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Ora che Mary McQuade era arrivata, finsi di non ricordarmi di lei.
Sembrava la cosa più saggia da fare. Quanto a lei, disse: – Se non ti ricordi
di me, è segno che non hai una gran memoria, – ma lasciò perdere, aggiungendo solo una volta: – Scommetto che quest’estate non sei mai andata a
casa della nonna. Scommetto che neanche di questo ti ricordi.
La chiamavamo, anche quell’estate, la casa della nonna, sebbene allora
il nonno fosse ancora vivo. Si era ritirato in un’unica stanza, quella più
grande, sul davanti della casa. Aveva le imposte di legno alle finestre, come
il soggiorno e la sala da pranzo; le altre camere invece avevano solo le tapparelle. Per giunta la veranda riparava dalla luce, perciò il nonno stava
tutto il giorno a letto quasi al buio, con la chioma bianca, ora soffice, pulita
e curata come quella di un bebè, la camicia da notte e i cuscini bianchi,
un’isola nella stanza alla quale la gente si avvicinava con diffidenza, ma
energicamente. Mary McQuade con la sua uniforme era l’altra isola della
camera, e se ne stava seduta, perlopiù immobile, dove il ventilatore, quasi
fosse stanco, rimestava l’aria come una minestra. Doveva essere troppo
buio per leggere o fare la maglia, sempre che ne avesse voglia, e così si
limitava ad aspettare e respirare, producendo un suono simile al ronzio
del ventilatore, carico di vecchie recriminazioni ormai indistinte.
Al tempo ero talmente piccola che mi mettevano a dormire in un lettino a sbarre – a casa mia no, ma dalla nonna ne avevano tenuto uno per
me – in una camera dall’altra parte del corridoio. Non c’era il ventilatore,
lì, e la luce esterna, fortissima – i campi piatti tutto intorno alla casa assumevano un brillio come d’acqua, sotto il sole –, entrava a lampi dalle fessure delle tapparelle. Chi ci riusciva, a dormire? Le voci di mia madre,
della nonna e delle mie zie intessevano le loro consuete ripetizioni in
veranda, in cucina, in sala da pranzo (dove, con una piccola spazzola dal
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manico d’ottone, mia madre puliva la tovaglia bianca, e dal lampadario
spento pendevano sul tavolo rotondo spessi fiori di vetro color caramello).
Quanti pasti in quella casa: cucinare, chiacchierare, ricevere gente, qualcuno che suonava perfino il pianoforte (era la mia zia più giovane, Edith,
che cantava e suonava a una mano sola «Nita! Juanita!»); quanta vita.
Eppure i soffitti delle stanze erano altissimi e sotto di essi incombeva una
gran quantità di spazio semibuio inutilizzato e, quando me ne stavo sdraia­ta
nel lettino e faceva troppo caldo per dormire, potevo guardare su e contemplare quel vuoto e gli angoli macchiati, e percepire, sotto il caldo
umido, quello che dovevano aver sentito tutti in casa, pur senza sapergli
dare un nome: una testimonianza di convivenza con la morte, quel piccolo grumo magico di ghiaccio. E intanto Mary McQuade aspettava nel
vestito bianco inamidato, grossa e cupa come un iceberg a sua volta, implacabile, aspettava e respirava. Per me era lei la responsabile.
Perciò finsi di non riconoscerla. Non si era messa l’uniforme bianca, il
che non la rendeva necessariamente meno pericolosa ma poteva, se non
altro, voler dire che non era ancora arrivato il momento di imporre il suo
potere. Alla luce del giorno e non vestita di bianco si rivelò coperta di efelidi ovunque, su ogni porzione visibile di pelle come se le avessero spruzzato addosso dei chicci d’avena, e poi aveva una corona di capelli crespi,
lustri e tinta bronzo naturale. La sua voce era roca e stentorea e la lingua
che di solito parlava era quella della recriminazione. – Mi tocca proprio
stendere tutto ’sto bucato da sola? – mi urlò in cortile, e io la seguii allo
stenditoio dove lei poggiò a terra con un gemito il cesto della roba bagnata.
