Numero Marzo `06

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Numero Marzo `06
Numero Marzo '06
EDITORIALE
Benvenuti a tutti nel nuovo numero del nostro inserto virtuale dedicato al panorama
“emergente, autoprodotto, esordiente, sotterraneo, di culto” italiano. Un
appuntamento che, come da abitudine ormai consolidata, vuole fare il punto su
quanto di più interessante succede in ambito tricolore, soffermandosi con attenzione
su quei nomi che solitamente vengono ignorati dagli organi di informazione, per così
dire, istituzionali.
A tal proposito, noterete che questa volta, oltre alle consuete interviste e a un
reportage live dei Northpole, le recensioni sono presenti in un numero
particolarmente alto. Questo perché, in barba a un mercato sempre più contratto,
negli ultimi mesi le produzioni sembrano essere cresciute esponenzialmente. Il che,
se da un lato è un positivo segnale di vitalità, dall’altro ci porta a un lavoro di
selezione “a monte” ancora più attento e scrupoloso. A tal proposito, per facilitarci (e
facilitarvi) ulteriormente le cose, vi invitiamo a spedire copia del vostro CD agli
indirizzi di entrambi i curatori di questo spazio (li trovate seguendo il link “Per invio
materiale”) e, se possibile, ad almeno uno dei collaboratori, magari quello che
trovate maggiormente in sintonia con quella che è la vostra proposta. E, anche se –
per evidenti questioni di tempo e spazio – non tutto potrà essere recensito, vi
possiamo garantire che ogni disco sarà ascoltato e vagliato con la massima
attenzione.
Ciò detto, ci sarebbero da segnalare molte altre cose, a partire dalla possibilità per
voi lettori di esprimere – tramite un semplice sistema di voto – il vostro
apprezzamento per ognuno degli articoli presenti sul sito del Mucchio, ma lo spazio
è tiranno, quindi approfondiremo il discorso in uno dei prossimi editoriali. Per il
momento, non mi rimane che augurarvi buona lettura e, naturalmente, buoni
ascolti.
Aurelio Pasini
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Fuori Dal Mucchio è a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini - online at http://www.ilmucchio.it
Numero Marzo '06
Bob Corn
Songs From The Spiders House
Fooltribe
Tiziano Sgarbi è una persona che, ogni volta che la si incontra, sa trasmettere una
serenità tutta particolare. Appassionato, entusiasta, ma anche incredibilmente umile
– tanto che, durante il festival “Musica nelle valli” da lui organizzato, non lo si vede
nel backstage a pavoneggiarsi, ma fuori a fare il parcheggiatore. Senza mezze
misure, è grazie a persone come lui che la musica realmente alternativa ha saputo
guadagnarsi un certo seguito anche da queste parti. Non stupisce, allora, che la sua
musica sia esattamente come ce la si aspetta, conoscendolo: onesta, genuina e
sostenuta da una forza inarrestabile – la forza dei sentimenti veri. Armato ancora
una volta di una sola chitarra acustica, e aiutato da un pugno di amici tra cui Giulio
“Ragno” Favero, Tiziano – anzi, Bob Corn, come si fa chiamare quando sale sul
palco – ha composto e interpretato una raccolta di ballate minimali e toccanti, in cui
la semplicità della forma non fa che sottolineare ulteriormente la nuda sincerità dei
contenuti. Canzoni scritte pensando a delle ragazze, come esplicita l’autore stesso,
esattamente come quelle contenute nel precedente, splendido “Sad Punk And
Pasta For Breakfast” (2004), del quale rappresenta la naturale prosecuzione. Ora
come allora non possiamo che chiudere la recensione con un invito: non limitatevi
ad ascoltare – e, inevitabilmente, ad amare –“Songs From The Spiders House”, ma
consigliatelo anche a chi vi è più caro. Vi (e li) conquisterà con la delicatezza di un
sussurro (www.fooltribe.com).
Aurelio Pasini
Mr. Henry
Mr. Henry & The Hot Rats
Suiteside-Pulver & Asche/Goodfellas
Lo potremmo definire un indie bluesman molto sui generis Mr. Henry, all’anagrafe
Enrico Mangione, cantautore catapultato da chissà quale luogo dello spazio-tempo
nella provincia di Varese. Giunto a pubblicare il seguito di “Lazily Go Through”,
debutto di un paio di anni fa su Ghost cui prendeva parte una buona parte della
scena varesina, Mr. Henry omaggia allo stesso tempo Frank Zappa e la band che lo
accompagna (Francesco Scalise e Paolo Grassi dei Midwest) nel titolo di questo
disco. Una voce, la sua, che rimanda a certo cantautorato arrochito, da Tom Waits
in poi (“No Sense # 91276”, marcetta polverosa, è effettivamente uno sfacciatissimo
quanto riuscito omaggio al musicista statunitense), e che si inerpica attraverso
canzoni che paiono essere state assemblate (“No-Sense # 69” è d’altra parte una
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sorta di valzer farcito di campionamenti) rovistando nelle pagine più oscure e
disturbate della musica d’autore americana degli ultimi quarant’anni. Ma sempre
facendo affidamento ad una apprezzabilissima vena anarchica che gli consente di
passare dal garage acido di “No-Sense # 5” ad una “No-Sense # 74” che rimanda a
Mark Lanegan, dalla inaspettatamente funk “No-Sense # 1258” alla quasi
appalachiana “No-Sense # 479”. Chiudono le danze i sette minuti di una “No-Sense
# 0” che sa di deserto e di psichedelia fuori tempo e che gradualmente si trasforma
in una sorta di composizione tra l’ambient e la musica concreta, prima di tornare alle
sparse note iniziali. Trenta minuti sono più che sufficienti per lasciare il segno (
www.suiteside.com).
Alesssandro Besselva Averame
El Tres
Folk And Roll
TRS
El Tres è la nuova creatura dell’underground torinese ideata e guidata dall’estroso
chitarrista Mario Congiu (già al fianco di Mao, Lalli e Stefano Giaccone) e Roberto
Bovolenta (Amici di Roland, fucina di talenti sabaudi in cui militarono anche tali
Samuele Romano e Davide Di Leo) con l’aiuto di Vito Miccolis (percussionista:
Tribà, Fratelli di Soledad, Mau Mau e Persiana Jones), il bassista “Lallo” Mangano
(anche lui ex Amici di Roland) e il cubano Juan Sanchez (altre percussioni). La
musica proposta dall’ormai quintetto è – appunto – un folk’n’roll che subito potrebbe
addirittura ricordare le primissime cose di Adriano Celentano immerse in canzoni
che derivano le proprie immagini dalla vita quotidiana in una città come Torino. Ne
sono emblemi “All’aria aperta”, “Cuore spezzato” e “DJ”. Il gruppo dimostra di
saperci fare e il merito può essere individuato nella grandissima esperienza delle
forze chiamate in causa e di una scritture frizzante ed ironica che ben si mescola
alle sornione trame musicali a metà tra i Violent Femmes e una banda di mariachi
ubriachi che si ritrova alle Cantine Risso a suonare fino alla mattina.
Se poi El Tres diventerà l’ennesimo – godibilissimo – fenomeno legato agli usi e
costumi della città di Torino sarà il tempo a dircelo. Per quello che riguarda la
musica in senso stretto, “Folk And Roll” è divertimento allo stato puro (certo, a volte
affiora un po’ di malinconico realismo come nella già citata “Cuore spezzato”), e la
band ha certamente la caratura per sapersi trovare il proprio spazio all’interno del
panorama musicale. Per lo meno sotto la Mole – che non è poco (www.eltres.it).
Hamilton Santià
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Nicola Alesini
F.D.A.
il manifesto
Mica facile rifare Fabrizio De André. Sì, perché “F.D.A.” questo significa. E quando
l’originale ha troppa personalità, l’interprete ha molto da perdere. Ma Nicola Alesini
ha scelto questa scommessa perché non ama le scorciatoie. Le melodie faberiane
sono patrimonio di tutti come l’aria; occorreva una sensibilità elusiva, che le
trattasse con rispetto non retorico. Alesini ribalta la voce del grande genovese nei
suoi sassofoni, con accompagnamento di campionamenti elettronici ambientali,
regalando nuovi scorci e risonanze inedite.
Convinto dal biografo di De André, Luigi Viva, Alesini – trascorsi con Sylvian,
Roedelius, Harold Budd – ha messo mano al catalogo, con esiti decisamente
interessanti e assai poco scontati. Il repertorio faberiano è attraversato da fasci di
luce nordici: attesa e sospensione in “La ballata degli impiccati/Inverno”, tappeti di
stridore in “Il testamento di Tito”, deferente ma ben distante da una riconoscibilità
esposta. “La canzone di Marinella” non l’avete mai sentita così: la celebre melodia
ondeggia su dissolvenze liquide, galleggia su armonie irrisolte; così pure il medley
“La ballata del Miché/Via del campo” e “Il concerto di Aranguez” (che nel repertorio
deandreiano diventava “Caro amore”) si compongono di pattern ritmici e armonici
che non assecondano la linea del canto, creando un effetto straniante.
