Numero Ottobre `07

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Numero Ottobre `07
Numero Ottobre '07
EDITORIALE
Ben ritrovati a tutti.
Secondo un’abitudine consolidata, il primo numero dell’autunno del nostro inserto
telematico (o cartaceo, qualora ne abbiate stampato la versione in formato PDF)
coincide con l’annuncio delle nomination per il premo “Fuori dal Mucchio”,
assegnato al migliore esordio di un artista o di un gruppo italiano e giunto al non
indifferente traguardo della decima edizione. Al solito, il titolo dell’album vincitore
verrà scelto da una giuria composta dal nostro staff (Alessandro Besselva Averame,
Giuseppe Bottero, Gianni Della Cioppa, Loris Furlan, Federico Guglielmi, Damir Ivic,
Giovanni Linke, Francesca Ognibene, Aurelio Pasini, Gabriele Pescatore, Giorgio
Sala, Hamilton Santià, Gianluca Veltri, John Vignola, Fabrizio Zampighi) e da alcuni
ospiti, ovvero Fausto Murizzi (Rockit), Gianluca Polverari (Radio Città Aperta) ed
Eliseno Sposato (Radio Libera Bisignano).
Queste le “nomination” – frutto di un lavoro di cernita quest’anno ancora più
rigoroso del solito – scelte tra gli esordi sulla lunga distanza e ufficiali (niente EP o
CD-R, quindi) pubblicati nel periodo compreso tra settembre 2006 e agosto 2007:
BEATRICE ANTOLINI – Big Saloon (Silly Boy-Madcap-Pippola/Audioglobe)
BAD(LOVE)EXPERIENCE – Bad(Love)Experience (Mabel)
THE BANSHEE – Public Talks (Suiteside/Audioglobe)
BLACK EYED DOG – Love Is A Dog From Hell (Ghost/Audioglobe)
CANADIANS – A Sky With No Stars (Ghost/Audioglobe)
CARPACHO! – La fuga dei cervelli (Sleeping Star/Self)
COMANECI – Volcano (Disasters by Choice/Wide)
DENTE – Anice in bocca (Jestrai)
DON QUIBÓL – Don Quiból (Canebagnato)
MATTIA DONNA – Sul fianco della strada (Capitol/Emi)
EL-GHOR – Dada Danzè (Seahorse/Goodfellas)
GRIMOON – La lanterne magique (Macaco/Audioglobe)
IVER & THE DRIVER – Samples And Oranges (Ghost/Audioglobe)
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Fuori Dal Mucchio è a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini - online at http://www.ilmucchio.it
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KAMA – Ho detto a tua mamma che fumi (Eclectic Circus-V2/Edel)
LE MAN AVEC LES LUNETTES - ? (Zahr-MyHoney/Audioglobe)
LNRIPLEY – LNRipley (Casasonica/Emi)
MARCILO AGRO E IL DUO MARAVILHA – Viva a ilusao (L’Amico
Immaginario/Audioglobe)
MARTI – Unmade Beds (Green Fog/Venus)
MERSENNE – Stolen Dresses (Urtovox/Audioglobe)
MICECARS – I Am The Creature (Homesleep/Audioglobe)
NOBRAINO – The Best Of (Acanto/Self)
PETROL – Dal fondo (Casasonica/Emi)
PLASMA EXPANDER – Plasma Expander (Wallace-Here I Stay/Audioglobe)
THE SECOND GRACE – The Second Grace (Edel)
ALESSANDRO STEFANA – Poste e telegrafi (Important/Goodfellas)
Il vincitore, il cui nome sarà reso noto nell’editoriale di “Fuori dal Mucchio” del mese
prossimo, verrà come sempre premiato in occasione del Meeting delle Etichette
Indipendenti, in programma a Faenza (RA) il 24 e 25 novembre. Rimandiamo quindi
ad allora per sapere chi andrà ad aggiungersi a un albo d’oro che fino ad ora
comprende “Ogni città avrà il tuo nome” dei Santa Sangre, “Tempo di vento” di Lalli
, “Sussidiario illustrato della giovinezza” dei Baustelle, “Rise And Fall Of Academic
Drifting” dei Giardini di Mirò, “Capellirame” dei Valentina Dorme, “The
Mistercervello EP” degli es, “Pai Nai” dei Methel & Lord, “Socialismo tascabile”
degli Offlaga Disco Pax e “Setback On The Right Track” dei Tellaro.
In bocca al lupo a tutti i partecipanti, quindi, buon lavoro ai giurati e a tutti voi buona
lettura e buoni ascolti.
Federico Guglielmi – Aurelio Pasini
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Amore
Tarzan contro l’IBM
Aiuola
Alessandro Fiori (Mariposa), Gionni Dall’Orto (Articolo 31, Marco Parente, Paolo
Benvegnù, Soundabout), Guglielmo Ridolfo Gagliano (Andrea Chimenti, Paolo
Benvegnù), Samuele Bucelli (Baustelle). Questi nomi – e i curricula – dei membri
degli Amore. Difficile, insomma, considerarli degli esordienti, sebbene questo sia il
loro primo disco insieme. Invece, pur suonando come il prodotto di musicisti di
grande esperienza (e talento) e all’apice della loro creatività, “Tarzan contro l’IBM”
riesce ad avere dalla sua anche tutta la scanzonati incoscienza di chi si è appena
buttato in una nuova avventura, e non ha paura di mettere al fuoco tantissima carne.
Volendo fare un mero discorso di generi e stili, infatti, il rischio è quello di perdersi
tra nomi e riferimenti, tra schegge punk e cantautorato sghembo, tra pop e disco
music, ballate acustiche, improbabili filastrocche e tentazioni
rumoristico-canterburiane. Una girandola di suoni talmente frenetica da far girare la
testa, ma sempre innegabilmente piacevole e mai troppo cervellotica; il tutto grazie
all’incontro fra la fantasia ironica e poetica allo stesso tempo di Fiori e contesti
musicali improntati alla più ampia libertà. Con il sorriso sulle labbra (quello
indispensabile anche solo per concepire l’idea di realizzare una ballata medievale e
intitolarla “Riga gli sportelli”) ma anche con il cervello acceso e occhi e orecchie
aperte (“Porco Diaz”). Un caleidoscopio che ogni volta svela dettagli nuovi e
sorprendenti, reso ancora più intrigante dalla presenza di ospiti di pari livello come
Massimo Fantoni, Enrico Gabrielli e il musicista-fumettista Federico Maria Sardelli.
Quel che si dice un gran bell’inizio (www.amore.net.ua).
Aurelio Pasini
Stolen Cars
Can’t Stop Thee Stolen Cars
Nicotine/Ammonia
Come si dice, a volte ritornano. E il ritorno è ancora più gradito quando è
inaspettato. Come nel caso degli Stolen Cars: formatisi nel 1986, in pieno revival
garage, con all’attivo un solo 7” e una manciata di brani in compilation varie. Non
molto, ma più che a sufficienza per raccogliere consensi importanti anche all’estero.
Poi, lo scioglimento, con Il Metius (voce), Michele “Mick” Anelli (basso) e JoJo
(chitarra) a dare il via ad altre avventure, rispettivamente Thee STP, The Groovers e
Changing Men. Tutto questo fino allo scorso anno, quando i tre hanno reclutato il
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nuovo batterista Max e deciso di riprendere a far musica insieme. E “Can’t Stop
Thee Stolen Cars” è esattamente il risultato che ci si può aspettare da una reunion
del genere: garage rock ad altissima tensione, suonato con lo spirito di un gruppo di
ventenni e con classe da veterani. Dodici i brani al suo interno (undici originali più
una ottima cover di “Hey Little Bird” dei Barbarians) all’insegna di un rock grezzo e
selvaggio al punto giusto, spigoloso e spensierato come si conviene, tribale ma non
privo di melodie, tra richiami agli anni 60 del primo “Nuggets” e una potenza e una
pulizia sonora ben più vicine alla contemporaneità – merito anche al lavoro in cabina
di regia dell’ex Shandon Olly. “Christine”, “Shake It, Baby!”, “Down On Me” e
“Criminal People” sono solo alcuni dei pezzi forti di una scaletta che non conosce
cedimenti; una iniezione di grinta ed entusiasmo r’n’r in grado di smuovere anche
chi, purtroppo per lui, certe sonorità di solito non le frequenta (
www.myspace.com/theestolencars).
Aurelio Pasini
The Marigold
Erotomania
I Dischi Del Minollo/Deambula
Questione di una semplice i. Infatti esiste una band, di stampo classicamente prog,
che si chiama Marigold, e io di quelli pensavo di accingermi a riferirvi. Immaginate la
mia sorpresa quando, dopo i primi intensi accordi di piano dell’iniziale “Diade2”, che
mi avevano tratto in inganno, si è catapultato nella casse del mio stereo il suono
ruvido e multiforme di “Orgy”, con richiami a Sonic Youth e relativa generazione
noise. Solo a quel punto ho letto con attenzione la biografia e ho scoperto la
trappola. Ma si è trattato di un piacevole trabocchetto, perché questo trio – che
arriva al debutto sulla lunga distanza, dopo l’EP “Divisional” del 2002 e svariati
traguardi (partecipazione a raccolte, concorsi e concerti importanti) – non solo
impasta in modo egregio tracce di The Cure, con la voce di Marco (chitarre,
samples) che ha molto di Robert Smith (oltre al taglio di capelli!) e Shellac, ma in
generale fa emergere una sicurezza compositiva non facile a trovarsi. Un coraggio
che si fonda anche sulla convinzione di aver molto ascoltato; non a caso “Voices”
richiama i Pink Floyd degli esordi e “Dogma” solca le orme di certa post new wave
britannica d’annata, con l’ospitata gradita alla chitarra di Umberto Palazzo dei Santo
Niente. Un calderone di influenze, gestite quasi sempre con la giusta mentalità e
che maschera con intelligenza anche i rari momenti dove la tensione scema, penso
a “Mongolia”. La produzione di Amaury Cambuzat conferisce al suono la spigolosità
necessaria, ma resta salvo l’approccio melodico, saldamente presente in ogni solco
del CD (www.themarigold.com).
