Nice Boys…", è un grande pezzo: una
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sera in sala parlavamo dei Rose, così abbiamo cominciato a suonare quel pezzo e
ci è parso che funzionasse.
Mi vuoi parlare dei Bulletz, un’altra tua band salernitana d’impronta più
hard’n’roll (con influenze tipo Hellacopters/Gluecifer)? Come mai non sono
più attivi?
I Bulletz sono nati per gioco. A un certo punto non erano più un gioco, come invece i
WWE non hanno mai smesso di essere. La colpa è stata essenzialmente mia. Io
sono uscito dal gruppo perché non avevo più voglia di suonarci, loro hanno
continuato un altro po’, poi Rasoio – il batterista – si è aggiunto ai Wild, ma
personalmente non ho più seguito la cosa dal momento in cui me ne sono andato.
Puoi farmi il nome di qualche promettente nuova r'n'r band italiana?
Il rock’n’roll, in Italia, può promettere una sola cosa: la fame. Penso ai
Transex, grande band, eppure qualcuno mi ha detto che si sono sciolti. Dunque
“band promettente” è per me una contraddizione in termini, almeno in riferimento
all’Italia. Come ti dicevo, i WWE sono uno spasso. Nulla mi appaga di più che
andare in giro a suonare con quei ragazzi. Non si può decidere però di fare una
roba come quella che facciamo noi (e quelli come noi) e sperare in “promesse” di
qualche tipo.
Contatti: www.myspace.com/wildweekend
Gabriele Barone
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Merci Miss Monroe
Covo, Bologna, 12/4/07
Eravamo in venti quella sera al Covo, in prevalenza ragazze, ma chi c’era aveva
anche percorso chilometri per vederli partendo da Mestre, aveva spostato turni al
lavoro, aveva consumato d’ascolti i primi due album. Insomma pochi, ma veri
estimatori del gruppo. Ed è un delitto perché i Merci Miss Monroe valgono davvero
tanto dal vivo. Hanno un impatto ultraefficace su quanti sono già almeno un pochino
predisposti alle svenevolezze dell’indie rock.
Molto è dipeso dalle ottime canzoni del loro repertorio. Presentavano “Some Minor
Crimes”, il secondo album appena uscito per Ghost, al quale ha dato il tocco da
maestro (masterizzandolo) il grande Kramer; naturale quindi chiedersi, avendo
apprezzato molto la registrazione, come sarebbe stato il live. A cominciare dalla mia
preferita su disco “At The Dawn Rendezvous” mi sono resa conto che talento e
sensibilità sono ancora possibili nel genere umano. Alla presenza poi del nuovo
batterista, i ragazzi di Saronno non smentiscono la solarità che avevano mostrato
già nell’esordio omonimo sempre su Ghost di tre anni fa, dal quale propongono
due/tre canzoni. Tra i nuovi brani meglio riusciti “Morning Star” che mette in risalto
nelle morbide trame melodiche la voce di Davide (cantante e chitarrista) che è
sempre più duttile – diventa punk infatti in “Pretty Pretty Dumb”. La cosa importante
anche se non fondamentale è che si sanno muovere sul palco, e quindi divertono,
senza contare una intesa nettamente maggiore rispetto a un anno fa. Concludono il
concerto con un taglia e cuci musicale dei loro pezzi resi dance per i saluti. Mi
chiedo come mai il mondo e Bologna in questo caso, fatichi ad accorgersi di loro.
Forse perché continuavano a spostare la data? In tutti i casi, non fateveli sfuggire.
Francesca Ognibene
Ronin
Covo, Bologna, 6/4/07
Suonare al Covo per Bruno Dorella è una novità, anche se sono vent’anni che
calca i palchi di tutta l’Italia. Sembra contento e balla un po’ spaesato le canzoncine
indie prima del concerto dei suoi Ronin. Poca gente ad accogliere il gruppo che
presenta “Lemming”, il secondo album della formazione, uscito all’inizio del 2007
per la Ghost. Peccato perché l’atmosfera creata dal trio - più Nicola Ratti (chitarra)
che ha quasi ammesso di fare parte del gruppo – coinvolge tutti i presenti, in una
passeggiata musicale attraverso le magnificenze di certe melodie così morbide,
dilatate, imponenti che non mi sono neanche accorta del tempo che passava a piè
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sfrenato. Bruno sembrava in trance, mentre si districava nell’arte di emozionarci.
Quando poi arrivavano i momenti più veloci quasi zingareschi, eravamo trasportati
in mille storie, come ad esempio “I Pescatori Non Sono Tornati”, che racconta delle
mogli, delle madri, delle sorelle che aspettano la sera – a volte invano - il ritorno dei
loro cari partiti a largo per pescare. Ė inverosimile l’emozione quando tutti loro
cantano una litania poggiata sulla lettera M, che richiama una tonalità gospel. Chet
Martino, che suona il basso, ha appreso una tecnica quasi sepolcrale per quanto
sembra oscuro il suo suono. Alla batteria il reggino Enzo Rotondaro, musicista dal
passato hard-core che qui esibisce tutta la sua levigatezza dal tono fermo, fino ad
essere il pilastro su cui poggia questa bella creatura animata da buone intenzioni
per affascinare il mondo all’ascolto. Alla fine dei conti delle teste, cinquanta o poco
più hanno potuto trarre giovamento da tutto ciò.
Francesca Ognibene
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Postal Market
“8 bit audio format”: il materiale su cui lavora Postal Market, progetto nato nel 2004.
Detto in altre parole: musica composta con i suoni del Gameboy Nintendo, per
cercare di capire che cosa ne viene fuori. Un’attività ludica se vogliamo, una forma
di intrattenimento, che in questo assaggio di 5 brani (un EP scaricabile in rete, sotto
l’egida di Casasonica) si mostra per quello che è: una operazione divertente e a
tratti ispirata, con palesi riferimenti (Certe pagine di Aphex Twin, i Mouse On Mars di
una decina d’anni fa, l’ironico ed evidente, sin dal titolo, omaggio ai Suicide di “Toast
Rider”) ma anche, per l’appunto, un’attitudine immediata e diretta, come il titolo della
raccolta, “Punk Attitude”, suggerisce. Ottimo antipasto, in attesa di qualcosa di più (
www.casasonica.it).
Alessandro Besselva Averame
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