Quattro inediti puntellano questo viaggio in solitudine nel primissimo De André; in
uno di essi, “Per F. & L.” (L. è Luigi Tenco), ad accompagnare Alesini nell’unico
brano non solo strumentale ci sono i Radiodervish (www.nicolaalesini.com).
Gianluca Veltri
Lubjan
1 [OneUno]
Faier/Venus
Due piccioni con una fava, direbbe qualcuno. “OneUno” segna infatti un duplice
esordio: quello di Giovanna Lubjan, giovane cantautrice veneta da più parti additata
come la next big thing italiana, e quello della Faier Entertainment, l’etichetta
discografica messa su da Davide Sapienza, Paolo Pelandi e Tullio Lanfranchi.
Come tutte le next big thing che si rispettino, anche Lubjan è destinata a dividere: di
fronte ai ritornelli facili di “I Lose My Way” e “Hesitation” e alla produzione a tratti fin
troppo patinata affidata all’ex Cousteau Davey Ray Moor, molti si chiederanno il
perché di tanto clamore; per gli stessi motivi qualcun altro sarà pronto a tesserne le
lodi, con le radio e il grande pubblico pronti a premiarne la scelta in un futuro
neanche troppo remoto. “OneUno” ricorda infatti da vicino l’esordio di Elisa, non
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soltanto per la voce di Lubjan, e l’impressione è che l’autrice padovana possa
ripercorrerne le tappe. Dentro il suo debutto, infatti, c’è lo stesso mix di innocenza,
sfrontatezza e ingenuità che se da un lato le permette di scrivere canzoni bellissime
come “There’s No Rain” e “What Is Past Can Hurt No More”, dall’altro rende ancora
incerto il passo circa la direzione da affidargli. I brani di Lubjan attingono dal folk e si
vestono di pop, proprio come quelli di Suzanne Vega, dei quali possiedono il respiro
largo e le melodie aperte, ma non (ancora) l’eleganza e la sensualità. Siamo sicuri,
tuttavia, che è solo questione di tempo e che di Lubjan sentiremo ancora parlare,
non soltanto sulle pagine delle riviste specializzate (www.lubjan.com).
Enzo Zappia
Thomas Hand Chaste
Uno nessuno centomila
New LM/Masterpiece
Sono passati quasi tre decenni da quando Thomas Hand Chaste muoveva i primi
passi artistici nei Death SS, band pesarese salita poi alla ribalta della cronaca grazie
a un rock occulto e ossianico, dominato dalle personalità del chitarrista Paul Chain e
del cantante Steve Sylvester, quest’ultimo ancora oggi leader assoluto della
formazione. Thomas ha poi attraversato gli anni ’80 e ’90, contribuendo a numerosi
progetti, incluse le carriere soliste dei due suddetti compagni d’avventura, e
scoprendo successivamente la seduzione degli studi di registrazione, tanto da
aprirne uno, il Four Sticks, dove collauda, filtra e scopre, nuovi mondi sonori. Da
questo magma di esperienze e da una rinnovata vitalità compositiva prende spunto
questo esordio a proprio nome, quasi interamente assemblato dal titolare, salvo
pochi interventi esterni. Undici tracce completamente strumentali, salvo rari inserti
sussurratati; suoni ora scarni, ora voluttuosi che si intrecciano tra rimandi di
elettronica, dark-wave apocalittica e piccoli assembramenti di free jazz, in un
girovagare tra la storia, “quella con S maiuscola”, recita la biografia, “prima che tutto
accadesse, prima del bagno di sangue, prima degli orrori e degli errori”. Definizione
enigmatica e criptica, che titoli come “Electra”, “Concerto di fabbriche”, “Caporetto” o
“Zang Tumb Tumb” non chiariscono di certo, ma che senz’altro lascia la porta
aperta a più interpretazioni. Un lavoro cupo e affascinante (www.crotalo.com).
Gianni Della Cioppa
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Gruppo Elettrogeno
Varietà di ricette per una sana alimentazione
Core-T-Zone/Edel
Gruppo Elettrogeno, ovvero come riuscire a trasformare la musica in un pranzo
completo, con tanto di primo, secondo, contorno, frutta e dolce. Una “Varietà di
ricette per una sana alimentazione” capace di stimolare l’appetito con spruzzatine di
funk, far aumentare la salivazione grazie a condimenti sintetici, riempire lo stomaco
con un brodo caldo di buon vecchio rock bollito e liberare il ruttino finale dopo una
scorpacciata di disco music.
Stili differenti che si trasformano in una trottola dal moto perpetuo con lo scopo
dichiarato di deridere i puristi; suoni limpidi pronti a scandalizzare gli amanti del lo-fi
e al tempo stesso solleticare la fantasia; un menu a base di piatti elaborati ma mai
troppo cerebrali. A rendere merito alle potenzialità tecniche degli “elettrogeni”
pensano brani come “Il circo di Barnum” dove chitarre in distorsione, beat e melodie
appiccicose sputano adrenalina a palate, “Solo 1 cosa”, sospesa tra coretti alla
Michael Jackson e ritmiche da Studio 54 o “A.c.r.onimi”, esperimento dalle forbite
tessiture strumentali e liriche. Un morphing autoreplicante che rende omaggio ai
guru del genere Elio e le Storie Tese in “Chissà” – brano a cui lo stesso Elio presta
la voce –, chiama a raccolta Eugenio Finardi nella “spaziale” “Omino” o si concede
un rispettoso inchino davanti alla “Spaghetti a Detroit” di Fred Bongusto (
www.gruppoelettrogeno.it).
Fabrizio Zampighi
Gerson
Il Miracolo
Tube/Venus
Chissà a quale “miracolo” si riferiranno i Gerson che così hanno voluto intitolare il
loro secondo disco; difficilmente si tratta di un omaggio ai Queen, sbeffeggiati con
un artwork che ricorda, e ridicolizza, il loro omonimo album, ed è altrettanto
improbabile che alludano alla “felice” situazione italiana. Molto più probabilmente si
tratta invece dell'ennesima stilettata, simile a quelle di cui son pieni gli undici pezzi
contenuti all'interno. Punk rock grintoso ed irriverente fin dall'iniziale “Tua madre è
preoccupata”, con testi in italiano sagaci e mai banali per una registrazione senza
fronzoli ad opera di Steve Colla e Andrea “Grunt” Giudici. Ecco allora che si riscopre
il piacere di una sezione ritmica secca e senza fronzoli e dei classici tre accordi con
“Trappola per topi” – con un testo che non possiamo non condividere – e “Overdose
da tubo catodico”, il cui titolo dice già tutto.
Si rifanno a vent'anni di rock stradaiolo ma, proprio per questo, riescono ad avere
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un sound proprio (merito anche della voce abrasiva di Paolo), e “Il Miracolo” mette a
frutto i due anni spesi sui palchi d'Italia risultando molto più coeso e riuscito
dell'esordio. Non cambierà il mondo, ne ha la pretesa di farlo, ma forse un piccolo
miracolo, con la minuscola, i Gerson son riusciti a farlo (www.tuberecords.it).
Giorgio Sala
Fr Luzzi
Happiness Is An Overestimated Value
Arab Sheep
L’attenzione degli indies verso cantautrici come Cat Power e Françoiz Breut ha
riacceso - ormai da quasi un lustro - l'attenzione verso un tipo di musica che ha
sempre saputo offrire abilissime paladine. Non sono molte invece le ragazze che, in
Italia, hanno abbandonato la gentilezza della lingua di Dante per cimentarsi con la
più internazionale parlata d’Oltremanica. Ma il successo di Violante Placido (se per
effettivi meriti artistici o per altro non sta a noi deciderlo) può aprire spiragli a
cantautrici di talento che rischiano di restare nel sottobosco dei soliti quattro gatti:
Francesca Luzzi da Udine, ad esempio.
Il tocco gentile di un folk-pop vellutato, venato di malinconia, che rimanda alle
delicatezze di Isobel Campbell e Nina Nastasia è la materia fondamentale di
“Happiness Is An Overestimated Value”, esordio della Luzzi per Arab Sheep,
interessante collettivo friulano dedito alla promozione di musica low profile. Infatti, i
trentaquattro minuti di questo disco, sono all’insegna della discrezione e della
“sottrazione”: ogni arrangiamento e ridotto al minimo e i toni non sono mai più che
sussurrati. Sia quando dipingono frizzanti acquerelli tropicalisti (“Human Race”,
“Sugar Family”), sia quando fanno i conti con una tensione elettrica che rimanda
addirittura a Shannon Wright (“The Ferry Sea”). Un intimismo che quasi dispiace
infrangere, ma che saprà regalare i suoi buoni momenti di coinvolgimento.
Francesca Luzzi ha appena cominciato il suo percorso ma sembra già conoscere la
sua strada (www.arabsheep.it).
Hamilton Santià
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Ianva
Disobbedisco!