– Passami le mollette. Una alla volta. Dalla parte giusta. Manco dovrei starci,
fuori con questo ventaccio, debole di bronchi come sono –. A testa bassa,
come un animale incatenato al suo fianco, le passai le mollette. All’aperto,
nell’aria fredda di marzo, perdeva un po’ della sua massa e del suo odore.
In casa lo sentivo sempre, quell’odore, anche nelle stanze dove entrava
poco. Com’era? Sapeva di metallo, di certe spezie nere (chiodi di garofano
– soffriva il mal di denti, in effetti) e del preparato che mi spalmavano sul
petto quando avevo il raffreddore. Una volta lo accennai a mia madre, che
disse: – Non dire stupidaggini, io non sento niente –. Perciò evitai di parlarle del sapore, perché c’era anche un sapore. Era dentro a qualunque cosa
Mary McQuade cucinasse e forse in tutto quello che si mangiava in sua presenza – nel porridge della mia colazione come nelle patate fritte del pranzo
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e nella fetta di pane, burro e zucchero di canna che mi dava da mangiare
in cortile –, un sapore strano, sabbioso, deprimente. Possibile che i miei
non se ne accorgessero? Ma per ragioni loro, lo negavano. Ecco una verità
che l’anno precedente ancora non sapevo.
Quando ebbe steso il bucato, dovette mettere i piedi a mollo. Le gambe
le uscivano dritte e cilindriche come tubi dalla bacinella fumante. Con le
mani sulle ginocchia si chinò sul vapore dando in gemiti di dolore e sollievo.
Tu sei un’infermiera? – le chiesi, temeraria, anche se me l’aveva già
detto mia madre.
– Sì, purtroppo.
– E sei anche mia zia?
– Se fossi tua zia mi chiameresti zia Mary, no? E invece no. Sono tua
cugina, sono la cugina di tuo padre. Per questo chiamano me e non un’infermiera qualsiasi. Sono infermiera diplomata. E in famiglia c’è sempre
qualcuno che sta male e a me tocca correre. Mai un po’ di riposo.
Non le credevo. Dubitavo che le chiedessero di venire. Si presentava
lei, e cucinava quel che le pareva, risistemava tutto a suo comodo, lamentandosi delle correnti d’aria, e liberando in casa il suo potere. Se non fosse
mai venuta, mia madre non sarebbe finita dentro un letto.
Il letto di mia madre fu trasferito in sala da pranzo per risparmiare le
scale a Mary McQuade. I capelli di mia madre erano pettinati in due treccine magre e scure, le guance erano giallognole, il collo caldo e odoroso di
uvetta come sempre, ma il resto di lei, sotto le coperte, si era trasformato
in un grande oggetto misterioso e fragile, difficile da muovere. Parlava di
sé con voce mesta, in terza persona, dicendo: «Attenta a non fare male alla
mamma, non ti sedere sulle gambe della mamma». Ogni volta che pronunciava la parola mamma mi sentivo gelare ed ero inondata da una specie di
infelicità mista a vergogna, come quando nominavano Gesù. Quella mamma
che la mia mamma vera, umana, dal collo caldo, irascibile e consolatoria
erigeva fra noi due era uno spettro eternamente ferito, afflitto come Lui da
tutte le cattiverie che ancora non sapevo avrei commesso.
Mia madre faceva quadretti all’uncinetto per una coperta, in tutte le
sfumature di viola. Si infilavano tra le lenzuola ma a lei non importava.