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Gianni Della Cioppa
Stella Diana
Supporto colore
Seahorse/Goodfellas
Attivi dal 1998, con alle spalle esperienze di vario tipo nella scena rock napoletana,
gli Stella Diana avevano finora prodotto tre demotape a visibilità limitata. Ora, grazie
all’intervento di Paolo Messere dei Blessed Child Opera e della sua Seashore,
pubblicano finalmente un vero e proprio album. “Supporto colore” è un disco maturo,
registrato con l’adeguato dispiegamento di mezzi e una lucidità d’insieme che porta
a dare forma ad un suono d’impatto, nitido e corposo, che va a pescare gli spunti in
certa new wave (il rigore geometrico e la cupezza di certi colori, splendida in questo
senso “Fall”) così come in una forma trasognata di psichedelia (“Stanze vuote”, che
fa venire in mente dei CSI reinterpretati da Amerigo Verardi) o in un post rock che si
libera, attraverso graduali esplosioni, di una claustrofobia iniziale – è ciò che accade
in “Sirena” – poi disciolta in placidi intrecci di chitarre circolari, oppure si lancia
semplicemente in liberatori crescendo, come accade nei minuti finali di “Marianne”.
Si riesce pure a rendere convincente il trasporto vagamente epico che innerva
l’apripista “Johnny”, impresa sulla carta ad alto rischio eppure nei fatti perfettamente
riuscita. Una bella realtà, che seppure non si possa certo definire nuova ha saputo
innestare nuovi spunti sul proprio tessuto, sfornando un disco al passo coi tempi,
non perché legato al suono del momento ma perché elegante, essenziale e sobrio (
www.stelladiana.com).
Alessandro Besselva Averame
Ska-J
Adesso Eh!
Maninalto!
Non sono certamente molte le formazioni che possono dire di essere state
“battezzate” sul palco dai Wailers che accompagnarono sua maestà Bob Marley.
Logico quindi che chi sia nato sotto una simile stella sia destinato a lasciare una
qualche traccia di se. Nel caso degli Ska-J tutto questo si traduce in centinaia di
concerti e in due dischi, cui si va ad aggiungere questo “Adesso Eh!”. Nessuno
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stravolgimento, il gruppo cerca sempre di coniugare la musica jazz con le sonorità
afro-giamaicane, ed a testimonianza dell’amore per la musica improvvisata si può
citare la loro versione di “E la chiamano estate” di Bruno Martino, ormai un vero e
proprio standard per il jazz italiano. Il passato del sax di Marco Furio Forieri, i mai
dimenticati Pitura Freska, emerge nel divertissement in veneto di “Viva Gina”, ma è
proprio l’atmosfera generale del disco ad essere leggera ma senza perdere in
credibilità. A dare un contributo notevole al risultato finale ci pensano poi la
splendida voce di Ilenya De Vito e l’organo Hammond di U-ge, che si ricongiunge
con Forieri per impreziosire con il suo tocco questi undici brani. In casi come questi
è proprio il mestiere, l’esperienza maturata in anni e anni di incisioni e concerti, a far
la differenza, e quello che in mano ad altri può suonare noioso diventa invece, in
quelle degli Ska-J, un ottimo disco di ska-jazz. Tra i migliori mai ascoltati in Italia, e
non solo (www.skaj.it).
Giorgio Sala
My Awesome Mixtape
My Lonely And Sad Waterloo
L’Amico Immaginario-MyHoney/Audioglobe
Il limite più evidente di questo debutto a nome My Awesome Mixtape? Essere
immediatamente identificabile con certo immaginario indie “da cameretta” che oggi
va per la maggiore. Ma forse, obiezione sensatissima, che accogliamo volentieri, il
problema non riguarda tanto il disco in sé, quanto piuttosto l’immaginario di cui
sopra e i suoi tic. E quindi preferiamo concentrarci sulla musica, e su un debutto
che, pur non essendo sempre perfettamente a fuoco, ha carte notevoli da giocarsi.
La giovane età del titolare del progetto, one man band con aderenze nella scena
emiliana (c’è, tra i vari ospiti, Jukka Reverberi dei Giardini di Mirò) e la sua
ambizione innanzitutto, dacché non viene di certo a tutti in mente di farsi conoscere
attraverso un concept album che racconta via metafora napoleonica le sconfitte
sentimentali, proprie e altrui. Una diseducazione sentimentale che agisce
mescolando rime storte, melodie tra Anticon, Animal Collective e Modest Mouse,
chitarre e ritmiche elettro-trasversali. Chi li ha visti dal vivo dice che è difficile stare
fermi e quindi, pur valutando in modo decisamente positivo questo album, ci
auguriamo che al prossimo giro il titolare riesca a farsi ancora più incisivo. La
notevole “Napalm On Bill Gates” e la disturbante “Hilarious 1” potrebbero essere un
ottimo punto di partenza. Tenendo comunque conto del fatto che la qualità e la
chiarezza d’intenti che qui emerge sono merce rara in Italia (
www.myspace.com/wearemyawesomemixtape)
Alessandro Besselva Averame
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Udus
DooMooD
FromScratch
Come descrivere la musica di questo disco? Jazz-core? Noise-Jazz? Improcore?
Grindcore, così come appare sulla pagina MySpace degli stessi Udus? Definizioni
interessanti, ma non bastano a coprire lo spettro delle possibilità esplorate in questo
album. Possiamo fare innanzitutto il nome di Luca Mai, sax baritono degli Zu, tanto
per darvi un’idea sull’eclettismo di “DooMooD”, titolo che sfoggia un geniale
calembour. Insieme a lui troviamo due componenti dei Neo, band
“blues-jazz-punkcore”, il chitarrista Manlio Maresca e il batterista Antonio Zitarelli. Le
triangolazioni del gruppo non rivelano sostanziali rovesciamenti di prospettiva, ma
un suono compatto e in continuo movimento che non inciampa mai nella maniera,
un eloquio potente e inventivo. “Beach Of The Peach” nasce da un riff fiati-chitarra à
la King Crimson di “Picture Of A City” e procede come fanfara stralunata tra
scompigliate percussioni militaresche, “In pompa magna” nasce da un fastidioso
loop proto-industrial che viene graffiato da sferzate di sax e poco alla volta saturato
di suoni e lacerazioni noise, fino a diventare una specie di perverso videogame
demoniaco sempre più caotico, sepolto da colpi tremendi e sirene d’allarme,
“Demogorgon” rappresenta invece l’anima più convulsa e metallica del progetto,
grazie soprattutto allo straordinario tour de force chitarristico di Maresca, che si
diverte a giocare a ping pong con sax e batteria. Un disco bello e disturbante. Anzi,
bello proprio perché disturbante (www.fromscratch.it).
Alessandro Besselva Averame
Mondo Marcio
Generazione X
EMI
Forse troppa fretta, forse troppa irruenza, forse mai consigliato. Sta di fatto che noi,
al posto di Mondo Marcio, avremmo aspettato un attimo prima di far uscire questo
disco. Non che sia in assoluto un passo falso. Il problema sta più in una ansia di
esprimersi che alla fine non è buona consigliera. Il fatto di andare dritti all’obbiettivo
a livello di testi toglie profondità, toglie originalità, toglie la possibilità di avere trovate
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particolari, originali, complesse, sorprendenti. Toglie in generale fascino al
personaggio Mondo Marcio, che aveva dalla sua – al di là degli elementi più visibili e
anche “caricati”, a partire dalla pronuncia – un che di scuro che intrigava. Discorso
simile va applicato anche alla parte musicale, visto che riscontriamo lo stesso tipo di
problema: c’è la voglia di far vedere di essere produttori completi, in grado di
giostrare arrangiamenti e stili come il più consumato dei professionisti. Compito
(parzialmente) riuscito, ma sta di fatto che complessivamente come prodotto
creativo era molto più interessante e affascinante il disco precedente, quello che ha
consacrato Mondo Marcio al grande pubblico (uno dei dischi mainstream comunque
più interessanti dell’ultimo paio d’anni). Insomma: non siamo convinti. Vogliamo solo
sperare che questo mezzo passo falso sia stato fatto e voluto al cento per cento
dall’artista – questi sono errori che fanno crescere e migliorare, se analizzati a
mente fredda. Se invece è tutta colpa di pressioni esterne, che pretendono subito
materiale per cavalcare l’onda rap finché dura, allora c’è veramente di che intristirsi (
www.mondomarcioweb.it ).