Il Levriero/Audioglobe
Il rischio di essere fraintesi è davvero dietro l’angolo. Ma di fatto è uno degli album
più belli e controversi, che mi sia capitato di ascoltare negli ultimi mesi. Il progetto
Ianva, guidato da Mercy (Malombra, Helden Rune, Il Segno Del Comando e Zess) e
Stefania T. D’Alterio, la dama dietro i ben accolti Wagooba, muove infatti la memoria
verso un tempo che, in Italia, è sempre arduo affrontare. Anni di guerra e dolore, di
sogni, utopie e voglia di cambiare, tra desideri irrealizzabili e ingenuità. Era l’Italia
futurista, dove esistevano manuali per sedurre donne, per danzare e per creare
arte. L’interpretazione musicale è competente e i brani avanzano rievocando
tratteggi sonori del periodo, con la tradizione italiana addobbata di malinconia dark,
con le voci di Mercy e Stefania che si scambiano il proscenio, con delicata armonia,
con interventi di tromba, fisarmonica e flauto. I testi sono figli di una
documentazione notevole, come palesano alcune introduzioni ricavate da notiziari
radiofonici dell’epoca e come dimostra il booklet, ricco di notizie e foto ricavate da
vecchi archivi. Non ci sono schieramenti o posizioni negli Ianva, c’è un avanzare
malinconico e bellissimo, che sembra pesare sulle coscienze di tutti noi, trascinato
da canzoni, che raramente ho sentito così vicine ai fatti. Prova ne sono “La Ballata
dell’ardito”, “XX – IX MCMXIX: di nuovo in armi”, “Il tango della Menade” (dove
Gabriele D’Annunzio è interpretato dall’ospite Andrea Chimenti, nella presentazione
di Elettra Stavlos), “Traditi”, “Sangue morlacco”, fino a “Muri d’assenzio”. Un concept
album avventuroso, che forse farà discutere e per questo assolutamente da non
trascurare (www.illevriero.it).
Gianni Della Cioppa
Runaway Totem
Pleroma
Musea
Se non fosse per i testi in italiano sarebbe assai improbabile identificarne la
provenienza: il cult project almeno decennale Runaway Totem, misteriosa entità
aliena debitrice degli impareggiabili francesi Magma (fatalmente francese è anche la
storica label Musea che pubblica “Pleroma”) non ha eguali nell’ambito rock
nazionale, fatta eccezione per l’altrettanto fascinosa confraternita dell’Universal
Totem Orchestra, ensemble più recente proveniente dallo stesso humus. Non
sveliamo dunque l’arcano dietro gli pseudonimi di Cahal de Betel (voce, chitarre,
basso, synth, sampler, sequencer) e Tipheret (batteria, tastiere): lontano anni luce
dalle trite schermaglie rock, una volta varcata “La porta del Duat”, primo brano di
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oltre diciotto minuti, ha inizio il viaggio dell’anima disgiuntasi dal corpo, attraverso gli
inferi de “Il lago di fuoco”, protesa nell’ascesa purificatrice verso i Campi Elisi. Voci
austere, chitarre sabbathiane ulteriormente allucinogene, oscure e filmiche enfasi
tastieristiche, citando “Il libro dei morti degli antichi egiziani” (“Abisso delle acque”),
accompagnano un viatico solenne ed esoterico, in un susseguirsi di rabbrividenti
scenari – caleidoscopio vorticoso, ossessivo, tenebroso, mai frenetico. L’effetto è
davvero rapente: un coinvolgente magnetismo che riesce a mantenere vive tensioni
e suspence per oltre un’ora come potrebbe accadere con un buon film dall’analogo
contenuto. La dimensione audio regge straordinariamente il confronto con quella
visiva. Un piccolo miracolo (il quinto per i Runaway Totem)… tuttavia all’italiana (
www.runawaytotem.com).
Loris Furlan
Mircomenna
Ecco
Storie di Note
Alla seconda prova Mircomenna conferma una cifra cantautorale felicemente
indecisa tra attrazioni popolaresche e scrittura ricercata. Intanto canta Genova
(un’altra “Genova”?) senza tentazioni sloganistiche. Merito anche di Fernanda
Pivano, che introduce la suite “Lacrime e sole” solcando i campi con la lapidarietà
dei poeti non pentiti, tra “idee troppo nuove per essere chiare” da una parte e “idee
troppo ostili alla vita e all’amore” dall’altra parte. Tiè.
L’album è sprizzante, salta dallo scherzo in levare di “Normale” alle “Audaci rotte”,
che sembra un incontro tra De André, Boccaccio e il Parto delle nuvole pesanti.
Parto che arriva davvero, infine, in “Sull’ultime soglie”, una sorridente filastrocca di
sensi e numeri sulle “ultime volontà”, che probabilmente è l’ultimo documento di
Peppe Voltarelli col suo ormai ex-gruppo. Poi c’è anche una ballata andina in 5/4
(“Santa non è”), una suite – “Il volo di Icaro” – che si divide tra un brano
tiraneggiante (con una “n”) con quintetto d’archi, “Quanto ci vuole”, e l’amareggiata
“L’oro dei fessi”; il quasi-fado di “Beghine”, che cita Stefano Benni (“è vero la gente
è cattiva/ ma non tanto più cattiva di noi”) e i fiati bandistici d’introduzione a “La
sfinge in cui si sta”, un arguto swing tropicale con un coro di dieci voci ( che canta
“nel momento più bello il lupo accusa l’agnello”). Le notturne “Fantasmi solamente”,
che profuma d’Argentina, e “Maldiluna”, ispirata a Pirandello, ci svelano un volto
musicalmente più intimista di Mircomenna (www.storiedinote.com).
Gianluca Veltri
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Sunday Morning
Take These Flowers To Your Sister…
Midfinger/Venus
Riuscito ibrido tra twee pop, slowcore atmosferico e impennate epiche che fanno
venire in mente certe cose dei primi Coldplay, la musica dei cesenati Sunday
Morning approda per la prima volta su album dopo l’assaggio di un EP disponibile
gratuitamente sul sito della Midfinger, i cui quattro brani sono ora inclusi su questo
“Take These Flowers To Your Sister…”. Un lavoro che punta tutto sui dettagli sonori
e su una scrittura lineare ma ricca di spunti interessanti. L’iniziale “Riding Place”
delimita subito il territorio musicale in cui ci si muove, con una ambientazione
vagamente elettronica che apre la strada ad una voce tenue ma decisa, struggente
senza cadere nella buca della stucchevolezza, e una batteria precisa e spaziosa su
cui si adagiano arpeggi e veli di distorsione psichedelica dal vago sapore shoegaze.
Emotivo l’impatto, buona la scrittura e suggestive le atmosfere. Il tenore dei brani
non subisce significative variazioni in seguito, anche se meritano senz’altro una
citazione la più movimentata “Ellis”, con chitarra battente, voce maschile e
femminile che si rincorrono su un tappeto di tastiere e fiati che rimpolpano il tutto, la
folkeggiante “From The Basement”, che prende quasi subito le movenze di un blues
disperato guidato dall’Hammond, scheggia Sixties insinuatasi senza colpo ferire nel
corpo dell’album, e ancora la pianistica e conclusiva “Like You Do”, torch song alla
Radiohead che si perde in uno spazio irrealmente dilatato, “exit music” di grande
suggestione (www.midfinger.net).
Alessandro Besselva Averame
Deadwalk
Super Boring Music
Derotten
Bisogna ammettere che ci vuole una certa dose di humour, e autoironia per
intitolare un disco “Musica super noiosa”. Responsabili di questa scelta i Deadwalk,
ovvero quattro ragazzi dell’hinterland Cremonese che, dopo un esordio datato 2002,
approdano alla Derotten con questo “Super Boring Music”. Salta subito all’orecchio il
gioco di rimandi tra le due voci, quella maschile di Marce e quella femminile di Pat,
purtroppo però quello che poteva essere un punto a loro favore è vanificato dal fatto
che la vocalist ha ormai abbandonato la band, come apprendiamo dal (curato)
booklet. Quello che rimane è un misto eterogeneo di riff hard, ritmiche altalenanti tra
hardcore e rock e qualche accenno al metal, soprattutto per quanto riguarda certe
sonorità chitarristiche; la parentela più prossima potrebbero essere i Gorilla Biscuits,
cui prendono in prestito anche l’intro di “Empty Head, Empty Words”. La
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registrazione, targata West Link di Pisa, è impeccabile, e personalmente apprezzo
la grinta del vocalist e la precisione del resto del gruppo. Rimane però irrisolta la
questione-personalità: in questi quattordici episodi non ne troviamo poi molta,
eccezzion fatta per “Bad Violins” e “No More Broken Dreams”, giocata su ritmi più
lenti e lirici; il resto del lotto non riesce invece a emergere e, pur non essendo affatto
noioso, il disco non decolla. Non ci resta quindi che sospendere il giudizio, in attesa
di una prova futura che – crediamo – possa cancellare ogni appunto mosso in
questa sede (www.deadwalk.net).
Giorgio Sala
Hana-B
Camera obscura
Operà Studio/Venus
Siamo fermamente convinti che la ricerca di un certo tipo di visibilità da grandi
numeri senza per questo compromettere la propria credibilità sia una delle sfide più
insidiose che un gruppo pop-rock possa intraprendere. Per ogni Subsonica che ce
l’ha fatta ci sono infatti tanti Velvet o Le Vibrazioni che hanno sì venduto tanto,
venendo però considerati dalla critica come fenomeni commerciali più che artistici.
