Adair DEF.qxp - Robin Edizioni

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Adair DEF.qxp - Robin Edizioni
Quando mi disse che intenzioni aveva, il mio primo
istinto fu di guardare l’orologio. Lei fraintese questo mio
gesto, che invece era soltanto un riflesso, anche se un riflesso – realizzai all’istante – del tutto inopportuno. La
sorridente provocazione appena stemperata dall’ansia con
cui mi aveva annunciato la novità scomparve repentina dai
suoi lineamenti, sostituita da un broncio di accigliata insoddisfazione. Vidi che era seccata, e allibita, che io avessi scelto proprio il momento cruciale del nostro colloquio,
quello in cui aveva giocato il suo asso nella manica, per
mostrare ciò che presumibilmente interpretò come un atto
di maleducata e irrequieta impazienza. Come avrei potuto
farle capire che quello che avevo cercato sul quadrante
dell’orologio non era l’ora, ma, si dà il caso, il tempo; che
quel che avevo visto, e tutto quel che avevo visto (ammesso che avessi davvero visto qualcosa), erano le lancette dei secondi e dei minuti che eseguivano il loro antichissimo inseguimento lepre-tartaruga intorno al quadrante, la
prima che avanza a ritmo rigorosamente scandito, la seconda che, con scaltra furtività, la distanzia regolarmente
tra una sosta e l’altra? Come poteva sapere che erano diciassette anni che aspettavo che qualcuno mi dicesse ciò
che mi aveva appena detto lei, che aspettavo che si verificassero proprio queste circostanze e che per me era naturale che alla fine fosse arrivato il loro “turno”? E come facevo a dirle che avevo già deciso – probabilmente nel mo-
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mento stesso in cui ebbe finito di illustrarmi il suo progetto, ma comunque deciso – di andare avanti per conto mio?
Quando le cose devono essere dette, devono essere dette.
Alla fine vanno dette.
“Professor Sfax, questo significa” chiese in un tono
che suggeriva come la sua precedente temerarietà avesse
ancora una volta preso il sopravvento, “che le sue riserve...”
“Oh, ma vede, io non ho nessuna riserva” ribattei, sorridendo per la prima volta dalla mia gaffe. “Al contrario,
ha la mia approvazione, per quel che vale.”
Lei non riusciva a capacitarsi di come la situazione paresse incredibilmente cambiata a suo favore.
“Quindi non lo farà, voglio dire, non mi ostacolerà in
alcun modo?”
Le assicurai che le avrei dato tutto l’aiuto che poteva
ragionevolmente aspettarsi da me – ho sempre creduto
nella diplomazia e, se l’occasione lo permette, nella tolleranza – e che avrei persino steso un breve testo preliminare per aiutarla nelle sue ricerche. Ma mi sentii anche in dovere di avvisarla che non c’era molto che potessi fare e,
soprattutto, che era impossibile verificare la maggior parte
delle informazioni relative al primo periodo della mia vita,
visto che la documentazione relativa era andata perduta.
Comunque fosse, era troppo presto per preoccuparsene.
Come era comprensibile, lei aveva preferito parlare con
me prima di rivolgersi a una casa editrice, e, devo ammetterlo – anche se naturalmente mi astenni dal dirglielo –, in
questa fase embrionale avevo la sensazione che il progetto avesse un futuro a dir poco incerto. Accompagnandola
alla porta del mio ufficio posai il mio famoso sguardo indulgente sulla sua faccia ossuta, molto patrizia, molto
“East Coast” e assai attraente, circondata da un intrico di
capelli bruno rossastri simile alle quinte di cartoncino di
un teatro giocattolo.
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“Si rende conto” dissi, sempre col sorriso stampato in faccia, “che non mi prenderà1 mai? Nessuno ci è mai riuscito.”
Adesso fu il suo turno di sorridere, un sorriso a trentadue denti da ragazzina, un sorriso spontaneo, inconsapevole come un rossore sulle guance.
“Sapeva che sono scultrice?” chiese all’improvviso,
come se fosse un’evidenza dei sensi e, in effetti, come diavolo avrei potuto saperlo altrimenti?
“No, davvero?”
“Purtroppo solo roba figurativa. Teste, per lo più. Ma
dicono che i miei lavori siano molto somiglianti ai soggetti. Vorrei catturare la sua testa, se me lo permette.”
Ribattei strategicamente che prima avrebbe dovuto darle
il permesso un editore: “Dove c’è la volontà c’è il modo,”
sussurrai, “o meglio, dove c’è il modo c’è la volontà.”
Lei scoppiò a ridere. Poi, con una stretta di mano, ci
salutammo.
Tornai alla mia scrivania per ripensare a questa insolita scenetta. Guardai di nuovo l’orologio, ma stavolta solo
per vedere l’ora. Era arrivata alle cinque e adesso erano
le cinque e mezzo. Quindi c’era voluta solamente mezz’ora per trarre il dado. Ed era stata una scultrice a trarlo.