Damir Ivic
Meanwhile
A Second To Fly
Wynona/Self
Una decina di anni fa dagli stereo – non erano ancora arrivati gli iPod e derivati –
dei giovani non era difficile incappare in brani di Nofx, Bad Religion oppure, per i
meno scafati, Offspring. Era il periodo dell’hardcore melodico, e anche se le mode si
sono avvicendate frenetiche in tutto questo tempo a ben guardare questa musica
può dire ancora qualcosa. La dimostrazione recente viene dal secondo album dei
Meanwhile, formazione romagnola che con “A Second To Fly” ci dimostra che il
fuoco cova ancora sotto la cenere. E basta il drumming di “Anything Left”, ad
esempio, per impressionare, ma anche il cantato di Mirko e la doppia chitarra di
Bassa e Mauro sono fondamentali nel definire un suono decisamente personale.
Del resto non è un caso se il gruppo esiste fin dal ’96 e in questi anni ha suonato in
compagnia di moltissime formazioni affini. Ed è proprio il livello di maturazione
artistica, la ricerca della melodia non banale e di un arrangiamento meno scontato,
quello che fa davvero la differenza in questi dodici episodi, tra cui spiccano per
rappresentatività “Instant” e “Wounded Pride”. In conclusione non mi sento di
consigliare “A Second To Fly” ai soli nostalgici del bel tempo che fu, tra i quali si
annovera anche il sottoscritto, ma anche a chi è distratto da tutt’altri ascolti in area
punk rock. Non si può mai dire, magari il fuoco potrà tornare a bruciare ovunque (
www.wynonarecords.com).
Giorgio Sala
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Lavoirlinge
Short-Leg Dogs
Andromeda Relix
Bastano pochi secondi dell’iniziale “Sweetmeats Killers” per ricondurci senza indugi
al torrido hard-rock’n’roll dei ZZ Top più alcolici e abrasivi; niente di patinato o
holliwoodiano, tanto per intenderci. L’adrenalina sale e le gambe si muovono come
possedute, spinte dai tipici, robusti riff del più classico rock-boogie, così credibile
nel suo trasudare blues elettrico, così incredibile nella sua provenienza veneta.
Ciascuna delle dieci canzoni funziona a dovere, così ruvidamente rock-blues da
immaginarla facilmente riecheggiare in qualche stamberga texana fra fiumi di whisky
e birra. Invece i Lavoirlinge giurano sulla propria origine del tutto veronese, e
veronesi sono l’ugola al vetriolo di Nicolò Carozzi e la chitarra di Antonio Moletta,
elementi distintivi, perfettamente calati nella propria parte sia nella forza espressiva
che nell’efficace essenzialità del songwrinting, che non concede deviazione alcuna
al di là del proprio teorema rock’n’roll bluesy, con annessi vibranti e viscerali assolo.
Citiamo non solo per dovere di cronaca ma per analoga efficacia nel progetto Nicola
Cavallini (basso) e Manuel Fracca (batteria), poi spuntano qua e là un organo
Hammond (Bruno Marini in “Short-Leg Dog Boogie” e “Heartbreaker”) e persino le
vitaminiche percussioni di Sbibu in “Revolution Station”, adorabili ospiti che
conferiscono ulteriore calore e genuinità. Ancora una volta è solo fortemente
rock’n’roll, che non reclama affatto questioni di originalità, e ancora ci piace un
sacco (www.lavoirlinge.it).
Loris Furlan
La Macchina Ossuta
Ferro torto
autoprodotto
Seppur con colpevole ritardo, ci sembrava doveroso dar notizia dell’uscita di “Ferro
torto”, ultima fatica de La Macchina Ossuta. Prossima a celebrarre dieci anni di
attività, la formazione capitanata da Francesco Bottai ed Alessio Colosi ha
recentemente rimaneggiato il proprio organico definendo una line up a sei che
comprende – oltre al bassista di sempre, Carlo Sciannameo – anche quel Pino Gulli
che abbiamo conosciuto dietro i tamburi di C.S.I. e PGR.
Con all’attivo già due album e altrettanti mini CD, la band si è guadagnata un buon
seguito di appassionati, soprattutto nella natia Firenze dove spesso si esibisce dal
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vivo. Non a caso la sua forza espressiva risiede soprattutto nelle doti tecniche degli
strumentisti, convogliate nella creazione di un suono intenso e corposo, che proprio
sul palco diventa inevitabilmente travolgente.
A dispetto del titolo, che potrebbe calazare meglio per un’opera industriale, il nuovo
CD muove intorno a calorosi standard rock blues, con la sola pretesa di coinvolgere
l’ascoltatore in un’altalena di graffianti episodi elettrici e più intimi momenti acusti.
Dunque nulla di nuovo sotto il cielo toscano; eppure, quando non inciampa in testi
dal senso troppo oscuro o in schemi espressivi eccessivamente banali, La Macchina
Ossuta è in grado di proporre brani dall’accattivante piglio armonico e dalla lodevole
perizia esecutiva (www.macchinaossuta.it).
Fabio Massimo Arati
Krikka Reggae
Na soluzion
Etnagigante-V2/Edel
Sarebbe difficile tracciare un panorama dell’attuale scena reggae italiana senza
parlare di Roy Paci o dei Sud Sound System. Poter vantare in un album la
collaborazione con entrambi è quindi un ottimo biglietto da visita, guarda caso
proprio quanto successo alla Krikka Reggae con questo “Na soluzion”. Non male
davvero per una formazione nata durante le jam session sulle spiagge ioniche
nemmeno sei anni fa, e capace in questo breve lasso di tempo di suonare in Italia e
all’estero, vincere il concorso di Arezzo Wave e del Rototom Soundsplash di Udine
e condividere il palco con, un nome su tutti, Buju Banton. E fa piacere anche sapere
che capace di tutto questo è un gruppo che proviene dalla Basilicata, fiero delle
proprie origini al punto di cantare in dialetto bernaldese. Liriche che molto spesso
sfiorano l’invettiva nei confronti di tutto quanto ha bisogno di “Na soluzion”, siano i
problemi del precariato e dell’emigrazione che le guerre che insanguinano la terra.
In tutto questo ben si inseriscono i già citati ospiti, con i Sud Sound System
impegnati a definire quella che sembrerebbe essere una “Strategia della paura”,
mentre il piccolo grande Roy si occupa della supervisione artistica e
dell’arrangiamento dei fiati, oltre che licenziare il prodotto per la sua Etnagigante.
Reggae, dancehall e coscienza critica, per ballare e per pensare. Chi cerca tutto
questo non rimarrà certo deluso (www.etnagigante.com).
Giorgio Sala
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Inoki
Nobiltà di strada
Warner
Ogni tanto succede che le major vadano a pescare con un minimo di criterio,
quando si tratta di cavalcare l’onda – ciclica – dell’hip hop in Italia. Inoki è in giro da
un sacco di tempo e ha una frequentazione vera della scena, pur avendo spesso
fatto squadra a sé. A Bologna lo si conosce bene, ormai da quasi un decennio. Ma
lo conosce bene anche chi segue assiduamente la scena rap nostrana. Giunto ad
avere finalmente la sua grande occasione, Fabiano Ballarin in arte Inoki se l’è
giocata con saggezza. Ha evitato due che sono i classici sbagli che si fanno in
queste occasioni (per noi sono sbagli, per altri sono meriti e scelte pervicacemente
inseguite): cercare di strafare, buttandola sul (tentato) virtuosismo, imbottendo
quindi il rap di rime (teoricamente) ultrafantasiose e sorprendenti; oppure, altra
sindrome abbastanza insopportabile dell’hip hop, prendendo a piene mani dagli
stilemi americani mainstream. Non c’è nell’uno né l’altro, in “Nobiltà di strada”. C’è
molta linearità, c’è voglia di raccontare pensieri chiari con parole semplici, il tutto
condito da basi scelte con gusto e che vanno per la loro strada, non sono cioè
creature anabolizzate dalle frequenze basse e dai sintetizzatori grossolani che oggi
vanno per la maggiore. Tutto ciò fa sì che magari questo non sia il CD dei vostri
sogni, né qualcosa che si possa definire come vertice assoluto della rap italico da
dieci anni a questa parte; siamo però sicuri che questo disco reggerà lo scorrere
degli anni e delle mode molte meglio di altri. A noi pare un grandissimo merito (
www.inoki.it ).
Damir Ivic
Hiroshima Mon Amour
Es
Danze Moderne
Erano circa tre anni che non si sentiva parlare degli Hiroshima Mon Amour, più o
meno da quel “Cambio 1995-2001” che per la band di Teramo rappresentò se non il
punto di svolta, di certo un documento di riconoscimento importante. Un disco
arrivato dopo anni spesi ad affinare il suono tra LP e EP e che oltre a presentare
materiale inedito, apparve come un riassunto efficace quanto necessario di molto
del materiale pubblicato fino ad allora.
Il passo successivo della band è “Es”, EP che se da un lato conferma la forte
attrattiva per tutto quello che è new wave e dintorni dall'altro modifica in parte
l'approccio alla materia rispetto al passato, infondendo più luminosità alle trame,
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infittendo le geometrie, razionalizzando l'estetica generale. Così da ripartire con un
post punk vibrante (“La tragica fine del figlio di Dio”) pronto a vestirsi di chitarre à la
Joy Division (lo strumentale “Gotica”) e reminiscenze CCCP (“Il Canto del Diavolo”)
ma che proprio nella title-track – proposta in versione base e nel My Space Remix –
vive forse il suo momento meno riuscito (http://www.hma.it).