Ne sembrano perfettamente consci i piemontesi Hana-B, che per il loro debutto
hanno fatto le cose veramente per bene: suoni accattivanti e potenti al punto giusto,
cura per i dettagli (anche grafici) e, ad arricchire ulteriormente il piatto, una serie di
ospiti prestigiosi come Fabrizio Bosso (tromba), Fabio Gurian (archi) e, in un paio di
episodi, il produttore Roberto Vernetti. Di conseguenza, “Camera obscura” si rivela
sì orecchiabile – a tratti persino ammiccante – ma non scontato. Intrisi di una
malinconia non troppo opprimente, e a tratti attraversati da una certa vena di epicità
chitarristica, molti dei brani al suo interno paiono guardare apertamente al mondo
dei grandi network radiofonici, e onestamente le varie “La stanza” (nonostante un
cantato un po’ troppo alla Francesco Renga ultima maniera), “Nervi”, “In vortice” o
“Autoemozionalità” vi farebbero una discreta figura. Alla sensibilità di ognuno
decidere se si tratti di un merito o di una colpa, senza comunque mettere in
discussione l’onestà degli intenti. È invece da dimenticare in fretta una “Eleanor
Rigby” che tradisce completamente lo spirito dell’originale (www.hana-b.it).
Aurelio Pasini
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Outisider
Waiting Inside
Midfinger/Venus
Ci sono varie versioni sulla libertà artistica e sono tutte abbastanza valide.
Insomma, non saremo certo noi ad impedire a dei ragazzi di suonare la musica che
preferiscono, soprattutto quando sembrano essere davvero convinti dei loro mezzi.
L’unico problema è che a volte i dischi bisogna giudicarli. Insomma, non c’è niente
che non va in “Waiting Inside” degli Outisider, ma è anche vero che coi mezzi e il
bagaglio storico-musicale di cui oggi si dispone è quasi più difficile fare un disco
veramente “brutto” che uno davvero bello. Questo per dire che il suddetto lavoro si
può senza problema instillare nella colonna dei “senza infamia e senza lode”, ma
non ambisce ad altro. Perché proporre la solita minestra riscaldata di post-grunge e
metal “intellettuale” non solo non aggiunge niente all’esperienza d’ascoltatore del
pubblico, ma non lo smuove, non lo invoglia a perseverare ed entrare dentro alla
sue emozioni. E non è un discorso di genere, ma proprio di scrittura. Martellare un
canovaccio ormai vecchio e abusato cercando di spremere gli ultimi spicchi che
esso può offrire si rivela controproducente. Manca la personalità, insomma. Manca
quel quid che rende un disco - seppur di maniera - gradevole e, in qualche modo,
speciale. Insomma, impacchettare bene non serve quando la sorpresa non è del
livello che si immagina e anche nel rock, destreggiare con sapienza le briglie
tecniche di una forma espressiva non diventa vincolo automatico di qualità quando è
l’ispirazione a mancare (www.outsidertheband.com).
Hamilton Santià
Jolaurlo
D’istanti
Tube/Venus
Per capire a fondo chi e cosa sono gli Jolaurlo è necessario partire dal fondo.
Prestando attenzione, una volta tanto, alla traccia ROM contenuta in “D’istanti”,
infatti, si riesce a capire l’essenza di questi cinque ragazzi della provincia barese
che non si fanno problema alcuno a giocare coi generi più disparati. Proprio questo
è il segreto: mettere in un brano tutto quanto viene in mente, dai campionamenti alle
chitarre in levare, senza porsi limite alcuno. Un segreto che i Nostri vanno
divulgando dal 2000 e che, prima di questo esordio discografico, aveva già colpito i
molti gruppi con cui hanno avuto modo di suonare - in particolar modo i partenopei
Bisca che li hanno addirittura voluti in studio per una collaborazione artistica. Merito
anche delle capacità di frontwoman di Marzia Stano: voce che potrebbe ricordare
una Gwen Stefani incazzata e carisma impensabile per un’esordiente. Ma è tutto il
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gruppo a passare l’esame, dimostrando in nove brani una maturità artistica già
acquisita e idee a non finire, passando dalla rabbia dell'iniziale “Lasciami” ai cambi
d'atmosfera di “Missione sottomissione”. Un disco ispirato, prodotto e registrato a
Napoli da Vinci Acunto, e che speriamo non passi inosservato. Ci si potrebbe anche
sbilanciare identificando negli Jolaurlo i più accreditati eredi di quella Napoli che
musicalmente guarda al futuro, sostituendo alla militanza di 99 Posse, Bisca e
compagni grandi quantità di disincanto. Ottimi (www.jolaurlo.it).
Giorgio Sala
Clark Nova
So Young
Ghost-Tube/Venus
Ha una attitudine narcotica e lievemente febbricitante che ricorda i primi Flaming
Lips questo album di debutto dei varesini Clark Nova, gruppo attivo con vari
mutamenti di organico e di direzione musicale da una decina di anni, stabilizzatosi
infine a quintetto cinque anni fa. Attitudine evidente in pezzi come “Mickey Mouse
Was An FBI Agent” (una menzione particolare al suggestivo titolo cospirazionista),
dove le chitarre si inseguono e la voce si sdoppia e si deforma, sullo sfondo una
sezione ritmica pulsante e una serie di disturbi elettronici non identificati, e, su un
versante più pop, l’efficacissima “The Poser”, che pare chiamare in causa i Placebo
– ma è una semplice suggestione – per poi sporcarli di incrostazioni psichedeliche e
chitarre disordinatamente fragorose, pronte a esplodere in mulinelli di distorsione ed
effettistica assortita. La voglia di sperimentare non manca, a volte ci pare – ma è la
primissima impressione – un po’ approssimativa ma è proprio questo suo essere
approssimativa e instabile a renderla adatta ad intaccare il tessuto melodico dei
pezzi, un contrasto che dà ottimi risultati, in particolare nella distorta e quasi
bandistica “Diagonal 461, Barcelona”, impreziosita dall’intervento destabilizzante di
una tromba. Se proprio volessimo trovare un difetto in questo disco dovremmo
parlare di una certa uniformità nelle melodie, ma è una osservazione che passa
decisamente in secondo piano rispetto all’efficacissimo linguaggio psichedelico
dispiegato (www.clarknovatheband.com).
Alessandro Besselva Averame
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Mardi Gras
Drops Made
autoprodotto/Goodfellas
È “fatto di gocce” l’esordio sulla distanza lunga (diciamo media: 31 minuti) dei Mardi
Gras. Dopo un EP pubblicato solo in Irlanda (“The Moon EP”, 2000) e un altro
anche in Italia (“Ballads”, 2001), il duo si è fatto quartetto con l’innesto di una
classicissima sezione ritmica: Davide Iacoangeli al contrabbasso e Alessandro Fiori
alla batteria. Il progetto è ancora più compatto e la messa a fuoco certa: il cuore
sonoro dei Mardi Gras è nella traslucenza cristallina, la voce di Silvia “Six” Olivares
trasmette schiettezza e dolce determinazione, la naturalità risale dalle chitarre
acustiche di Fabrizio Fontanelli e della stessa Six. Potrebbe essere una via italiana
al New Acoustic Movement, anche se italiana per modo di dire, visto che la band
romana si esprime nella lingua di Willy the Shake. Dispensa confidenzialità
“Conversation”, presente anche in alternate version, ricerca verità nette “Untitled”.
“High Alive” è filologicamente luddista nella riproposizione del vinilico fruscio, mentre
“The Wait”, che racconta la pena di un condannato a morte, è stata eseguita a una
conferenza di Amnesty International davanti a esponenti del governo americano.
Gli accordi della chitarra si percepiscono senza veli – tutte le corde – come sulla
spiaggia o, meglio ancora, nella stanzetta. Eterna testardaggine degli adolescenti,
che rifugge da schermi e filtri come fossero il demonio. Qui si situa l’eterno dilemma:
corre un capello tra sincera e spontanea freschezza da un lato, scontato e ingenuo
candore dall’altra. Camminare su quel filo è affare da entusiasti equilibristi
(web.tiscali.it/mardigras).
Gianluca Veltri
Marco Anzovino
Canzoni ad occhi chiusi
Artesuono
La dimostrazione che è possibile essere cantautori classici sapendo guardare
avanti arriva dal secondo album di questo ragazzo friulano. Marco Anzovino, dopo i
primi consensi regionali dell’esordio che porta il suo nome, ha raggiunto importanti
traguardi, guadagnandosi anche la stima di Gino Paoli, che ha definito il suo brano
“Viaggiando su Marta” (vincitore del concorso “RadioRaiuno” nell’ambito del premio
Recanati 2001), una canzone ricca di fantasia e buon gusto (qui in versione live
come bonus). Mentre è storia recente la sua partecipazione a Brescia, ad una
manifestazione in compagnia di personaggi del calibro di Umberto Tozzi e Irene
Grandi. A metà tra la poesia di Fabi e Concato e la musicalità acustica di Cristiano
De André (di cui possiede il medesimo approccio vocale, intenso e pacato allo
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stesso tempo), il Nostro disegna dodici canzoni in bilico tra romanticismo e un tocco
di ironia e giovinezza che fugge via – con ritornelli godibili, docili e mai banali, snelliti
da arrangiamenti rotondi. La chitarra acustica è lo strumento guida, che si modella
sinuosa sul cantato, di tanto in tanto appare l’incanto di un sax, di un contrabbasso,
di una fisarmonica, di un pianoforte, per un insieme vellutato, di sicura emozione,
come testimoniano “Fiore dal mare”, “Splendida”, “Lettera” e la sarcastica “D.J.”.