Una volta finiti, non le interessavano più. Aveva dimenticato tutte le sue
storie che parlavano di principi nella Torre di Londra e di una regina alla
quale avevano mozzato la testa mentre il cagnolino si nascondeva sotto le
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sue sottane e di un’altra regina che aveva succhiato il veleno dalla ferita
del marito, e poi della sua infanzia, un’epoca non meno leggendaria. Affidata alle cure di Mary invece, piagnucolava come una bambina: «Mary,
non so cosa darei per un massaggio alla schiena». «Mary, me la faresti una
tazza di tè? Mi sa che a furia di bere tè mi gonfio come un pallone e volo
su fino al soffitto, ma non ho proprio voglia di nient’altro». Mary si faceva
una risatina. «Figurati, – diceva. – Non voli da nessuna parte, sta’ tranquilla. Ci vuole un argano per spostare te. Avanti, tirati su, prima il dovere
poi il piacere!». Mi cacciava via e cominciava a sistemare il letto strattonando le coperte con malgarbo. «Hai stancato la mamma? Perché vieni
qui a dar fastidio alla mamma, con una giornata così bella?». «Forse si
sente sola», diceva mia madre inscenando una debole difesa. «Può andare
a sentirsi sola anche in cortile, – diceva Mary con la sua aria solenne e vagamente minacciosa. – Copriti e va’ fuori!».
Anche mio padre era diverso dall’arrivo di lei. Quando veniva a casa a
mangiare, Mary lo aspettava sempre, e sempre con qualche scherzo in
agguato che la gonfiava come una rana toro facendole assumere un’espressione feroce e un colorito acceso. Gli metteva nella minestra dei fagioli
bianchi crudi, duri come sassi, per vedere se l’educazione lo avrebbe
costretto a mangiarli. Gli incollava al fondo del bicchiere qualcosa che assomigliava a una mosca. Una volta gli diede una forchetta senza un rebbio
fingendo di non averlo fatto apposta. Lui gliela tirò addosso e la mancò,
ma il gesto mi sbalordì lo stesso. Mia madre e mio padre, a tavola, parlavano a bassa voce e di cose serie. Ma nella famiglia di mio padre anche gli
adulti si facevano scherzi con vermi e scarafaggi di gomma; alle vecchie zie
grasse si chiedeva di accomodarsi su seggiole traballanti, mentre gli zii facevano vento in pubblico dicendo: «Ehi, tenetevi laggiù», fieri di sé come se
avessero fischiettato una melodia difficile. Non c’era verso che ti chiedessero quanti anni avevi senza una filastrocca burlona d’accompagnamento.
E con Mary McQuade mio padre recuperava le abitudini familiari, esattamente come tornava a divorare montagne di patate fritte con carne di maiale
e torte rustiche dalla crosta spessa e a bere tè nero e forte come una medicina da una teiera di smalto, sempre ringraziando: «Mary, tu sì che hai capito
cosa ci vuole a tavola, per un uomo». E subito dopo: «Non sarà ora che te
ne trovi uno tuo da sfamare, a proposito?», battuta che gli procurava il lancio dello strofinaccio dei piatti, se non quello della forchetta.
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Era sempre sul trovare marito che la prendeva in giro. «Stamattina me
n’è venuto in mente uno che fa per te, – le diceva. – No, Mary, adesso non
scherzo, ci devi proprio pensare». La risata le usciva a labbra serrate, in
un’esplosione di sbuffi bellicosi, mentre in faccia avvampava al limite
dell’allarmante e intanto si contorceva sulla sedia rumoreggiando in modo
minaccioso. Trovava senz’altro la cosa uno spasso, tutti quegli assurdi
accoppiamenti immaginari, anche se mia madre avrebbe di certo giudicato crudele, osceno e crudele, prendere in giro una vecchia signorina sugli
uomini. In casa di mio padre, invece, era proprio su quell’argomento che
si concentravano tutte le battute. E quale, se no? Anzi, più lei si faceva
grossa, sguaiata e improponibile, e più la prendevano in giro. In quella
famiglia marcava male se di qualcuno bisognava dire che era sensibile,
come succedeva di mia madre. Zie, zii e cugini si erano tutti irrobustiti
parecchio contro qualsiasi forma di crudeltà personale ed erano indifferenti, per non dire orgogliosi, di un eventuale difetto fisico o di un impedimento in grado di scatenare ilarità negli altri.