Fabrizio Zampighi
Gold Rust
Gold Rust Sings Volume II
El Cortez
Messi in pausa i Satellite Inn, Stiv Cantarelli torna on the road con il suo progetto
Gold Rust, garage band che esiste da molti anni e che vanta già numerosi concerti
all’estero al punto da uscire con l’etichetta americana El Cortez (quella dei
Richmond Fontaine). Il garage in questione è un abrasivo mix dei migliori suoni
dell’underground statunitense degli ultimi anni. Subito si pensa a Neil Young – non
tanto come riferimento diretto ma come padre spirituale – per poi sfogliare un libro di
influenze che vede su tutti gli Uncle Tupelo e i Son Volt (entrambe creature di Jay
Farrar) per poi lambire territori al confine del Pasley Underground – Dream
Syndicate ma anche Green On Red – e qualche influenza southern che nel contesto
non stona assolutamente. Insomma, non sarà un mostro di innovazione e
modernismo questo “Gold Rust Sings Volume II” ma da queste parti non è mai stato
un problema. Sia perché siamo sempre stati fan di un certo tipo di rock’n’roll, sia
perché in Italia è così raro trovare band dotate di una tale attitudine che perdersi in
discorsi generalisti pare assurdo e capzioso. Undici canzoni distorte e tirate al punto
giusto, alcune dotate anche di melodie che si fanno ricordare – “Four Days” – altre
che si dilungano in soli di chitarra acidi e al confine con la psichedelia – “Another
Town/Whispers” con i suoi quasi 8 minuti di convulsioni – mentre la sezione ritmica
segue secca, precisa e puntuale. Caso più unico che raro, vista la moda recente
della nostra scena indie. Sarà per questo che per farsi considerare han dovuto
cercarsi asilo Oltreoceano? (www.myspace.com/goldrust)
Hamilton Santià
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Gerda
Cose che dico quando non parlo
Wallace/Audioglobe
È legittimo far nascere un dibattito su quale possa essere la definizione più
appropriata per descrivere la musica degli anconetani Gerda, arrivati alla seconda
prova, ma quello che certamente si può dire è, senza volersi addentrare nei
particolari, che fanno un rumore infernale, devastante, annichilente. Azzardiamo
comunque una descrizione, e allora diremmo che una preponderante matrice
hardcore marchia il telaio di questa musica, cantata in italiano con testi che risultano
al limite dell’udibile, violentati da grida belluine che portano ad un senso di stordita
violenza nichilista. Le chitarre, dal canto loro, sono sì figlie di quella scuola ma
vengono sovente traviate da infiltrazioni puramente noise, a tratti sconfinando in
schemi doom, con sospensioni e ripartenze. E pure con qualche dilatazione che
sembra svelare parentele post e math rock. Come da tradizione, lo spargimento di
sangue ha luogo nel giro di una mezz’ora scarsa, e non serve un solo minuto in più.
Musica estrema fatta bene, di quella che ti arriva tra la nuca e le spalle lasciandoti
agonizzante in una pozza di sangue: “Tutto in una mattina / un gomitolo di brutte
esperienze / che mi rincorre e mi fa capire / che non c’è solo vita ai bordi della
strada / non si vuole fermare / non vuole smettere / dovrà pure esistere un fiume
giusto / dove tuffarsi / dove nuotare / un fiume giusto dove affogare / mentre sono
qui schiacciato dal macigno / cerco i pezzi da rimontare per riavere le gambe e
correre”. Non male, no? (www.degerda.com)
Alessandro Besselva Averame
Frangar Non Flectar
Volume 4
Audiolabstudio
Sei anni. Tanti, non solo per un’industria dai tempi frenetici come quella musicale.
D’altra parte, però, con il concetto stesso di “industria” i Frangar Non Flectar non
hanno davvero nulla a che fare: ogni loro nota è sudata, ogni parola sentita, ogni
canzone frutto di un’esigenza espressiva sincera. Per questo fanno dischi solo
quando sentono di avere davvero qualcosa da dire, e magari lasciano trascorrere
tra uno e l’altro i sei anni di cui si diceva. Quelli, appunto, che separano il
precedente “Tribe” da questo “Volume 4”, con cui la formazione capitolina festeggia
tre lustri di attività divisi tra concerti, produzioni fonografiche e collaborazioni col
mondo del teatro e del cinema (tra cui vale la pena ricordare almeno la
sonorizzazione dal vivo di “Tempi moderni” di Charlie Chaplin). Tutt’altro che un
gruppo banale o allineato alle mode del momento, insomma, come ben confermano
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le otto tracce (più una nascosta) di questo loro nuovo lavoro: più scarne e dirette
rispetto a un tempo, ma non per questo meno curate dal punto di vista dei suoni e
degli arrangiamenti; cariche di tensione, viscerali, taglienti nelle chitarre come nelle
parole, ma all’occorrenza anche più riflessive e notturne. Elettricità e rabbia (“Il
modo migliore”, “Out Of Fashion”, una “Comin’ On Strong” quasi post-core) ma
anche momenti più avvolgenti e intimistici (“Troppo poco”): questi gli estremi entro
cui si muove l’evocativo rock del quartetto, diretto ed efficace anche negli episodi
maggiormente ricercati (“Svegliami”). Senza compromessi e nella più totale
indipendenza, al punto da distribuire il contenuto del CD tramite licenza Creative
Commons, che ne autorizza la diffusione e la copia per scopi non commerciali (
www.frangarnonflectar.it).
Aurelio Pasini
Dna2
Anima di pelle
Latlantide/Halidon
Il secondo disco dei Dna2 arriva a quattro anni di distanza da “Ectoplasmi”, esordio
che aveva acceso un certo interessa per la band bolognese autrice di un noise-rock
abrasivo e dai toni meditabondi e fatalisti come era logico aspettarsi in quel periodo.
Quattro anni sono un’eternità nel moderno mondo della musica, così labile ed
incline a dimenticarsi passioni ed amori e così può capitare che quando di buon fin
qui fatto dalla band sia stato scordato e che l’ascolto di “Anima di pelle”, pur
maturando la riconoscibile miscela che caratterizzava l’esordio, non accenda più
quelle luci che in passato avrebbe acceso con facilità. Il problema non sta tanto
nella qualità della proposta – nel fare quello che fanno, sono bravi, forse ancora un
po’ pretenziosi, ma bravi – ma nella quantità. In questi quattro anni il genere dei
Dna2 è stato battuto in lungo e in largo ed arrivava da almeno un altro lustro di
prove e variazioni sul tema. Normale quindi che “Anima di pelle” rischi di essere
anacronistico, fuori tempo massimo. Questo tipo di indie-rock fatto di tensioni noise,
bordate di chitarra che hanno sempre lo stesso suono e con testi che dicono
sempre le stesse cose e percorrono sempre un certo tipo di estetica, al di là della
qualità, può stufare molto facilmente. Si potrà ribattere che la band fa
semplicemente quello che vuole fare – ed è giustissimo, anzi, massimo rispetto per
questo – ma anche gli ascoltatori ascoltano quello che vogliono ascoltare (
http://www.dna2.it/).
Hamilton Santià
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Disowned
Emotionally Involved
Ladymusicrecords/UKDivision
Racchiuso in una confezione accattivante e graficamente impeccabile, nonostante
sia un esordio questo CD dei livornesi Disowned gode di una registrazione di ottima
qualità e che ben evidenzia i toni cupi della loro musica. A fronte di tanta
professionalità, non deve sorprendere che la parte cartacea, quindi lontana dalla
tecnologia, ovvero la classica biografia, sia gestita con uno spirito da autentici
principianti. Una lunga serie di frasi, spesso superflue, che occupano uno spazio
che un’enciclopedia rock, dedicherebbe ad un gruppo con sulle spalle una decine di
anni di carriera. Lo segnalo perché sono anche questi dettagli (dettagli?) che danno
la misura della serietà globale di una band emergente. In sintesi i Disowned, attivi
dal 2001, vantano una buona esperienza in concerto, e si sente dall’amalgama
generale e il raggiungimento di varie premi in numerosi concorsi. Detto ciò, non
rimane che fare grossi complimenti al telaio strutturale dell’intero album, un
concentrato di heavy metal drammatico, con impennate che rievocano sonorità
industriali ed inserti vocali tra emocore e gothic, anche se l’utilizzo di un tappeto di
tastiere rende il tutto molto affascinante e puntellato su una certa originalità. Ed è
una reale sensazione di libertà espressiva che ci colpisce ascoltando i dieci pezzi
che compongono il puzzle di “Emotionally Involved”, frutto di una cooperazione tra
l’italiana Ladymusicrecords e l’inglese UKDivision. Personalmente mi sento di
incoraggiare l’esperimento del cantato in italiano, che in “Immenso attimo”, appare
ben definito. Ottima l’idea di inserire il videoclip di “Sativa”. Il sito, che nella biografia
manca, è www.disowned.it.
Gianni Della Cioppa
Anatrofobia
Brevi momenti di presenza
Wallace/Audioglobe
Ho ripescato sotto il letto il nastro originale di “Frammenti di durata”, il primo album
degli Anatrofobia. Era il 1997 quando, proprio con le “musiche non convenzionali”
autoprodotte da Setola di Maiale, la mia passione per il rock virò irresponsabilmente
verso i lidi scoscesi della sperimentazione, del rumore e dell’improvvisazione. E nel
corso di questa navigazione impervia la band piemontese non mi ha mai
abbandonato, tanto che quando uscì “Ruote che girano a vuoto” (Zzz… Production,
1999) credetti di aver ritrovato Atlantide.