Marco Anzovino, guidato dal produttore Stefano Amerio e da collaboratori qualificati,
ci crede e spera di trovare un suo spazio artistico, ma a leggere i suoi testi, alcune
volte leggermente ingenui, sembra comunque che si stia divertendo un mondo (
www.marcoanzovino.it).
Gianni Della Cioppa
Psychocandy
Chiusi dentro
autoprodotto
Nonostante sia passato molto tempo da quando ho iniziato a scrivere di musica,
non mi è ancora chiaro se “derivativo” sia un aggettivo dispregiativo e denigratorio
oppure se, avvicinato al titolo di un qualsiasi album, serva – puramente e
semplicemente – a descrivere quell’opera accostandola a un genere/artista più
famoso. Mi piace pensare, nel momento in cui rifletto sulla circostanza che “Chiusi
dentro” è un mini album (in totale cinque brani) appunto derivativo, alla seconda
delle alternative: in effetti, il nuovo lavoro degli Psychocandy – il primo demo,
“Scream Again”, raccoglieva quattro composizioni – riporta, anche a un ascolto
distratto all’epopea del grunge, all’inizio degli anni Novanta, ai camicioni di flanella,
a etichette come la Sub Pop e la Sympathy For The Record Industry, ai Nirvana, ai
Soundgarden e a Tad. Il loro è un suono voluminoso, ricco, compatto, che trae il
proprio ritmo dal vigore delle chitarre, che riescono a salire in maniera eccellente
fino a raggiungere un vortice di rumore che, tutto sommato, si riesce a tenere sotto
controllo. Con la conseguenza che, per una volta, la distanza che separa la
provincia brindisina dalle luci dello stato di Washington non è poi così abissale (
[email protected]).
Gabriele Pescatore
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Nino Bruno e le 8 Tracce
Nino Bruno e le 8 Tracce
Toast
Un tuffo indietro nel tempo, col corpo immerso fino al collo e la testa che spunta
fuori a scrutare l’orizzonte, per non perdere di vista quello che ha davanti a sé.
Questa è l’impressione che si ha ascoltando le quattro tracce che compongono l’EP
d’esordio di Nino Bruno, figura storica (e inafferrabile) dell’underground partenopeo,
passata nel corso degli anni dal glam-rock en travesti dei Von Masoch – dei quali
non resta traccia, se non su un introvabile vinile a tiratura carbonara – al recupero di
un suono vintage figlio tanto del beat italiano di inizio ’70 quanto della psichedelica
inglese che proprio in quegli anni accendeva gli spiriti al di là della Manica. Non
fosse sufficiente l’elenco dettagliato degli effetti usati (Roland space echo, Davoli
Universal spring reverb, Solton echomate) riportato all’interno del CD, per
convincervi basterebbe l’intreccio di organi Farfisa che domina il finale di “La luna”,
dal sapore sinistro e vagamente barrettiano. Gli archi arrangiati da Tony Esposito
fanno invece librare nell’aria la melodia de “I bucanieri”, leggera eppure maestosa e
imponente come si confà soltanto a ciò che ha la statura del classico. E che di vero
classico si tratta lo conferma il confronto con “Amico di ieri”, vecchio successo de Le
Orme che chiude il programma, omaggio esplicito a quelle origini di cui un attimo
prima i coretti di “Canta sirena”, con rispetto e ammirazione, si facevano beffe.
Difficile a dirsi e anche a farsi, ma è un giochetto che a Nino Bruno e le sue 8
Tracce riesce benissimo (http://www.toastit.com/).
Enzo Zappia
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La Camera Migliore
Scoperta e lanciata da Carmen Consoli, la band toscana ha dato un seguito
all’omonimo debutto del 2003 pubblicando “Cari miei”, ottima seconda prova
all’insegna di un pop-rock sfaccettato e intelligente, in grado di far collimare melodie
acchiappa-orecchie, idee anticonvenzionali e sfumature brillanti. Incontriamo
Georgia Costanzo, Marco Balducci e Francesco Fanciulacci in occasione di un
interessante show-case svoltosi proprio nel capoluogo fiorentino.
Perché “Cari miei”?
GC: Il titolo è tratto dalla canzone “I cuochi”. Prima di tutto, è un’espressione del
testo che ci ha colpito e ci è rimasta subito in mente. Rivolgersi direttamente agli
ascoltatori ci sembrava un pensiero intelligente. In seguito, queste due parole sono
diventate importanti perché la lavorazione dell’album è stata accompagnata da vari
cambiamenti ed è stata fondamentale la collaborazione di parecchia gente. Il disco
è inoltre popolato da innumerevoli personaggi, così “Cari miei” racchiude idealmente
sia i protagonisti dei brani sia quanti hanno contribuito alla realizzazione del disco.
Qual è la genesi dei pezzi?
GC: La lavorazione dell’album è iniziata quasi tre anni fa, poco dopo l’uscita del
nostro esordio, ed è durata molto. Alcune tracce erano almeno in parte già esistenti
- per esempio, “Testa d’aglio” o “Mancano i colpi” - e sono state successivamente
elaborate in maniera diversa, mentre i brani del tutto nuovi non sono poi tantissimi.
Talvolta il materiale a disposizione non viene utilizzato subito e diviene più adatto a
distanza di tempo, quando lo riprendi in mano e finisci per sentirlo maggiormente
tuo. Insomma, a volte capita di scrivere canzoni che sono più avanti di te e allora ci
vuole del tempo per poterle digerire.
Che differenze ci sono state nella messa in opera di “Cari miei” rispetto a
quella del vostro esordio?
GC: Prima ci trovavamo ogni giorno e facevamo tutto assieme. Stavolta è andata
diversamente: ci siamo divisi e abbiamo lavorato alle nostre idee separatamente,
per poi riunirci e registrare i provini. Non abbiamo avuto nessuna paura nell’inserire
quello che ci andava di mettere. Per il disco precedente, al contrario, ci sentivamo
più timorosi perché eravamo entrati in un mondo nuovo senza sapere come
funzionasse. Immaginavamo ci fossero meccanismi sconosciuti e che per far
combaciare tutto bisognasse comportarsi in un determinato modo, sulla cui base
fare delle scelte che a volte risultavano giuste e a volte sbagliate.
Oltre a un uso singolare della voce, spiccano sonorità acustiche e sintetiche,
archi, mandolini e campionamenti: un connubio fra modernità e classicità,
accessibilità melodica e ricercatezza.
GC: Nessuno di noi ha tabù musicali. A casa abbiamo lavorato col computer
utilizzando anche le batterie elettroniche. La parte più acustica, invece, è venuta
fuori in studio: in realtà, avevamo inizialmente utilizzato strumenti finti, ma alcuni
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arrangiamenti sono piaciuti talmente tanto che si è deciso di fare un investimento
per inserire un vero quartetto d’archi. I cantati sono molto intimi perché li ho
registrati sotto una coperta.
Riflettendo su episodi come “Franz” (ispirato a “Il processo” di Kafka),
“Mancano i colpi”, “La verità che adesso tace” o “Tito”, sembra trasparire un
forte desiderio di giustizia.
GC: Più che altro, desiderio di giustezza. Non ci siamo posti limiti nei confronti di
quello che volevamo dire. Raccontiamo noi stessi, esprimendo anche quello che a
nostro avviso è giusto o sbagliato. Le situazioni vissute solo di riflesso possono
infastidire e toccare ugualmente. Del resto, siamo di fronte a una pesante caduta di
quello stile che in origine salvava l’Italia. Anche se nella povertà e nel disagio totale,
un tempo si poteva rintracciare una cultura seppure paesana che elevava le
persone e che adesso viene soppressa. C’è un impoverimento incredibile.
Viaggiando e facendo concerti, possiamo accorgercene facilmente.
MB: Per “Franz” si tratta prevalentemente di una sensazione di disagio. Per diversi
anni, ci siamo posti il problema che tutte le nostre canzoni contenessero espressioni
solari come “sorridere”. Via via, si impara a esprimersi provando a vedere le cose da
un punto di vista differente.
“Cari miei” pare orientarsi verso la ricerca del pop - va da sé, di spessore perfetto. Non è forse un caso che il singolo “Il fannullone” sia calato negli
anni in cui per l’appunto “andava la musica pop”.