All’ora di cena in casa era buio, benché le giornate si stessero allungando. Non avevamo ancora la luce elettrica. Arrivò poco dopo, forse l’estate successiva. Ma per il momento c’era solo una lampada in mezzo al
tavolo. Alla sua luce, mio padre e Mary McQuade gettavano ombre gigantesche, con le teste che ciondolavano accompagnando le loro conversazioni e le loro risate. Io osservavo le ombre anziché le persone. Mi chiedevano: «Cosa stai sognando?», ma io non stavo sognando, cercavo di
afferrare il pericolo, di interpretare i segnali dell’invasione.
Mio padre disse: – Vuoi venire con me a vedere le trappole? – Aveva
piazzato una fila di trappole per i topi muschiati lungo il fiume. Quando
era più giovane passava i giorni e le notti, le settimane, nella foresta, a
seguire i corsi d’acqua di tutta la Wawanash County, e cacciava non solo
topi muschiati ma anche volpi rosse, visoni selvatici, martore, tutte bestie
che hanno la pelliccia migliore in autunno. Il rat musqué è l’unico ad andar
bene anche in primavera. Da quando si era sposato e lavorava la campagna si concedeva giusto una fila di trappole, e perfino quell’abitudine durò
solo qualche anno. Quello fu forse l’ultimo.
Attraversammo un campo che era stato arato l’autunno prima. Era
rimasta un po’ di neve nei solchi, ma non era neve vera, solo una crosta
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sottile come vetro appannato che si sbriciolava sotto i miei passi. Il campo,
in leggera discesa, digradava fino alla pianura del fiume. Qua e là il peso
della neve aveva abbattuto lo steccato, e potevamo scavalcarlo.
Mi precedevano gli scarponi di mio padre. Quegli scarponi per me
erano unici e familiari, un segno inequivocabile della sua presenza non
meno della sua faccia. Quando se li toglieva, stavano in un angolo della
cucina a emanare un odore composito, di letame, olio per macchine e fango
nero incrostato oltre che del tessuto vecchio e logoro che bordava le suole.
Erano una parte di lui temporaneamente dismessa, in attesa. Avevano un’aria ostinata e severa, per non dire brutale, un’espressione che ai miei occhi
era tutt’uno con lui, l’opposto complementare della sua faccia, sempre
affabile e pronta allo scherzo. Del resto quella brutalità non mi soprendeva; mio padre tornava sempre da noi, da mia madre e da me, ma dopo
essere stato in luoghi dove il nostro giudizio non lo poteva seguire.
Per esempio, in una trappola c’era un topo muschiato. Dapprima lo
vidi ondeggiare sul bordo dell’acqua, come una pianta tropicale, una felce
scura. Mio padre lo tirò su e il pelo cessò di ondeggiare ma si incollò tutto
insieme, la felce si trasformò in una coda col corpo del topo attaccato in
cima, lustro e grondante. I denti erano digrignati mentre gli occhi, bagnati
di sopra, vacui e spenti di sotto, luccicavano come sassolini nell’acqua.
Mio padre lo scrollò e lo fece roteare spruzzando tutto intorno una piccola pioggia di acqua gelida di fiume. – Guarda qua che bello, – disse. –
Questo è un vecchio re dei topi. Guarda che coda –. Poi, forse temendo
che io fossi turbata, o forse solo per il desiderio di mostrarmi il fascino di
certi semplici meccanismi perfetti, estrasse la trappola e me ne spiegò il
funzionamento: trascinava la testa dell’animale subito sott’acqua facendolo pietosamente annegare. Non capii, né mi interessava. Se ne avessi
avuto il coraggio, mi sarebbe piaciuto toccare quel corpo fradicio e irrigidito, una testimonianza di morte.
Mio padre sistemò una nuova esca nella trappola usando bocconi di
mela gialla avvizzita dall’inverno. Infilò il corpo dell’animale in un sacco
scuro che portava in spalla, come un venditore ambulante in un quadro.