Da qualche anno, però sono rientrato in porto ed ho ripreso a godermi la musica più
da ascoltatore che non da addetto ai lavori. Sì, perché una cosa è sposare il piacere
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dell’intrattenimento, altro è arrovellarsi intorno agli aspetti concettuali dell’arte.
Oggi la band dei fratelli Cartolari ha portato alle estreme conseguenze la ricerca
timbrica ed il radicale disfacimento della forma canzone. Il loro ultimo “Brevi
momenti di presenza” è un’opera creata da intellettuali e riservata ad intellettuali. E
per descrivere un lavoro di tale portata bisogna necessariamente scendere nel
dettaglio tecnico, entrare nelle strutture geometriche, comprenderne i processi
creativi, scovare le sinergie tra programmazione elettronica e istintività free-jazz.
Rimango ancora una volta razionalmente affascinato da tutto ciò: cavolo che mostri!
Sta di fatto che, ciò nonostante, sotto la doccia continuo a canticchiare “Chelsea
Rodgers”, dall’ultimo disco di Prince (www.anatrofobia.com).
Fabio Massimo Arati
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Overmood
Curioso progetto gli Overmood da Alessandria, a cavallo tra produzione elettronica
fai da te e chitarre alla Modest Mouse. Ci siamo fatti raccontare da Matteo Celerino,
addetto ai sintetizzatori e ai campioni del gruppo, la genesi del loro interessante
debutto su Suiteside/Audioglobe, “Sorry For The Setbacks”, registrato con l’aiuto di
Rico degli Uochi Toki.
Partiamo dalla particolare conformazione del gruppo, in parte rock band con
le chitarre, in parte fucina di musica "prodotta" con caratteri e spunti che
vanno dall'elettronica pura e semplice all'hip hop se vogliamo, pur
muovendosi sempre all'interno del formato canzone. Una mediazione che è il
punto di incontro e di arrivo delle singole sensibilità dei componenti, oppure
il punto di partenza da cui è nato il tutto?
Entrambe le cose. Detto in parole povere, suoniamo quello che ci piace per come
siamo capaci: nel corso degli anni abbiamo sì suonato ed ascoltato generi diversi
ma siamo sempre rimasti ancorati alla computer music che abbiamo declinato in
tutto quello che ci è piaciuto fare, dall'hip hop, all'electro, agli Overmood. È una
questione di gusto, di estetica e soprattutto di attitudine. Terminato il ciclo vitale
degli Astenìa e dopo la breve parentesi Superangelica, verso la fine degli anni '90,
abbiamo iniziato ad ascoltare un po' di tutto e se proprio devo trovare
un'appartenenza di qualche tipo la trovo con i miei coetanei che hanno ascoltato
certi dischi molto in ritardo ed altri in anticipo (leggi: indie americano e/o elettronica
francese e tedesca). La nostra “fottuta piacevolezza” (cito la recensione di un tuo
collega!) è figlia di un approccio molto onesto alla musica e questo, analogamente a
quanto accade ad altri gruppi, non ci dà granché idea di dove si andrà a parare.
Inoltre, usare un computer ci evita il problema di trovare un batterista.
Il nome del gruppo è costituito da un neologismo che tuttavia mi pare renda
molto bene il "nervosismo" di fondo, lo stato di eccitazione e irrequietezza
che sembrano trasmettere i vostri brani. E' il motivo per cui lo avete scelto?
Per la verità è una parola desueta che indica “uno stato di orgoglio tale da portare
ad azioni folli”. Certo, uno stato d'animo del genere non si adatta molto alla nostra
indole ma possiamo confermare che rispecchia inquietudine e un certo bisogno di
sfogo. E questo tenendo conto che l'abbiamo scelto prima che nascesse un
qualunque “mood” nella nostra musica. Suonava bene ed era un ottimo sunto
programmatico.
Ho accennato all'importanza del lato produttivo degli Overmood, elemento la
cui importanza è accentuata dalla scelta di far produrre "Sorry For The
Setbacks" a Rico degli Uochi Toki, nel suo studio. Una scelta difficilmente
fraintendibile, al di là immagino delle pure questioni di vicinanza geografica.
Che tipo di apporto è stato il suo?
Abbiamo deciso di produrre il disco con Rico per ovvi motivi: è un fonico
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estremamente bravo, ci conosciamo da tempo, abbiamo gusti musicali in comune
ed ha una notevole collezione di “AL” d'epoca sempre in grado di regalare un sacco
di risate tra una sessione di studio e l'altra. La produzione è una fase fondamentale
per ogni disco, a maggior ragione se c'è dell'elettronica e, nel nostro caso, occupa il
50% dei pezzi. La metà del tempo che abbiamo passato al Fiscerprais è stato
devoluto alla ricerca di “pacca”, “pasta” e identità dei suoni, in particolare i rullanti,
che sono la nostra fissazione! È stato un lavoro interessante, tecnico ma creativo e
sia noi che Rico siamo molto soddisfatti del risultato. Ci ha condotto con mano
sicura verso il suono finale di “Sorry For The Setbacks”, per risponderti con una
frase.
Fino a che punto vi riconoscete nella categoria di indie-rock? Secondo voi ha
ancora un senso, nel momento in cui quella che in origine era una attitudine è
diventata un canone codificato? Esistono vie di fuga da una definizione così
stretta?
Potremmo dire che ci riconosciamo nell'indie-rock come attitudine e non come
canone codificato. Anche perché non esiste una sola codifica. Per noi non è
importante suonare indie rock secondo i canoni passeggeri o avere un pubblico di
indie rocker con gusti e abiti che ci corrispondono. Non sarebbe un problema essere
definiti pop-rock, elettro-pop o altro. Non ci sentiamo stretti in una categoria, come
non temiamo di farne eventualmente parte, nostro malgrado.
Vista, come dicevamo, la natura ibrida dell'esperimento, quale parte ha il
sopravvento in occasione dei concerti? Vivete l'esperienza del live come un
dimensione ulteriore da esplorare oppure come riproposizione delle
atmosfere del disco?
Durante i live riproponiamo parte dei pezzi del disco alternati a momenti
improvvisati, un po' danzerecci, un po' noise e un po' cafoni. Ci siamo sempre sentiti
molto liberi in questo frangente e un noto software tedesco ci è di grande aiuto
permettendoci di giocare con tutto quello che abbiamo a disposizione sul palco.
Contatti: www.myspace.com/overmood
Alessandro Besselva Averame
Les Fauves
Nonostante non abbia molto senso parlare di “next big thing” nel panorama italiano,
i Les Fauves sono tra i pochi che possono “ambire” a tale definizione. Ultima band
nostrana a suonare sul prestigioso palco del festival di Benicassim, ha da poco
pubblicato un esordio – “N.A.L.T. 1. A Fast Introduction” (Urtovox/Audioglobe) – che
ha fatto capire quanto il quartetto di Sassuolo faccia sul serio.
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La prima domanda è forse anche la più ovvia. Come mai ci avete messo così
tanto per arrivare al disco d'esordio rispetto all'EP di un anno abbondante fa?
Hai ragione, è passato molto dall’uscita dell’EP al disco effettivo (che comunque non
comprende pezzi del precedente a eccezione di “February Lullaby”). Il motivo è
prettamente discografico, nel senso che i pezzi erano già pronti da tempo ma
l’impazienza per una band di far uscire qualcosa deve giustamente fare i conti con i
tempi e le necessità di label e distribuzione.
Ascoltando il disco rispetto ai vostri inizi - ero nel pubblico di Benicassim - si
può notare una certa maturazione del sound. Un tempo eravate più grezzi, ora
siete più attenti all'aspetto "sonoro" e forse l'introduzione della tastiera serve
ad ampliare la gamma di sonorità disponibili. Come è avvenuta questa
maturazione? Qual è stato il ruolo di Giacomo Fiorenza in tutto questo?
Giacomo Fiorenza ha fatto e continua a fare tanto per noi, ma non è strettamente
connesso alle scelte artistiche del gruppo, ha smussato di certo le nostre più
estreme spigolosità. L’aggiunta delle tastiere è un arricchimento che ha messo in
rilievo ciò che gli altri strumenti non potevano raggiungere da soli; un passo in più
verso lo spazio alieno?
“N.A.L.T. 1” è da voi indicato come il primo capitolo di una trilogia di luci,
ombre e comportamento alieno. Da dove nasce quest'idea di seguire un
progetto ben definito e sulla lunga distanza? Coprendo anche uno spettro
sonoro abbastanza vasto dato che si passa da un brano dai contorni molto
più sfocati come "Please Please Please" a pezzi definiti e quasi matematici
come "Fava Go Go Dancer"?
Non c’è un vero motivo per cui siamo arrivati subito ad una trilogia. Ci sembrava
un’idea intrigante, che può assumere risvolti diversi in ogni momento presente e
futuro (con i prossimi dischi), senza una meta precisa… Sarà curioso anche per noi
capire alla fine quale è stato il vero percorso artistico che ci siamo lasciati alle
spalle. Ciò che è sicuro è che speriamo di trovare un sound definito il più tardi
possibile. Anzi, mai!
Il vostro primo singolo "Our Dildo Can Change Your Life" non è stato incluso
nel disco. Come mai?
Abbiamo scelto di non riproporre “il dildo” soprattutto per dare spazio ad altri brani e
non trascinarci troppo nel tempo qualcosa di già conosciuto nel ristretto ambito
alternativo italiano. Non è comunque escluso, nel caso di una probabile uscita
discografica estera dove quel pezzo è per i molti ignoto, di creare un Nalt-1
leggermente modificato. Chissà…
Cos'è cambiato nei Les Fauves dall'EP al disco? Come siete maturati?