GC: La semplicità e la capacità di trasmettere leggerezza vincono sempre. Abbiamo
pensato di utilizzare il termine rock, ma siamo più contenti di avere scritto “andava la
musica pop”. Gli amanti del rock sono solitamente snob, e noi oggigiorno non lo
siamo per niente: preferiamo essere pop. Col passare del tempo, al vocabolo
“popolare” è stato attribuito un significato aggiunto e il pop è stato etichettato come
una forma d’arte di poco valore, ma in realtà non è così. Dipende da come lo vivi. È
come dire che il pane è la cosa più buona del mondo, anche se è composto
semplicemente da acqua e farina. Comunque, sono gli altri che tendono a inserirti in
una determinata categoria. Noi speriamo di fare qualcosa che arrivi al maggior
numero di persone possibile, oltre che ai coetanei con i nostri stessi interessi.
MB: Ci rivolgiamo a chi piace ascoltare con attenzione.
Cosa mi dite del caleidoscopio di personaggi che contraddistingue le vostre
originalissime liriche?
MB: Sono personaggi veri. Traggo spunto dalle storie inimmaginabili che mi
raccontano le persone anziane, che in passato non consideravo a causa della
differenza d’età. Per quanto riguarda le ispirazioni letterarie, ora come ora rileggo
solo Terra! di Stefano Benni.
Lavoriamo di fantasia: per dare vita ai vostri personaggi, chi vedreste dietro
la macchina da presa?
GC: Tim Burton.
MB: Wes Anderson o Terry Gilliam.
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Il bel set elettronico che avete proposto durante il recente tour nelle librerie
Feltrinelli dimostra quanto siate ricettivi verso qualsivoglia stimolo. Cosa ci
dobbiamo aspettare per il futuro?
MB: Probabilmente ci saranno vie inedite da sperimentare.
GC: Tendiamo a entusiasmarci e appassionarci facilmente: quando proviamo a fare
qualcosa di nuovo e riusciamo nel nostro intento, è una conquista davvero
importante e siamo stupiti e felici. Il pregio del gruppo è sicuramente il fatto di
apprezzare quello che viene e non dare niente per scontato.
Elena Raugei
Contatti: www.lacameramigliore.it
Sux!
Quarto album per i milanesi Sux! capitanati da Giorgio Ciccarelli, da anni prezioso
collaboratore live degli Afterhours, dopo “Contatto cuore-stomaco” (1998), “Di fronte
al civico 13” (2001) e “Lucido” (2003) . “Dentro la città” (Bagana-V2/Edel) è un’opera
che racconta la convivenza con la metropoli e le sue contraddizioni, con un omaggio
esplicito ai Thin White Rope e un equilibrio formale che allinea con la consueta
fluidità chitarre aspre e formato pop. Ecco come ce lo descrive Giorgio.
Tra le pieghe del disco affiora il tema della città come luogo di disagio,
alienazione e fonte di bisogno di fuga, a partire dall'immagine di copertina, un
minaccioso grattacielo visto dal basso. Un concept album, in un certo senso.
L'idea è nata strada facendo?
Il disco avrebbe dovuto chiamarsi “Il momento giusto”, dall’omonimo brano presente
nel CD il cui testo, uno dei primi scritti, rispecchiava bene l’atmosfera da “resa dei
conti” tra me e la mia città, Milano. Poi l’argomento mi ha preso letteralmente la
mano ed il fatto di vedere la città come una entità viva con la quale confrontarsi e
dalla quale difendersi, con la quale avere magari anche una storia d’amore, ha
aperto una valvola. Alla fine, siccome l’immaginario narrativo del disco riguardava la
città, la scelta del titolo è stata naturale.
Questa volta hai deciso di occuparti da solo della produzione: come mai?
All’inizio era una mera questione di assenza di quattrini da devolvere al produttore di
turno. Ho quindi preso in considerazione l’eventualità di occuparmene io stesso,
vista l’esperienza accumulata in questi anni. Il risultato è stato molto gratificante da
un lato, ma fisicamente e psicologicamente spossante dall’altro, per cui credo
proprio che non ripeterò l’esperienza.
Il suono del disco è molto diretto e immediato, anche se c'è un gran lavoro
sulle chitarre. Mi pare ci sia un buon equilibrio tra essenzialità e definizione
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del particolare.
Come avrai capito ci ho messo l’anima nel curare ogni particolare del disco e sono
contento che si noti il lavoro svolto. Per me la cosa più difficile da ottenere è un
equilibrio credibile tra tutti gli elementi ed una certa coerenza nelle scelte produttive,
che faccia sì che anche tra pezzi molto diversi ci sia un filo conduttore, e tenere la
barra dritta durante tutto il lavoro è stato complicato. Si hanno a disposizione tante
soluzioni diverse, ma in qualche modo ti devi limitare, soprattutto se credi che
l’essenzialità sia una caratteristica da evidenziare. È importante scegliere una
direzione e seguirla e in questo sono stato aiutato anche dal fonico dello studio in
cui abbiamo mixato, il Just Recording Studio, ovvero Massimiliano Lotti.
La scelta di una cover dei Thin White Rope in chiusura mi sembra
particolarmente indicativa del suono spoglio e potente di questo disco, e mi
sembra che anche l'approccio vocale sia, con le dovute differenze, in qualche
modo legato a quello di Guy Kyser, dilatato e lacerante se vuoi, qui più che in
passato. Una influenza importante, quindi.
Onore a te perché dopo decine di recensioni e interviste sei il primo a pronunciare
quelle tre paroline, Thin White Rope. Sì, decisamente, i Thin White Rope sono stati
un influenza importante per me, direi quasi fondamentale, reputo “Moonhead” un
album seminale, amo quel loro modo di suonare le chitarre senza mai un assolo, o,
volendo, sempre in assolo, quella voce unica e quella sensazione di malinconia
minacciosa sempre presente. Hanno avuto su di me lo stesso impatto del primo dei
Velvet Underground, di “Unknow Pleasures” dei Joy Division o “Jeopardy” dei
Sound. So che sto parlando di archeologia musicale, ma la mia carta d’identità parla
chiaro, c’è scritto 1967. Tempo fa Stefano dei Gea ci chiese di partecipare ad un
album tributo ai Thin White Rope. Scelta la canzone, “The Clown Song”, e
registrata, della compilation non se n’è fatto più nulla, ma il pezzo ce lo siamo portati
dietro ed è diventato parte integrante del disco
I testi hanno un respiro molto narrativo, quasi avessi voluto creare una sorta
di ciclo, costruito attraverso immagini e scene. C'è stato un lavoro specifico in
questa direzione?
Questa volta c’era l’intenzione specifica da parte mia di essere più narrativo, di
raccontare più che lasciar libero sfogo alle parole, ed in qualche occasione credo di
esserci riuscito. Come ti dicevo prima, mi sono lasciato prendere la mano da questa
visione della città viva e pulsante che ho cercato di guardare da più punti di vista:
quello dello sconfitto in “Metropolitano”, quello dello sradicato in “Niente di me” e del
disilluso in “A Milano”, e ancora quello di “Verso la città”, uno dei testi che mi
soddisfa di più. Attraverso il titolo, poi, si crea effettivamente una sorta di ciclo per
immagini e scene, con la città come soggetto centrale.
Sux! non è, naturalmente, “il dopolavoro del chitarrista live degli Afterhours”,
ma neppure un gruppo troppo legato alla routine disco-tour…
Non abbiamo contratti da onorare per cui non siamo costretti a fare uscire
obbligatoriamente dei dischi, né dobbiamo far tour per portare a casa la pagnotta.
Christian, Davide e Piero hanno tutti dei lavori, la musica è una passione di cui i
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Sux! sono il risultato. Sforniamo più o meno un disco ogni due anni, sempre noi
quattro e sempre con l’urgenza di esprimere qualcosa. Può sembrare un discorso
romantico e banale, ma la nostra è una storia di onestà musicale di cui vado
particolarmente orgoglioso. Certo, qualche concerto in più ci sarebbe d’aiuto, ma ci
stiamo lavorando.
Alessandro Besselva Averame
Contatti: www.sux.it
Mattia Coletti
“Zeno” è il debutto solista di Mattia Coletti – già apprezzato chitarrista che si
appresta a diventare anche discografico (Ame Records) – da poco uscito per
Wallace/Audioglobe. Un disco che scuote diverse corde dell’animo, si giostra tra
frammenti desertici, assenze, suoni cupi e elettroacustici movimentati dalle voci ora
agre ora cavernose. Ho detto "questo disco è bellissimo" al primo ascolto. Non
succede sempre. Mattia gentilmente ci risponde.
Dopo tanti progetti e collaborazioni sei riuscito a fare questo disco solista.
Visto però che quando s’ inizia a suonare sei solista, per forza di cose, com’è
stato il tuo primo approccio?
Effettivamente da quando ho iniziato a suonare, facevo delle cose da solista quindi
è la prima forma espressiva provata come musicista. In realtà il discorso è nato per
caso perché da sempre compongo a livello chitarristico e non solo, quindi questo
disco viene dalla volontà di registrare tanti mesi o magari anni d’intuizioni
chitarristiche che m’interessava curare. Suonando con gruppi o progetti non potevo
chiaramente perché in quei casi (e anche quello è il bello) devi mescolarti
comunque con gli altri.
Ecco. Adesso ci puoi elencare magari tutti i tuoi progetti?