Quando aveva tagliato la mela avevo intravisto il coltello da scuoio, con
la sua lama sottile e lucente.
Poi proseguimmo lungo il Wawanash River in piena, d’argento nel
mezzo, bove batteva il sole e dove l’acqua correva veloce come una frec-
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cia. È la corrente, pensai, e me la immaginavo come una cosa separata dal
fiume, così come il vento è separato dall’aria e possiede una forma propria e prepotente. Le sponde erano ripide e scivolose, fiancheggiate da
arbusti di salice ancora spogli, ricurvi e deboli come erba alta, il rumore
del fiume non era forte ma profondo e sembrava arrivare da sotto, nel centro, da un luogo segreto nel quale l’acqua scaturiva ruggendo dalla terra.
Il fiume curvava, persi l’orientamento. Trovammo altri topi nelle trappole; li liberavamo, li scrollavamo, li infilavamo nel sacco e sostituivamo
le esche. Cominciavo ad avere freddo a faccia, mani e piedi, ma non dissi
niente. Non avrei potuto, con mio padre. D’altronde lui non mi disse mai
di fare attenzione, di non avvicinarmi alla riva; dava per scontato che avessi
abbastanza buonsenso da non cadere in acqua. Non chiesi mai quanto
avremmo camminato, o se la fila di trappole a un certo punto sarebbe
finita. Dopo un po’ ci trovammo il bosco alle spalle, cominciava a fare
buio. Non mi passò per la mente allora, né per molto tempo anche in
seguito, che si potesse trattare dello stesso bosco che vedevamo dal nostro
cortile, una salita a ventaglio con gli alberi spogli d’inverno simili a ramoscelli ossuti stagliati contro il cielo.
Ora sulla sponda non c’erano salici ma arbusti fitti più alti di me. Io
rimasi sul sentiero a metà dell’argine, mentre mio padre scendeva all’acqua. Quando si chinò sulla trappola non lo vidi più. Girai lentamente lo
sguardo intorno e vidi qualcos’altro. Davanti a noi un uomo scendeva da
un punto più alto dell’argine. Non produceva il minimo suono passando
in mezzo agli arbusti e si muoveva con disinvoltura, come se stesse percorrendo un sentiero a me invisibile. In un primo momento vidi soltanto
la testa e la parte alta del corpo. Era bruno, con la fronte ampia e stempiata, i capelli lunghi dietro le orecchie, profondi solchi di rughe sulle
guance. Quando gli arbusti sfittirono riuscii a vedere anche il resto: le
gambe lunghe e agili, la figura sottile, gli abiti mimetici e l’oggetto che
aveva in mano, illuminato a tratti dal sole – una piccola ascia, o un’accetta.
Non feci nemmeno il gesto di avvisare o chiamare mio padre. L’uomo
attraversò il mio sentiero un po’ più avanti e proseguì verso il fiume. Si
dice che la paura ti paralizzi, ma io mi sentivo davvero inchiodata, come
colpita da un fulmine, e quel che provai fu più una specie di riconoscimento che di terrore. Non ero sorpresa. Ero di fronte all’immagine che
non stupisce, a qualcosa della cui esistenza non avevi mai dubitato e che
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ora avanza in modo naturalissimo, con pacata delicatezza e senza fretta,
quasi scaturisse, in origine, da un tuo desiderio, dalla speranza di una realtà
estrema e terrificante. Da tutta la vita sapevo che esisteva un uomo così e
che stava dietro le porte, dietro l’angolo al fondo di un corridoio buio. E
adesso che l’avevo visto mi misi semplicemente in attesa, come il bambino
di un vecchio negativo, folgorato contro il cielo nero del pieno giorno, coi
capelli in fiamme e gli occhi bianchi, stile Annie l’Orfanella. L’uomo scivolò tra gli arbusti in direzione di mio padre. E nemmeno per un attimo
riuscii a immaginare, per non dire a sperare, se non il peggio.