Fare molte date, accettare i consigli di persone che lavorano nell’ambiente musicale
(come Paolo Naselli Flores di Urtovox e Giacomo Fiorenza) e utilizzare per le prime
volte uno studio professionale sono state tante delle cose che ci hanno fatto
maturare e ci hanno reso “inconsciamente più consci”. Detto questo, la nostra
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attitudine è rimasta la stessa: non porsi troppe domande. Fare un disco è qualcosa
di piacevole solo se fatto in primis per piacere a se stessi. Il prossimo album (su cui
stiamo già lavorando) sarà molto particolare e pericoloso. Non vediamo già l’ora.
E, guardando più in generale, cosa è cambiato dai tempi della vostra data di
Benicassim dove eravate ancora un power trio?
Fondamentalmente le cose riportate sopra.. Siamo sempre noi con qualche migliaio
di chilometri in più passati in furgone, e duemila euro in meno per un mastering a
New York con Greg Calbi. Il live è diventato più sicuro, siamo più sciolti e divertiti sul
palco. In fondo abbiamo sempre amato i “gig” energetici e così ci comporteremo al
di là delle scelte che influenzeranno i dischi. Il concerto ora è molto completo e sei
invitato ad uno dei prossimi. Un’oretta sul palco e preferibilmente un bel club
invernale ti daranno una idea precisa di cosa intendiamo.
Sia il disco che l'EP sono usciti con la Urtovox e l'idea di trilogia fa pensare
ad un rapporto sul lungo termine. È raro in Italia che un'etichetta creda ad un
progetto così a lungo termine. Come vi siete convinti a vicenda nella
costruzione di tutto questo?
Il rapporto tra noi e Urtovox oltre alla componente professionale è anche basato su
un forte legame di fiducia e amicizia che si è creato già ai tempi dell’EP. Nessuno ha
dovuto convincere nessuno proprio grazie a questo principio reciproco ed è
bellissimo così!
Come sta andando la promozione del disco?
È uscito proprio ora e non sappiamo minimamente quali risultati possa raggiungere
o quali porte sfiziose possa aprirci. Come dicevamo sopra non ci facciamo mai
troppe domande a riguardo. Le recensioni sono state molto positive e ora
aspettiamo il parere dei non addetti ai lavori che compreranno il disco. Provocargli
un qualsiasi tipo di piacere sensoriale ci renderebbe ovviamente molto felici.
Cosa avete in cantiere per il futuro, oltre al completamento della trilogia,
s'intende.
Speriamo di pubblicare qualcosa di nuovo già nel 2008 visto che ciò a cui lavoriamo
ora ci intriga davvero molto. Ci piacerebbe inoltre rielaborare il vecchio EP in una
strana chiave elettronica e torneremo a suonare all’estero già nei primi mesi del
prossimo anno. Sono in cantiere anche un paio di altri video di cui sicuramente uno
ne “riserverà delle belle”.
Contatti: www.lesfauves.net
Hamilton Santià
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Humanoira
Dopo un primo EP autoprodotto è arrivato il momento per la band di Livorno
dell’esordio intitolato poeticamente “L’arte di sciogliere la neve”. Appena uscito per
la sempre audace e coraggiosa Snowdonia (e distribuito da Audioglobe), mi ha
ricordato gli es e forse anche i Baustelle e Corman, ma poi andando avanti con gli
ascolti c’è altro e si trova: l’essenza d’una malinconia, portata alla luce tramite il
sorriso davvero commovente che noterete anche nelle risposte leggendo la
chiacchierata che segue con il cantante e chitarrista Riccardo.
Venite da Livorno, patria di Piero Ciampi e dei Virginiana Miller. Ma con quale
musica siete cresciuti?
Onestamente ognuno di noi quattro ha i suoi ascolti e influenze diverse. In linea di
massima però forse quello che ci accomuna è il post-rock. Ci sono influenze diverse
anche perché ci sono notevoli differenze d’età tra noi. Ad esempio Marco il
chitarrista, è ultratrentenne e poi ci sono i ventenni quindi c’è chi è passato dagli
anni 80 e chi dai 90. C’è poi Davide che ascolta Ligabue. No, scherzo!
Qual’ è il vostro trait d’union allora?
L’amicizia. Siamo compagni di scuola dal 1999 quando la maggior parte di noi era in
terza superiore. Un giorno per scherzo ci siamo messi a suonare e abbiamo
continuato fino a oggi.
Ci trovavamo in casa e in sottofondo c’era un pezzo degli Iron Maden e facevamo
finta di suonarlo, così si siamo chiesti perché non imparare a farlo davvero. L’attuale
chitarrista Marco allora stava con mia sorella e lui suonava già però roba metal e mi
stava insegnando a suonare la chitarra, un altro ragazzo suonava la batteria, il
cantante l’avevamo e a Davide non rimase che suonare il basso. Poi ha scoperto
tornando a casa che veniva addirittura da una genia di zii bassisti. Il nostro genere
musicale prima era punk poi noise, ma andando avanti forse quello che ci ha
cambiato è stato l’ascolto di “Catartica” dei Marlene Kuntz. Non so perché presi quel
disco in un negozio qui a Livorno, si vede che mi piacque quel fiore della copertina,
poi vidi i titoli in italiano e lo comprai e lo feci ascoltare agli altri così abbiamo
scoperto che la musica aveva altre sfumature e ci siamo avvicinati a gruppi come
Afterhours o CSI. Da poco i Massimo Volume sono diventati il mio gruppo preferito.
Li ho scoperti 2/3 mesi fa perché qualcuno sosteneva che gli assomigliavamo per
qualcosa, così ho comprato i loro dischi e mi sono chiesto come avevo fatto a non
ascoltarli finora.
Che peso ha l’ironia nel vostro modo di comporre?
È abbastanza importante dato che poi le prove si trasformano in spettacoli di
cabaret e questo incide anche sul nostro modo di fare musica, perché ormai molto è
gia stato detto ed è difficile potersi esprimere linearmente. Quindi per essere
originali, puntiamo sulla risata.
La prima uscita è stato un EP ma era autoprodotto. Ma avevate già cercato
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un’etichetta prima?
No. La prima autoproduzione voleva essere un mezzo con cui provare a cercare
qualcuno che ci aiutasse a capire come sviluppare meglio i nostri pezzi, perché da
soli non è facile specialmente quando sei inesperto del campo. Avevamo molti pezzi
pronti ma invece di registrarli tutti ci siamo concentrati su quattro. Poi abbiamo
ricevuto un po’ d’offerte e consensi, qualche dissenso ma è normale, va messo in
conto. Tra tutto questo abbiamo scelto l’etichetta che poi ci ha prodotto: la
Snowdonia, un matrimonio felice.
Il filo conduttore dell’album potrebbero essere i nonni?
Si. Il disco inizia con Adios nonnini, La canzone Ciro e Anna è dedicata ai nonni di
Davide.
E anche l’ultima frase di “Zigulì”: “Le guardie regie in pentola lo fanno il brodo
giallo.Carabinieri in umido e arrosto il maresciallo…” era uno stornello che mi
cantava sempre la mia bisnonna quando ero piccino quindi nacque una cosa
simpatica quando andavo all’asilo, perché tutti cantavano le canzoncine per bimbi e
io cantavo uno stornello del 1921 che mi aveva insegnato appunto la bisnonna. Che
dire? Sono stati importanti nella mia vita e spesso riporto frasi sagge anche nei miei
testi e credo sarebbe stato piacevole per tutti conoscerli. Erano molto in gamba. Me
li porto dietro ovunque.
Avete intitolato il disco “L’arte di sciogliere la neve”. Com’è l’arte di
sciogliere la neve?
Il titolo è in onore di un mio piccolo amico d’undici anni e in particolare, al modo in
cui anche un bambino riesce a struggerti con gesti semplici o con frasi banali.
Tornando al CD, ci sono delle foto molto buffe di voi quattro, vuoi
descriverle?
Grazie a Cinzia di Snowdonia che le ha ideate. È per questo che ti dico che è un
matrimonio felice, perché ti puoi immaginare la giornata divertente che abbiamo
passato per realizzare queste foto. Sono state fatte da Claudia Castaldi che è
bravissima e davvero in gamba, infatti le foto chi avrà modo di vederle su CD sono
stupende. Cinzia ci mandò una mail e ci disse che siccome la Snowdonia, non è
una novità, tiene molto alla linea dei suoi CD aveva in mente per noi di fare una mini
storia e ci ha mandato una scenografia da seguire. Nella prima siamo tutti assieme
che ci baciamo con le ragazze, pace e amore alla Beatles. Nella successiva
dovevamo stare attorno al tavolo, in una tavola imbandita post pranzo, in cui c’erano
al posto delle vivande i peluche; poi vestiti anni 20 da siculi in omaggio a Cinzia e a
Messina tutti attaccati al telefonino giochiamo a poker. Nell’ultima c’è ancora Fabio il
vecchio chitarrista che adesso è andato via e ha preso il suo posto Marco il mio
maestro di chitarra; e qui c’è lui che ci mette a letto come Biancaneve e i sette nani
e ci dà la buonanotte come fosse un addio. Insomma è Cinzia che ha inventato
questa mini storia e noi l’abbiamo interpretata da folli quali siamo.
Come vi approcciate alla composizione d’ogni canzone?
Noi non seguiamo uno schema vero e proprio. Tutto è molto familiare e intimo.