I Sedia, gruppo rock di cui faccio parte; 61 Winter’s Hat; il progetto a due con Fabio
Magistrali; Polvere, un duo con Xabier Iriondo, elettroacustico; con il batterista dei
Sedia i From Hands; un duo con Andrea Belfi dei Rosolina Mar per il quale abbiamo
registrato un disco che è appena uscito su Frame Records e poi un altro registrato
in ottobre e in uscita questa estate. Poi, ancora, un collettivo con tre dei Bron Y Aur
– ovvero Fiè, Luca Ciffo e Fabio Cerina – e alla batteria Jacopo Andreini e alle
percussioni Diego Sapignoli degli Aidoru. Questo è un collettivo d’improvvisazione
che forse uscirà tra qualche mese però è un progetto abbastanza aperto.
Ultimamente sto suonando elettroacustica con Claudio Rocchetti e Alessandro
Calducci, batterista dei Sedia. E l’ultimissima cosa, un duetto con Yo Yo che però
ancora bisogna capire come andrà avanti e se andrà avanti.
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Questo è il tuo disco delle riflessioni, delle attese, momenti che s’intrecciano
attraversati dalla tua chitarra. Come è venuto fuori?
In maniera naturale in quanto, avendo uno studio di registrazione per lavoro, l’ho
composto, strutturato e missato nell’arco di sei, sette mesi; quindi è stata una
procedura molto lenta e graduale e svolta nella stanza in cui vivo in maniera
totalmente conscia di quello che avevo di fronte. Il che è completamente diverso dal
fare un disco in studio in una settimana di seguito chissà dove. Per quanto riguarda
le strutture non c’è un canovaccio dietro: di base ci sono pezzi più o meno scritti
sopra i quali ho improvvisato, anche insieme a Fabio Magistrali; però sono delle
strutture musicali scritte nell’arco di questi sei o sette mesi ed elaborate a forza di
ascolti e riascolti.
Visto che l’hai citato: Fabio Magistrali è l’unico che hai fatto “entrare” nel tuo
disco. Come mai proprio lui?
Veramente c’è anche il mio caro amico Francesco Vilotta che suona in un pezzo e
dà la voce a “Parole d’ocra”. Fabio comunque è una persona molto importante per
me, dal punto di vista creativo e umano. È stato spontaneo per me dargli il materiale
ancora prima di capire se questo disco potesse uscire o meno, perché per me
rappresenta un’impronta dinamica ed espressiva. Gli ospiti sono scelti dal punto di
vista di vicinanza umana piuttosto che artistica.
Ecco, tu comunque hai diverse anime musicali: ascoltando “I letti di
Procuste” dal tuo CD sembrano mille. Cosa ne pensi?
Credo sia bello. È importante che arrivi questo all’ascoltatore: qualcosa di non
decifrabile in maniera semplicistica, nel senso che ascoltando un progetto minimale
d’elettroacustica si può cadere in soluzioni che magari si ripetono. Invece se questo
è diversificato a seconda delle voci o delle strutture composte credo sia un bene.
L’obiettivo era quello di creare una sorta di racconto, di brevi scenari che si
susseguono ma che hanno comunque delle note diverse magari più scure o più
aperte o più giocose.
Adesso hai una nuova etichetta che debutterà tra un mese, raccontaci allora i
tuoi intenti?
La Ame Rec. è nata con Mirko (Spino, NdI), e la Wallace si occuperà della
distribuzione con i suoi stessi canali. L’idea è di pubblicare progetti, gruppi o artisti
che magari con la Wallace non avevano modo di uscire e in un numero di copie che
cambierà per ciascun progetto. Ad esempio, le prime uscite saranno: The End of
Summer (che è un quartetto con Alessandro Calducci, Xabier Iriondo, Paolo Cantù
ed io), e ne farò centocinquanta/duecento copie; l’altra uscita è Glinding Clerks (con
Mirko Spino e Fabio Magistrali), e saranno altre duecento. Cambia molto perché
poter fare un disco con meno di cinquecento copie, vuol dire che puoi fare con mille
copie di tiratura dieci progetti diversi e non due. Ame Rec., poi, avrà uscita seriale
con le copertine tutte uguali per ogni pubblicazione e cambierà solo l’intervento che
il gruppo deciderà di fare. Ci sarà una fustella di colore ocra con il logo Ame e il logo
Wallace e il gruppo magari ci andrà ad attaccare una cartolina o un timbro o una
foto. Sulla stampa del disco ognuno farà la grafica che vuole, però la copertina
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dovrà essere uguale, come se si trattasse di una specie di collana insomma. Inoltre,
come la Wallace, sarà molto selettiva. Non c’è una linea comune a tutti i dischi,
fondamentalmente se mi piacciono sarò felice di pubblicarli.
Qual è il tuo sogno come musicista?
Di continuare a fare quello che sto facendo cioè di collaborare con tante persone
diverse che mi danno tantissimo soprattutto a livello umano. E che i miei dischi e
tutto ciò che faccio venga accolto nella maniera giusta, quindi che sempre più gente
possa comprendermi musicalmente.
Ma non hai paura di stancarti ad un certo punto?
No, perché sono già stanco: ho ventitre anni e me ne sento quaranta. Solo che non
riuscirei a fare a meno della musica. Mi viene naturale. Non lo faccio perché ho
tempo libero perché non ne ho. E’ la mia forma espressiva, già dopo la parola per
me viene la musica quindi è difficile che io non voglia più comunicare.
Francesca Ognibene
Contatti: www.wallacerecords.com
Transex
I capitolini Transex sono come uno se li può immaginare: schietti e sinceri, in tutto.
Simpatici anche. Telefonando per parlare del gruppo e dei suoi progetti a Luigi – il
chitarrista – e, in meno di mezz’ora, si ride e si scherza come ci si conoscesse da
sempre. Merito delle loro origini certo, ma anche della musica a cui entrambi siamo
devoti: il rock’n’roll. Si finisce così per parlare di “Domino” (Tre Accordi/Self), il loro
ultimo e folgorante disco, ma anche di tutto quello che ci sta attorno. E non solo…
Non possiamo iniziare non parlando di “Domino”, secondo e ultimo vostro
album. Mi sembra, per iniziare, che sia un bel passo in avanti rispetto
all’esordio: come lo vedete, a qualche mese dalla sua uscita?
Concordo in pieno con te, e del resto era logico e naturale aspettarsi un qualche
miglioramento. Abbiamo avuto una produzione migliore e dei fonici bravissimi a
disposizione, e già questo vuol dire moltissimo in termini di risultato finale. A livello
di gruppo invece sono stati fondamentali la maggiore sintonia tra di noi, gli ascolti e
l’esperienza fatta suonando in giro, tutte cose che si sono riflesse dentro al disco e
che ce lo fanno ancora piacere parecchio a distanza di mesi dalla sua realizzazione.
Unica nota negativa forse è stato l’abbandono del formato LP.
Purtroppo si. La scelta è stata dettata dal fatto di poter lavorare con Tre Accordi,
un’etichetta eccezionale con cui collaboriamo in maniera eccellente ma che si
dedica solo al formato CD: è comunque nostra intenzione realizzare, prima o poi,
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anche la versione LP di “Domino”, anche se i costi, soprattutto per la
masterizzazione, sono davvero proibitivi.
Avete registrato alcune parti in analogico, mentre altre in digitale: budget o
scelta precisa?
Credo sia un misto di entrambe le cose, anche perché dipendesse soltanto da noi
registreremmo sempre tutto in analogico. Stavolta abbiamo invece registrato le
chitarre e la voce in digitale, abbiamo così potuto trattarle con più precisione e
amalgamare tutto quanto–questo si in analogico– senza troppi problemi ottenendo
però il risultato che avevamo in testa.
E che mi dici dei testi? Devo assolutamente complimentarvi con voi per titoli
quali “Holiday In Beslan”.
Eh si (risate, NdI), sono il nostro atto d’amore, viscerale, per questo mondo.
Pierpaolo (il cantante, NdI) ama la storia di personaggi come Stalin, Pol Pot e così
via, logico quindi che qualcosa di queste sue passioni filtri anche in quello che
canta.
Non solo storia e storie, ma anche donne nelle vostre parole, “come nessuno
fece dai tempi del Dolce Stilnovo e Gino Paoli” per citare la cartella stampa.
Assolutamente (risate generali, NdI)! Del resto parliamo pur sempre d’amore, anche
se è tutto filtrato dal nostro punto di vista, un punto di vista magari non troppo
convenzionale ma comunque sincero. E per ritornare al discorso dei titoli dei brani
quale esempio migliore di “White Girls, Black Cocks”, sul nostro primo disco?
Verissimo. In questa direzione quindi va anche la fresca collaborazione con la
star dell’hard Roberta Cavalcante?
Si, senza dubbio. Siamo molto contenti di iniziare un sodalizio con Roberta;
innanzitutto perché è stata lei a cercarci e questo ci ha fatto molto piacere, e poi
perché non abbiamo la minima idea di cosa combineremo con lei. Al momento ci
siamo soltanto sentiti, e le proposte sono molteplici: da spettacoli dal vivo sul palco
fino ad ipotizzare anche qualche duetto canoro. Insomma non vedo l’ora di vedere
come si realizzerà questa situazione. Staremo a vedere.