Mio padre non sapeva. Quando rizzò la schiena, l’uomo era a meno di
un metro da lui e lo nascondeva ai miei occhi. Sentii la voce di mio padre
uscire con un attimo di ritardo: era calma e cordiale.
– Oh, ciao Joe. Allora, Joe. È un pezzo che non ci si vede.
L’uomo non proferì parola, si limitò a fare il giro intorno a mio padre,
scrutandolo bene. – Joe, mi conosci, no? – gli disse mio padre. – Sono Ben
Jordan. Sono venuto a controllare le trappole. Quest’anno il fiume è pieno
di bei topi muschiati, sai, Joe.
L’uomo lanciò un’occhiata diffidente alla trappola che mio padre aveva
ricaricato di esca.
– Perché non ne metti qualcuna anche tu?
Nessuna risposta. L’uomo strinse l’accetta e l’agitò piano nell’aria.
– Mi sa che quest’anno è tardi, però. Il fiume ha già cominciato a scendere.
– Ben Jordan, – sbruffò l’altro con un visibile sforzo, come chi cerchi
di superare una grave balbuzie.
– Pensavo mi avessi riconosciuto, Joe.
– Non sapevo che eri tu, Ben. Mi sono visto uno di quei Silas.
– Beh, te l’ho detto che sono io.
– Vengono sempre a tagliarmi gli alberi e tirarmi giù lo steccato. Lo
sai, no, che mi hanno dato fuoco a tutto, Ben. Sono stati loro.
– Sì, ho sentito, – disse mio padre.
– Non sapevo che eri tu, Ben. Chi andava a immaginarlo. L’accetta,
qui, me la sono portata per mettergli un po’ di paura. Se sapevo che eri tu
non la prendevo. Dài, sali a vedere come mi sono sistemato.
Mio padre mi chiamò. – C’è anche la bambina, è venuta con me, oggi.
– Beh, salite un momento a scaldarvi tutt’e due, no?
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Seguimmo quell’uomo, che intanto dondolava distrattamente l’accetta,
su per la salita e nel bosco. Gli alberi raffreddavano l’aria e a terra c’era
ancora mezzo metro di neve vera, rimasta dall’inverno. Intorno alla base
dei tronchi c’erano invece dei cerchi scuri, strani segni di tepore come
quelli che si fanno col fiato.
Arrivammo su un prato d’erba morta e tagliammo verso un altro, più
ampio, dove si vedeva una protuberanza del terreno. Era un tetto inclinato, a un solo spiovente, dal quale usciva un tubo fumante con un cappuccio in cima. Scendemmo una specie di scala d’accesso a una cantina,
e di questo infatti si trattava: di una cantina col tetto. Mio padre disse: –
Beh, vedo che ti sei sistemato mica male, Joe.
– È calda. Perché è interrata, perciò è calda naturale. Mi sono detto,
che senso ha tirar su un’altra casa; te l’hanno bruciata una volta, te la bruciano due. D’altronde, io cosa me ne faccio di una casa? Qui ho tutto quel
che mi serve, l’ho messa su bene –. Aprì la porta in fondo alle scale. –
Attenti alla testa. Non dico che dovremmo vivere tutti in un buco sottoterra, Ben. Anche se le bestie fanno così e quello che fanno le bestie,
novanta su cento, è sensato. Ma se uno è sposato, allora è diverso –. Scoppiò a ridere. – Io invece non penso di sposarmi.
Non era buio completo. C’erano dei finestrini da vecchia cantina ed
entrava un po’ di luce fuligginosa. L’uomo accese una lampada a petrolio
e l’appoggiò sul tavolo.
– Ecco, almeno potete vedere dove siete.
Era un’unica stanza: pavimento in terra battuta coperto da assi nemmeno inchiodate una sull’altra ma solo posate a formare delle passatoie,
una stufa su una specie di sopralzo, tavolo, divano, sedie, addirittura una
credenza, svariate coperte luride e pesanti di quelle da slitta o da cavallo.