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Spesso nasce prima la musica e le parole vengono in mente successivamente così
ognuno ci mette del suo. Generalmente parte prima la linea di basso/ batteria e poi
inseriamo il resto fino a raggiungere il testo. Se i testi sono già scritti proviamo a farli
diventare musicabili o cantabili.
Com’è avvenuto il contatto con Cinzia di Snowdonia?
Ognuno di noi ha un ruolo nel gruppo: Davide ha la parte manageriale. Credo che
abbia spedito il disco e che semplicemente lei abbia risposto. Eravamo in un
periodo un po’ di stasi col gruppo. Lì lì in bilico tra continuare col post rock e
dedicarci allo strumentale o continuare sui testi. Quando ci arrivò la mail di Cinzia
con un sacco di complimenti e anche a me sui testi ci diede una precisa direzione e
infatti adesso il cantato è anche la cosa che riscuote maggior consenso.
Contatti: www.humanoira.it
Francesca Ognibene
Echoes Of The Whales
“Echoes Of The Whales” (Disasters by Choice/Wide) è uno di quei dischi che alle
indubbie qualità artistiche, aggiunge una bellezza senza tempo. Diresti: “Ad averlo
composto anni addietro, risulterebbe perfetto anche fra dieci anni”. E se fosse
andata davvero così? Ne abbiamo parlato con Pierpaolo Leo e Populous, titolari del
progetto.
Inevitabile prima domanda: com’è nata l'idea di fare un disco insieme?
Pierpaolo: Ci ripetevamo spesso: "Hey! Prima o poi faremo qualcosa insieme".
L'idea è diventata sempre più matura, soprattutto dopo aver collaborato sulla traccia
“Drop City” del suo disco “Queue For Love”. Poi è arrivato il momento giusto per
registrare, cioè alla fine di una estate. E dopo aver ascoltato una bozza di quella che
poteva essere una delle prime tracce, avevamo già le idee più o meno chiare del
sound. Ovviamente anche le influenze musicali sono state decisive. Entrambi
amiamo certe sonorità elettroniche alla Raymond Scott e molti gruppi della scena
psichedelica degli anni '60. Per quanto riguarda la composizione, l'approccio doveva
essere quanto più immediato e spontaneo possibile. Spesso si partiva registrando
delle bozze venute fuori con la chitarra classica o elettrica all'interno del mio studio.
Successivamente si lavorava il materiale separatamente sui nostri computer, e
periodicamente ci si scambiava il materiale per lavorarci daccapo autonomamente.
Abitiamo a 20 chilometri di distanza e quando il materiale da scambiare era di una
certa consistenza ci si trovava esattamente a metà strada. Anche questo era
divertente perché l'incontro era in un parcheggio semi abbandonato e agli occhi
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esterni poteva apparire come uno scambio losco da film! Altre volte, quando i files
erano pochi, preferivamo mezzi come il peer to peer. Questo sistema è andato
avanti fino a lavoro terminato.
Nelle info del disco si parla di "registrazioni effettuate con tecnologie
tutt'altro che moderne". Senza necessariamente rivelare tutti i trucchi del
mestiere, quali mezzi avete usato?
Pierpaolo: Diciamo che è un incontro tra mezzi analogici e digitali con preferenza
verso i primi.
In particolar modo ci riferiamo agli strumenti musicali. Abbiamo utilizzato chitarre e
organi vintage come un vecchio Farfisa Compact del '67 e una chitarra elettrica,
direi quasi preistorica, per realizzare alcune parti con l'e-bow. Una volta registrato il
materiale, abbiamo poi continuato il lavoro attraverso i nostri computer. Una delle
cose che ci ha stimolato di più è stata l'applicazione delle nostre tecniche di
manipolazione digitale sul materiale analogico, e la preferenza di programmi DIY ai
software pre-confezionati. Alcuni suoni ed effetti li ho programmati appositamente
da zero in funzione delle caratteristiche di ogni pezzo, considerando ciascuno un po’
come un ecosistema autonomo.
Pensate che l’uso di strumentazioni analogiche abbia influito sul suono che
siete riusciti ad ottenere?
Pierpaolo: Senza dubbio. Alcuni strumenti vintage hanno un suono meraviglioso
perchè “impreciso” e in generale con caratteristiche che difficilmente si possono
simulare.
Sul vostro sito avete pubblicato una sorta di manifesto il cui incipit “It’s all
about being alive”, pare un invito a vivere in armonia con sé stessi e con lo
spazio che ci circonda. Lo stesso manifesto però si chiude con “Follow your
own whale”, affermazione che non può prescindere da un autore (Melville) e
dal suo capolavoro (“Moby Dick”). Si può vivere in armonia inseguendo le
proprie ossessioni, quindi?
Populous: Penso che quasi tutti siano ossessionati da qualcosa, e nella maggior
parte dei casi si tratta di ossessioni che non compromettono il "viver bene". Anzi...
Nel nostro caso, avere un attitudine "naturalista" ci fa sentire una volta di più in
armonia con ciò che ci circonda.
Dal manifesto si passa ai titoli del disco: magistrali, ironici, citazionisti. Se la
parola ricopre un ruolo così importante, perchè avete rinunciato all’uso della
voce?
Populous: Non ti nascondo che durante la lavorazione avevamo pensato anche a
delle voci. Il boss dell'etichetta che inizialmente avrebbe dovuto stampare il disco
era un amico di Joanna Newsom e di Panda Bear degli Animal Collective, per cui
l'idea c'era, ma i tempi si sarebbero allungati enormemente e noi avevamo il disco
già finito. Alla fine siamo contenti di non averlo fatto perchè quello che c'interessava
era esplorare e sviluppare il concetto di "ambient music", che di fatto è strumentale.
Personalmente poi ho sempre amato i dischi senza voci e senza battiti: puoi
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ascoltarli mentre leggi, mentre scrivi, senza che ti disturbino o richiedano troppa
attenzione. Sono quei dischi che si completano semplicemente con la tua presenza:
hai il disco in sottofondo e tutto quello che viene prodotto da te (voci, rumori
domestici, passi, natura) si aggiunge alla musica come parte integrante.
A proposito di tempi allungati a dismisura, più che la genesi di questo disco,
pare che il parto più difficile sia stato farlo uscire nei negozi. Cosa è
successo?
Populous: Il disco sarebbe già dovuto uscire diversi anni fa per un altra etichetta (la
Xeng). Poi il boss ha passato un periodo difficile e ha deciso di abbandonare tutto.
non rispettando accordi che aveva già preso con noi e con altra gente. Per cui ci
siamo trovati col culo per terra quando il disco era già alla fase dell'artwork.
Divertente, no?
C’è da sperare che la situazione non vi abbia demotivati del tutto! Sarebbe bello
scoprire che queste “balene” porteranno ad ulteriori sviluppi.
Populous: Le intenzioni di dare un seguito ci sono tutte, compatibilmente coi nostri
impegni personali. Anche perchè viviamo a pochi chilometri e siamo amici
"extra-musicali". Ho proposto a Pierpaolo di dare un seguito con un nuovo monicker,
tipo Echoes Of The Mountains, cercando di farci ispirare da altri aspetti della natura.
Domanda trasversale: di MySpace, in cui siete presenti con questo progetto e
individualmente, si è detto di tutto. Al di là di carrozzoni su cui salire e scendere a
piacere, credete sia realmente utile per aumentare la visibilità di un artista?
Pierpaolo: MySpace è un po’ un ritorno alla fanciullezza, come quando alle scuole
elementari ci si scambiava le figurine dei calciatori. Ora è lo stesso scambiandosi le
icone attraverso gli add. Forse questo aspetto ludico stimola maggiormente l'uso di
questo sistema che fondamentalmente inventa poco o nulla di nuovo. Lo trovo
comunque un mezzo abbastanza utile per acquisire una maggiore visibilità, in
particolare è utile semplicemente per la presenza costante di un player per ogni
band.
Contatti: www.echoesofthewhales.com
Giovanni Linke
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Disco Drive
“Things To Do Today”: ad esempio, fare definitivamente il salto di qualità. Magari
non sarà appuntato in maniera esplicita, nella agenda dei Disco Drive alla voce
“cose da farsi oggi”, ma di sicuro questo loro nuovo album (pubblicato da Unhip con
distribuzione Audioglobe) rappresenta la voglia di un salto di qualità forte. E lo si
può capire anche a non ascoltarlo: già vedere dietro al banco del mixer un nome
come Steve Revitte (già con Liars, Jon Spencer, LCD Soundsystem, J Mascis)
spiega un po’ di cose. Ne abbiamo parlato con uno dei due batteristi della band,
Jacopo Borazzo.
Come è arrivata la collaborazione con Steve Revitte?
Non per caso, effettivamente. Siamo partiti da un presupposto chiaro: volevamo
produrci il disco da soli. Dopo l’esperienza dell’album precedente con Max Casacci
alla produzione, ci siamo sentiti pronti a rischiare e a gestire tutto noi. Però siamo
sempre rimasti con la consapevolezza che un intervento esterno ci voleva, qualcuno
che potesse ascoltare con oggettività e intervenire di conseguenza. Abbiamo
pensato subito a Revitte, gli abbiamo mandato i demo. Gli sono piaciuti, e ha detto
di sì. Inizialmente avevamo pensato di andare noi a New York, ma la cosa aveva dei
costi proibitivi… Così gli abbiamo proposto di venire in Italia, facendosi una specie
di vacanza pagata, e lui ha accettato.