Una scultrice? Chissà se tocca a tutti avere almeno una
scultrice nella propria vita. Astrid! Il nome stesso esprimeva la “creatività” in tutto il suo struggente orrore. No,
non potevo affidarle la mia testa. Mi assicurai di non
avere altri appuntamenti per il pomeriggio e, soddisfatto
di avere il resto della giornata a disposizione per fare
quello che volevo, accesi il mio Mac. Aprii un nuovo documento, cui diedi la password Hermes, e per cinque o sei
minuti buoni rimasi lì seduto a fissare lo schermo, la pa1 NELL’ORIGINALE “YOU’LL NEVER GET ME”. L’AUTORE GIOCA CON LA DOPPIA
VALENZA SEMANTICA DEL VERBO “GET”: “CATTURARE”, “COMPRENDERE”.
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gina bianca e vuota, finché a un certo punto iniziai a battere sui tasti (sono uno di quelli che usano solo due dita,
l’indice sinistro che si limita al ruolo di assistente di quello destro, intervenendo, come la metà meno agile di una
coppia di tennisti, per aggiungere di tanto in tanto qualche
virgola o apostrofo) le tre pagine che avete appena letto.
Sono nato, figlio unico, nel 1918, poche settimane dopo il cessate il fuoco, in una famiglia ricca, ben inserita e
molto unita, con una casa di proprietà a Parigi nel Marais
e una piccola proprietà nella valle di Chevreuse, dove il
vicino di casa, caro amico di mio padre, era niente meno
che Ravel. La mia infanzia fu felice e infelice, normale e
anormale, in apparenza priva di accadimenti particolari,
col senno di poi più o meno imperscrutabile, un’infanzia
borghese nella Parigi degli anni Venti. Mio padre era editore di libri d’arte e suo padre, da cui ho preso il nome,
un poeta minore, e saltuario librettista di Massenet, ormai
– grazie al cielo – dimenticato.
Fu al funerale di mio nonno che ebbi il primo vero,
grande trauma. Era il 1931, non avevo neanche tredici
anni, ed ero tutto fiero di avere avuto il permesso di aiutare a portare la bara. La cerimonia si teneva nel minuscolo
villaggio con cui confinava la nostra casa di Chevreuse, e
quella mattina di primavera, sotto un cielo grigio, il cimitero quadrato e cinto da mura mi ricordò una di quelle radure convenzionalmente nebbiose in cui, nei romanzi d’amore del periodo imperiale, gli Ussari si affrontano in
duello alle prime luci dell’alba. Durante il servizio funebre non versai neppure una lacrima, ma quando la bara
venne scoperta per essere seppellita e io vidi, inciso su una
placca fissata sul coperchio, il nome “Léopold Sfax”, il
nome di mio nonno, ma anche (anzi soprattutto, secondo la
mia ancora vagamente solipsistica visione del mondo) il
mio, feci una figuraccia facendomi prendere da un attacco
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di urla convulse, tanto che dovettero farmi portare via dalla
mia tata alsaziana, la quale mi fece sedere sul carro funebre in movimento, mi rifilò un sonoro schiaffone e poi mi
cullò – un ragazzino di quasi tredici anni – nel suo grembo.
Fu solo molto tempo dopo che seppi, con mia grande sorpresa – non mi ero infatti reso conto di ciò che avrebbe dovuto essere palese perfino a un adolescente reticente e amante dei libri come me – che, sebbene non si potesse dire che
non si parlassero, mio padre e mio nonno avevano vissuto
nell’ostilità pressoché tutta la vita. Il dissidio era dovuto in
larga parte a differenze in fatto di gusto estetico. Mio nonno
era stato l’ultimo dei parnassiani2, come altezzosamente si
facevano chiamare i membri di questa particolare “scuola”, e
i suoi componimenti, scritti sotto il già avvizzito influsso di
Théophile Gautier3, erano caratterizzati da un freddo e glauco classicismo, il tipo di poesia arida e studiata a tavolino che
un critico dallo spirito cavalleresco potrebbe definire “ben
cesellata”. Ed era sia per rispetto dei principi parnassiani sia
per inclinazione personale che mio nonno, a intervalli più o
meno regolari, si infuriava di fronte al milieu inflessibilmente modernista in cui si muoveva il mio ammaliato padre, storcendo il naso di fronte alle danzatrici russe e ai musicisti
“negri” che lui, mio padre, annoverava tra le sue conoscenze.
2 IL PARNASSIANESIMO È UN MOVIMENTO POETICO APPARSO IN FRANCIA NELLA SECONDA METÀ DEL XIX SECOLO. IL SUO SCOPO ERA RIPORTARE LA POESIA AL PARNASO,
IL MONTE SACRO AL DIO APOLLO, DAL QUALE LAMARTINE L’AVEVA FATTA CADERE. È
UNA REAZIONE ALL’ECCESSO SENTIMENTALE DEL ROMANTICISMO E VI È INOLTRE UN RIFIUTO CATEGORICO DELL’IDEA CHE L’ARTE DEBBA ESSERE IMPEGNATA DAL PUNTO DI
VISTA SOCIALE E POLITICO: PER I PARNASSIANI IL SOLO SCOPO DELL’ARTE È LA BELLEZZA, COME INDICAVA LA TEORIA DE “L’ART POUR L’ART” DI THÉOPHILE
GAUTIER.