Forse, non fosse stato per il fetore di petrolio, urina, terra e aria viziata,
l’avrei riconosciuto come il tipo di posto dove avrei voluto stare anch’io,
come le casette che mi costruivo sotto i cumuli di neve, d’inverno, con
pezzi di legna da ardere al posto dei mobili, o come quell’altra, che mi ero
fatta tanto tempo prima, sotto la veranda, dove il mio pavimento era quella
strana terra impalpabile che non conosce né sole né pioggia.
Ma ero guardinga mentre dal divano lercio fingevo di non osservare
niente. Mio padre disse: – Ti sei messo su un bel posticino, eh, Joe? – Era
seduto vicino al tavolo, e sopra c’era l’accetta.
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– Dovevi vedere prima che la neve si sciogliesse. Non si vedeva niente,
solo il fumaiolo.
– E a te non capita di soffrire di solitudine, eh?
– Proprio no. Mai sofferto di solitudine, io. E poi ho un gatto, Ben.
Dove sarà? Ah, eccolo lì, dietro la stufa. Forse non gli piacciono le visite –.
Lo andò a prendere: un enorme gattone grigio, dagli occhi cattivi. – Vi faccio vedere cosa sa fare –. Prese un piattino dal tavolo e un barattolo di vetro
dalla credenza e versò qualcosa nel piattino. Poi lo mise davanti al gatto.
– Joe, non mi dirai che quella bestia beve whisky.
– Sta’ a vedere.
Il gatto si alzò stiracchiandosi, si guardò intorno con aria torva e
abbassò la testa per bere.
– Whisky puro, – disse mio padre.
– Scommetto che non avevate mai visto una roba simile. E non vi capiterà tanto facilmente di rivederla. Quel gatto preferisce di gran lunga il
whisky al latte. E quando lo vede, il latte? Deve essersi scordato com’è. Ti
va un sorso, Ben?
– Chissà dove l’hai preso. No, non ho mica lo stomaco del tuo gatto, io.
Il gatto, intanto, avendo finito di bere, si allontanava di sghembo dal
piattino; poi prese la mira, fece un balzo ad artigli sguainati e atterrò malfermo, ma senza cadere. Barcollò, raspò nell’aria un paio di volte miagolando disperato e infine schizzò a nascondersi sotto il divano.
– Joe, se continui così non ce l’avrai più, un gatto.
– Non gli fa male, gli piace. Vediamo un po’ se ho qualcosa per la bambina –. Niente, speravo io, ma lui mi portò una scatola di caramelle di
Natale, di quelle a strisce, che davano l’impressione di essersi sciolte e poi
indurite di nuovo, perché le strisce erano andate tutte insieme. Sapevano
di ferro.
– Sono quei Silas che mi scocciano, Ben. Sono qui giorno e notte. La
gente non è capace di lasciarmi in pace. Di notte li sento passeggiare sul
tetto. Se ti capita di vedere i Silas, Ben, digli pure che cosa ho qui ad aspettarli –. E sollevò l’accetta per poi calarla sul tavolo e tagliare la logora tela
cerata. – Ho anche un fucile da caccia.
– Magari non vengono più a scocciarti, Joe.
L’uomo sbuffò scuotendo la testa. – Quelli non smettono. Macché. Mai
e poi mai.
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– Tu prova a non dargli retta, vedrai che si stancano e se ne vanno.
– Mi danno fuoco mentre dormo, un giorno o l’altro. Ci hanno già provato.
Mio padre non disse niente ma sfiorò col dito la lama dell’ascia. Sotto
il divano intanto, il gatto si lamentava scalciando in spasmi di allucinazione sempre più deboli. Travolta dalla stanchezza, dall’effetto del caldo
dopo il freddo e da uno sbalordimento quasi insopportabile, mi stavo
addormentando a occhi aperti.
Mio padre mi mise giù. – Adesso sei sveglia. Su. Senti. Non posso portare te e il sacco pieno di topi muschiati.