Cosa avete imparato, lavorando con lui?
Beh… tutto e niente. E’ sempre labile il confine. Perché nella pratica non ti saprei
dire di cose specifiche che abbiamo scoperto lavorando con lui, però di sicuro è
stata un’esperienza forte. Steve è stato bravissimo a capire l’“intenzione” di questo
disco, questo senza che noi gliela dovessimo spiegare – e questa dev’essere la
caratteristica di uno che lavora ai suoni del tuo disco. Ha capito che a questo giro
volevamo qualcosa di meno dance e più sperimentale, qualcosa in grado di
percorrere più direzioni. Ha capito che la cosa giusta da fare con la nostra musica è
togliere molto. In “Things To Do Today” ci sono tantissime cose che non abbiamo
mai usato in passato, sintetizzatori, campionatori, c’è l’impasto di due batterie.
Revitte ha scelto di lavorare quindi per sottrazione, ed è esattamente quello che
speravamo che lui facesse.
Facendovi quindi migliorare…
Non parlerei di miglioramento. Non dico che questo disco sia migliore del
precedente. Ci basta il fatto che sia venuto fuori con, come ti dicevo, una
“intenzione” ben precisa.
A proposito di intenzioni: mi pare chiara quella vostra di non volersi limitare alla
scena musicale italiana, ma di aver sempre pensato su scala europea.
Verissimo. Siamo convinti che limitarsi al proprio paese sia davvero stupido. Il
mondo è così grande… Che poi, non ci vuole molto. Quando abbiamo fatto il primo
tour per l’Europa, non era nemmeno uscito il nostro primo disco. Basta adattarsi, in
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realtà. Avere voglia di suonare ovunque a qualsiasi condizione. Proprio qui sta il
motivo per cui molti gruppi italiani alla fine non escono dai confini nazionali. Ora che
anche noi un minimo di nome ce l’abbiamo, e vediamo che questo comporta una
serie di piccoli privilegi e comodità, abbiamo capito come la grande maggioranza di
gruppi di casa nostra non vuole rinunciare a una serie di status, a questi privilegi e
comodità che dicevo – cose che in Italia hai, e che all’estero almeno all’inizio
nessuno giustamente pensa a darti. Noi invece siamo partiti subito verso l’estero
senza avere nulla da perdere, abbiamo fatto un po’ il processo inverso.
A proposito di nome e fama, e del fatto che anche voi cominciate ad averne: e se a
breve arrivasse una major ad offrirvi un contratto?
Se è per questo, alla Unhip temevano che sarebbe successo già con questo disco…
Comunque: per quanto ci riguarda, abbiamo sempre trovato ridicolmente
semplicistica l’equazione “indie buono, major cattivo”. Le major vanno benissimo
quando riesci a lavorarci alle tue condizioni; le major sono una fregatura se dici di sì
alla prima proposta che ti fanno, pensando di aver ottenuto chissà quale fortuna per
il solo fatto che sono venuti ad offrirti un contratto. Ma alle tue condizioni puoi
lavorare solo dopo che ti sei fatto un minimo di nome e quindi di potere contrattuale.
Ha senso se sei i Subsonica lavorare con una major, è invece idiota se sei alle
prime armi – perché ti stai infilando in un gioco più grande di te. Comunque tutto
questo discorso rischia di diventare anacronistico: gli scenari sono molto fluidi, tutto
sta cambiando. C’è gente che è riuscita a diventare famosa senza avere né un
manager né un’etichetta, ma solo grazie a MySpace.
Al di là delle qualità musicali, perché qua intendo prima di tutto la capacità di
muoversi, di avere una direzione e una consapevolezza sulle proprie qualità ed
intenzioni: chi di voi sta lavorando molto bene in Italia?
Direi senz’altro gli Amari. Li seguo fin da quando si autoproducevano, ho visto le
mosse che via via hanno fatto. Ecco: in un mondo che andasse nel verso giusto, a
Sanremo dovrebbero andarci loro, dovrebbero essere loro a rappresentare la
musica italiana, il suo mainstream, loro e gruppi come i Perturbazione. I Baustelle,
in buona parte, che conosciamo bene, con cui abbiamo suonato mille volte e con cui
condividiamo pure l’agenzia di booking, sono riusciti a fare questo salto – è la
dimostrazione che si può fare.
Contatti: www.discodrive.org
Damir Ivic
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Spazio Giovani
Foggia, 31 agosto – 2 settembre 2007
Dieci anni. Mica pochi per una manifestazione musicale. E, in questo tempo,
“Spazio Giovani” è con merito diventato uno dei concorsi più importanti della
Penisola, tappa quasi obbligata per qualsiasi gruppo che voglia mettersi a confronto
con le realtà più interessanti dell’underground emergente italiano. Perché ogni anno
il livello dei gruppi che si alternano sul palco foggiano è davvero alto, e il gran
numero di iscrizioni che arrivano ogni anno non fa che sottolineare la bontà della
proposta.
Giusto, allora, in occasione del decennale, fermarsi un momento non solo per
festeggiare, ma anche per aprirsi a stimoli nuovi, allargando così il ventaglio di una
proposta già di per sé più che interessante. Niente concorso, quindi, questa volta,
ma spazio nell’arco di tre giorni a una dozzina di band e solisti scelti tra i tanti che
sono passati da queste parti nel corso degli anni, ognuno impegnato in un
mini-concerto di mezz’ora. In ordine di apparizione: Croma Nova (Roma), Gruppo
Zed (Salerno), Cayo Rosso (Firenze), Radiolondra (Foggia), Areamag (Roma),
Favonio (Foggia), F.A.T.A. (Carpi), Eugene (Latina), Chio And The Clockwork
(Foggia), Paolo Pallante (Tivoli), Alessandro Mancuso (Palermo, già leader dei
Beatipaoli) e Granma (Lecce). Una girandola di suoni a cui ha fatto da contorno un
ricco programma fatto di dibattiti, incontri, un mercatino musicale (purtroppo saltato
per questioni meteorologiche) e, forse la novità più ghiotta, un concorso riservato ai
migliori videoclip, con un livello dei premiati davvero notevole. Il tutto non più nella
cornice del Teatro Mediterraneo, bensì nel cuore del centro storico di Foggia, per
permettere alla città di vivere ancora meglio una manifestazione di cui è giusto
andare orgogliosi. E che l’anno prossimo si preannuncia ancora più ricca di novità e
di idee. Visto l’entusiasmo degli organizzatori – con in testa il locale Assessorato
alle Politiche giovanili – le speranze ci sembrano ancora una volta ben riposte.
Aurelio Pasini
Comaneci
Hana-Bi, Marina di Ravenna (RA), 17 settembre 2007
La musica dei Comaneci è uno stato d'animo, una vibrazione che pittura il tempo,
una forma mentis in cui semplicità e arte dei chiaroscuri si fondono a voci intense.
Voci che cavalcano saliscendi di chitarra per poi gettarsi nel vuoto, che dialogano
con i toni caldi degli archi fino a confondersi, che mescolano malinconia e
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redenzione, purezza ed eleganza, in una wonderland fatta di suoni rassicuranti,
ordinati, eppure mai banali.
L'aspetto esteriore è quello del folk da camera, unito a uno spiccato gusto
mitteleuropeo e a un'emotività catartica che emula il potere salvifico del blues. Una
formula che innalza il gusto ed una certa cura negli arrangiamenti a comune
denominatore e che nel recente “Volcano” ha mostrato tutte le sue potenzialità.
All'Hana-Bi la band, pur impegnata a ricoprire il ruolo di apripista per Shannon
Wright, si conferma realtà di spessore, colorando con i consueti toni pastello l'oretta
scarsa a disposizione e cullando i presenti su note morbide e rigorose. Il violoncello
di Jenny Burnazzi ondeggia e riscalda gli sfondi, la sei corde di Andrea Carella
scandisce i tempi, la voce di Francesca Amati fiorisce nei punti più impensati
donando al tutto consistenza. Dal pubblico, equamente diviso tra sostenitori della
formazione ravennate ed esponenti dell'intellighenzia bolognese scesi
presumibilmente in riviera per il live dell'artista americana (tra cui Moltheni), cenni di
approvazione e applausi, segni tangibili della stima che i Comaneci hanno saputo
conquistarsi nel tempo tra gli appassionati.
Fabrizio Zampighi
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Le Luci della Centrale Elettrica
Le Luci della Centrale Elettrica, unica illuminazione – insieme a una immancabile
insegna della Coop – per un paesaggio urbano desolante nella sua piatta e inumana
monotonia; quello non solo di Ferrara, che Vasco Brondi (titolare unico di progetto e
ragione sociale) conosce bene, ma anche di qualsiasi città medio-grande, non solo
italiana. Un contesto desolante, che fa da sfondo a composizioni che grondano
tensione e rabbia, ma che non mancano di limpidi squarci di poesia e intimismo.
Come un frullatore in cui siano stati messi i cantautori classici come i CCCP e Rino
Gaetano, le canzoni de Le Luci della Centrale Elettrica sono un urlo di dolore e un
diario intimo, uno sfogo catartico e una carezza romantica, intense e toccanti nella
loro essenza scarnificata (voce, una chitarra acustica, un’elettrica e poco altro). In
attesa di un primo disco che sarà prodotto da Giorgio Canali è possibile farne la
conoscenza – e noi ve lo consigliamo vivamente – collegandosi a
www.myspace.com/lelucidellacentraleelettrica.
Aurelio Pasini
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