3 PIERRE JULES THÉOPHILE GAUTIER (1811-1872), SCRITTORE, POETA, GIORNALISTA E CRITICO LETTERARIO FRANCESE, DALLA CUI OPERA TRASSERO ISPIRAZIONE
MOLTI MOVIMENTI LETTERARI SUCCESSIVI COME IL PARNASSIANESIMO, IL SIMBOLISMO, IL DECADENTISMO E IL MODERNISMO. IL SUO MAGGIOR SUCCESSO IN PROSA FU
CAPITAN FRACASSA (1863).
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Ma c’era anche stata una causa di carattere politico,
che risaliva, per quel che riguardava il coinvolgimento di
mio nonno, agli ultimi anni dell’Ottocento. Secondo quella che era stata la regola della sua antiquata cricca ormai
in disgrazia, era stato un indefesso anti-Dreyfus 4, e la naturale, graduale, e per così dire chimica trasformazione del
suo odio per gli ebrei in un semplice pregiudizio da salotto – un processo che, a tempo debito, sarebbe sicuramente avvenuto – fu impedita per sempre dal fatto che Zola in
persona, riportando in auge il suo nome solo per ucciderne la reputazione, aveva attaccato la sua posizione in un
articolo di indimenticabile – e, per mio nonno, a lungo indimenticata – briosa crudeltà. Non era dunque tanto un
anti-semita (in una delle sue lettere scrisse che, per pura
solidarietà umana, avrebbe persino potuto prendere le difese dello sfortunato capitano, “se ne fosse valsa la pena”)
quanto piuttosto un anti-cosmopolita, che resisteva con
tutte le sue forze contro chiunque e qualsiasi cosa minacciasse di contaminare i valori del buon suolo francese.
Mio padre, per il quale il termine “cosmopolita” aveva più
a che fare con l’estetica che con le questioni identitarie, da
vero signore, lì per lì rifiutò di assecondare mio nonno,
sebbene fosse molto meno idealista e intransigente quando parlava dei suoi contatti con i banchieri e i finanziatori,
nel mondo delle mazzette e delle ricompense sottobanco,
e di tanto in tanto, ogni volta che gliene saltava il ticchio,
non disdegnasse di rifugiarsi con disinvoltura nel depre4 CLAMOROSO CASO POLITICO E GIUDIZIARIO SCOPPIATO NELLA FRANCIA DELLA
TERZA REPUBBLICA INTORNO ALLA FIGURA DI ALBERT DREYFUS (1859-1935), UFFICIALE DELL’ESERCITO DI ORIGINE EBRAICA ACCUSATO DI TRADIMENTO PER UN’AZIONE
DI SPIONAGGIO A FAVORE DELLA PRUSSIA E CONDANNATO ALL’ERGASTOLO NEL 1894.
SULLA SUA COLPEVOLEZZA L’OPINIONE PUBBLICA FRANCESE SI SPACCÒ IN DUE: I DREYFUSARDS (INTELLETTUALI, SOCIALISTI, RADICALI E REPUBBLICANI ANTIMILITARISTI) E
GLI ANTI-DREYFUSARDS (LA DESTRA NAZIONALISTA, ANTISEMITA E CLERICALE).
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cabile e disgustoso eufemismo “israelita”. Fu così che gli
Sfax diventarono un’unità statistica: la nostra era una delle
migliaia di famiglia divise dal caso Dreyfus.
Negli anni Trenta la questione ebraica non poteva più
essere lasciata alla coscienza personale. Frequentavo il
primo anno di filosofia all’École Normale Supérieure e,
sotto l’influenza di mio padre, cominciai a pubblicare degli
articoletti su Le Libre Arbitre, un mensile politico con
scarsa diffusione e scarsa influenza attraverso il quale facevo del mio meglio per mettere in guardia i miei paralizzati e sconfortati compatrioti dalla minaccia che incombeva oltre le nostre frontiere orientali.
Questi articoli, non più di una decina, sono probabilmente andati perduti per sempre. Di essi ricordo solamente qualcosa qua e là, e più l’impostazione generale che non
certe intuizioni personali, un corredo piuttosto comune di
temi e termini che erano familiari a ogni studente di scienze politiche del periodo. Mi ricordo, ad esempio, che criticai aspramente la civiltà occidentale per la sua codardia
morale e la decadenza di fronte all’orda di “barbari” che
sbavavano alle sue porte. Enfatizzai l’importanza di una
“vittoria delle democrazie” quale primo necessario passo
verso il ripristino di un ordine sociale e politico il cui pensiero non ci riempisse più di vergogna o rabbia. Sostenni
il bisogno urgente di un sistema di obblighi e doveri a cui
chiunque da quel momento in poi avrebbe dovuto adeguare il proprio talento. E via discorrendo. Erano articoli crudamente programmatici, o quanto meno laconicamente
polemici, ma scritti con genuino ardore – le idee mi arrivavano così veloci che per poter dar loro una forma dovevo “spegnere l’interruttore” – e in più, cosa non da poco
per un ragazzo di quell’età, possedevano la virtù di appartenere al proprio tempo.
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