Eravamo in cima a una lunga salita quando mi svegliai. Era quasi buio.
L’intera piana drenata dal Wawanash River si stendeva di fronte a noi: una
macchia verde bruna di arbusti tuttora spogli e di sempreverdi scurissimi
e miseri, a fine inverno, lasciava intravedere campi di stoppie marroni e
altri più neri per l’aratura dell’anno precedente, con scaglie sottili di neve
allineate nei solchi (come il campo che avevamo attraversato ore e ore
prima quel giorno), e le minuscole staccionate e grappoli di fienili grigi e
a parte le case, che apparivano piccole e basse.
– Di chi è quella casa? – chiese mio padre, indicandomela.
Era la nostra, lo seppi dopo un minuto. Avevamo disegnato un semicerchio e ci trovavamo davanti al lato dell’edificio che in inverno nessuno
vedeva mai, la porta d’ingresso che restava chiusa da novembre ad aprile
e ancora adesso era imbottita di stracci per non fare entrare il vento di
levante.
– Manca neanche mezzo miglio in discesa. Ce la fai a camminare fino
a casa. Tra poco vedi la luce in sala da pranzo dove c’è la mamma.
Durante il tragitto chiesi: – Come mai aveva un’ascia?
Ora ascolta, – disse mio padre –. Mi ascolti, o no? Non vuol fare del
male a nessuno con quell’ascia. La porta solo per abitudine. Però a casa
non dire niente. Non raccontare niente né alla mamma né a Mary, a nessuna delle due. Perché possono spaventarsi. Io e te, no, ma loro forse sì.
Ed è inutile.
Dopo un po’ aggiunse: – Che cosa non devi raccontare, allora? – e io:
– Dell’ascia.
– Non ti ha fatto paura, no?
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– No, – dissi fiduciosa. – Chi è che vuole dargli fuoco mentre dorme?
– Nessuno. A meno che non ci riesca da solo, come l’ultima volta.
– Chi sono i Silas?
– Nessuno, – disse mio padre. – Non sono nessuno.
– Oggi abbiamo trovato il marito che fa per te, Mary. Peccato non
potertelo portare a casa.
– Pensavamo foste finiti nel Wawanash, – disse furiosa Mary McQuade,
tirandomi via scarponi e calze bagnate con malagrazia.
– Il vecchio Joe Phippen che sta nella terra di nessuno, dopo il bosco.
– Buono, quello! – esplose Mary. – È quello che si è dato fuoco alla
casa, no?
– Sì, e adesso se la cava bene anche senza. Sta in un buco sottoterra.
Ci staresti comoda come una marmotta, Mary.
– Scommetto che vive nella sua sporcizia, è sicuro –. Servì la cena a
mio padre e lui le raccontò la storia di Joe Phippen, della cantina col tetto,
delle assi posate sul pavimento di terra battuta. Evitò di parlare dell’ascia,
ma non del whisky dato da bere al gatto. Era abbastanza, per Mary.
– Uno che fa una cosa del genere, bisognerebbe rinchiuderlo.
– Può darsi, – disse mio padre. – Comunque io spero che non lo
acchiappino ancora per un po’, il vecchio Joe.
– Mangia, – disse Mary, chinandosi su di me. Per un momento non mi
resi conto che non avevo più paura di lei. – Guarda solo, – disse. – Ha gli
occhi fuori dalle orbite, con quel che ha visto e sentito. Ha dato da bere
anche a lei?
– Nemmeno una goccia, – disse mio padre guardandomi fisso, dall’altra parte del tavolo. Come certi bambini delle fiabe che hanno visto i genitori stringere patti con strane creature terrificanti scoprendo così che le
nostre paure affondano le proprie radici in nient’altro che la verità, ma
poi in modo rocambolesco tornano sani e salvi e sono pronti a impugnare
coltello e forchetta e, sottomessi e beneducati, a vivere per sempre felici e
contenti, come loro, turbata e rinvigorita da quei segreti, non dissi mai
una sola parola.
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