La vostra musica guarda forse più al passato che non al presente: ma c’è
qualcosa della musica di oggi che ti interessa?
Si, forse suoniamo un po’ retrò, ma non ascoltiamo soltanto cose d’annata. Ad
esempio personalmente apprezzo molto i White Stripes, anche se dipendesse da
me cambierei batterista e prenderei un bassista serio (risate, NdI). Non ho ancora
capito se mi piacciono gli Strokes ma, soprattutto, stiamo riscoprendo tutti quanti il
grunge. Ecco, forse il problema è che siamo cogliamo la musica nuova nell’aria con
dieci anni di ritardo.
Quindi il rock non è morto, è soltanto difficile proporlo in Italia.
Abbastanza, ma in Italia è difficile fare qualunque cosa esca un po’ dai canoni. Del
resto non abbiamo certo iniziato a suonare sperando di diventare delle star, lo
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facciamo soltanto perché è la nostra passione. I casini sono tantissimi: date che
saltano, pochi locali che fanno suonare, ma a noi piace suonare. Ci accontentiamo
delle piccole soddisfazioni che i Transex ci danno, ci basta già così.
Giorgio Sala
Contatti: www.petrosh.it/transex
Psycho Sun
Nel Salento non ci sono solo il reggae e la taranta. Dal 1994 gli Psycho Sun
sbandierano la loro attitudine rock non solo con il gruppo, ma districandosi con
determinazione nell’organizzazione di concerti, nel creare clubbing e parlando di
musica tramite la cooperativa CoolClub (www.coolclubbing.it). Dopo l’esordio
ufficiale su Magenta Records nel ’97 e mille avventure tornano ad incidere e si
ripresentano più solari, pieni di coretti e vestiti da Urtovox (distribuzione
Audioglobe). Risponde per tutti il cantante e chitarrista Tobia Lamare, alias Stefano
Todisco.
Quali dischi vi hanno ispirato tanto da farvi mettere su gli Psycho Sun?
Dieci anni fa ci ha unito innanzitutto la passione comune per i Velvet Underground e
avevamo consumato i dischi degli Stone Roses e dei Lush. Considera però che il
batterista e il bassista all’epoca erano molto più giovani di noi, infatti avevano
quindici anni e venivano da esperienze più sul grunge. Crescendo i nostri ascolti
sono cambiati ancora e siamo passati ad amare il garage o tutti i gruppi nord
svedesi o ancora Jon Spencer, i Sebadoh, i Pavement e tutta la scena alternativa
indipendente con delle chitarre distorte.
Avevate iniziato, quando uscì “Ever Ready” un po’ più distorti rispetto alle
canzoni che troviamo in “Silly Things”: cos’è successo?
È una questione di ascolti che cambiano. Su questo disco ci sono delle canzoni che
sono state scritte qualche tempo fa, che abbiamo voluto inserire in una versione più
‘spinta’ rispetto all’originale. Non mancano le ballate che effettivamente ci hanno
sempre accompagnato, però nella realizzazione di quest’album in particolare sono
aumentate; soprattutto per la scoperta negli ultimi anni di band molto morbide che ci
hanno spinto a rallentare con il distorsore. Anche se poi dal vivo tutto finisce con
l’avere una spinta e una dinamica diversa.
Nel 2000 siete passati a scrivere le canzoni in italiano. Come mai e perché
siete tornati subito dopo all’inglese?
Quella è stata una parentesi divertente. Non so come ci è venuta, però adesso
possiamo dire che ci abbiamo provato. Alcuni pezzi ci sono riusciti, altri non
andavano. Poi con estrema naturalezza siamo tornati all’inglese. Forse perché ci
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appartiene molto di più, viste le nostre sonorità; invece, quando cantavo in italiano
facevo riferimento a Mal dei Primitives e quindi mi veniva un accento estremamente
inglesizzato.
Avete avuto anche un’esperienza all’estero.
È successo nel 2002 quando abbiamo fatto un piccolo tour in Inghilterra grazie
all’etichetta londinese Nophaseintime, che ha inserito un nostro brano nella sua
prima compilation. È stata una bellissima esperienza che ripeteremo in primavera.
Cosa c’è da dire riguardo a “Silly Things”?
Queste canzoni sono il frutto degli ultimi anni, quindi del tour inglese sino ad
adesso. “Silly Thing” e “Ben And Cicely” parlano entrambe dei protagonisti del libro
“La banda dei brocchi” di Jonathan Coe. È stato un disco abbastanza naturale.
Abbiamo cambiato sala prove e ci siamo messi a suonare nella casa dove
attualmente viviamo il batterista ed io che è una casa in campagna isolata da tutto.
Di cosa parlano le vostre canzoni?
Alcune parlano di storie d’amore tratte da esperienze personali, altre sono solo
fantasie. Sono bene o male tutto questo. Anche quelle un po’ più tirate e più punk.
I coretti sparsi nelle varie canzoni da dove saltano fuori? Anche gli altri
membri della band adesso cantano?
No. Sono sempre io, infatti dal vivo uscirà tutto più melodico e asettico.
Com’è la scena indipendente a Lecce in questo periodo?
C’è una scena molto fervida. Ci sono gli Studiodavoli, che sono un grandissimo
gruppo partito dalla lounge per trovare una propria via personale, nel mettere in
relazione le sonorità di Stereolab e Cardigans. C’è Populous, grandissimo
compositore di musica elettronica e poi ci sono una serie di altri gruppi che vanno
dal noise al rock. Nel Salento il rock supera il reggae come composizione.
Il disco è uscito per Urtovox. Vi piacciono i vostri compagni d’etichetta?
Speravo potessimo uscire per la Urtovox. L’ho conosciuta per gli A Toys Orchestra,
un gruppo che mi piace dall’anno scorso. E quindi il fatto di uscire per la stessa
etichetta ci ha resi estremamente felici. E poi ha dei bellissimi artisti come
Goodmornigboy.
Com’è avvenuto il contatto per produrre il vostro disco?
In maniera abbastanza semplice. Abbiamo spedito il promo del CD e poi Paolo ci ha
richiamato. Ci siamo messi a chiacchierare per mezz’ora sui Television e alla fine ci
siamo incontrati a Firenze.
Oltre al gruppo avete da fare anche con Cool Club.
Cool Club è una cooperativa nata tre anni fa e cura eventi alternativi, concerti,
letteratura, quindi molte situazioni di clubbing. È anche un giornale il cui direttore è il
nostro batterista e ci lavora dentro Cesare, il chitarrista come organizzatore
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generale. Non manca niente: recensioni, musica, film, interviste. È l’altra faccia del
Salento, quella più rock’n’roll.
Avete anche partecipato a un cortometraggio…
Sì, l’abbiamo girato l’anno scorso. S’intitola “Fumo” ed è diretto da Ippolito Chiarello,
che è un nostro grande amico oltre ad essere un bravissimo attore leccese. Parla di
un sogno. Un viaggio nel tempo di coltivatori di tabacco che dalla provincia di Lecce
si spostano nella provincia di Taranto. Praticamente i protagonisti del corto siamo
noi del gruppo insieme a due bambini che fanno i fantasmi. È stata un’esperienza
molto bella che diventerà un lungometraggio l’anno prossimo. Otto canzoni del corto
sono le nostre. Ha girato già un po’ di festival: “Italian Los Angeles Film Festival”,
“Festival di Bellaria”… Insomma, lo stiamo presentando in giro.
Francesca Ognibene
Contatti: www.psychosun.it
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Northpole
Hiroshima Mon Amour, Torino, 9/2/06
Da un gruppo di emergenti non si aspetta altro che una prova sul palco abbastanza
convincente da non cadere nell’idea di trovarsi davanti a dei dilettanti allo sbaraglio.
I Northpole però non possono avvalersi di questa scusante in quanto sulle scene da
orma parecchi anni con pubblicazioni clandestine e attenzioni da parte di quel John
Peel che dal ciel ci guarda. Che il loro disco omonimo del 2005 sia l’esordio ufficiale
sulla lunga distanza è un dato puramente accessorio, perché non appena i quattro
veneti salgono sul palco fanno capire di essere dotati di una marcia in più rispetto a
ben più blasonati colleghi. Le canzoni si vestono di un abito maggiormente
concentrato sulle chitarre, portando ad arpeggi distorti e divagazioni strumentali
figlie di un certo indie americano che la band sembra conoscere alla perfezione. Poi
ci sono le canzoni. Quelle che su disco sembrano qualcosa tipo “la salvezza per la
musica leggera italiana”, nei club dimostrano la loro potenza lirica e il realismo
minimalista di certi testi – “Luca Marc”, “La distanza” - guadagna intensità grazie ad
un potente lavoro strumentale.
Ma non tutto oro è quel che luccica. La presenza scenica dei Northpole non è di
quelle che ti rimangono impresse e qualche volta sembrano un po’ intimoriti (o
semplicemente intimiditi?) di trovarsi davanti a così tanta gente quando per molti
anni sono stati affare per pochissimi. Compensando questi punti “negativi” con le
ottime capacità musicale - in fondo di cosa stiamo parlando? - ne deriva che i
Northpole, alla fine, valgono la pena di essere visti.
Hamilton Santià
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