Untitled - Rizzoli Libri

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Cecelia Ahern
Da quando
ti ho incontrato
Traduzione di Martina Rinaldi
Proprietà letteraria riservata
© 2014 Cecelia Ahern
© 2016 RCS Libri S.p.A, Milano
ISBN 978-88-17-08587-8
Titolo originale dell’opera:
THE YEAR I MET YOU
Prima edizione: febbraio 2016
Questo romanzo è il prodotto dell’immaginazione dell’Autore. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono fittizi. Ogni riferimento a fatti o a persone
reali, viventi o scomparse, è puramente casuale.
Realizzazione editoriale: Librofficina, Roma
Da quando ti ho incontrato
Alla mia amica Lucy Stack.
E proprio quando credeva che il mondo fosse finito,
il bruco diventò farfalla…
La gloria più grande non sta nel non sbagliare mai,
ma nel risollevarsi dopo ogni caduta.
CONFUCIO
Inverno
La stagione tra lÕautunno e la primavera,
che nellÕemisfero boreale comprende i mesi pi• freddi
dellÕanno: dicembre, gennaio e febbraio.
Un periodo di inattivitˆ o di declino.
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Avevo cinque anni quando scoprii che sarei morta.
Non mi era mai venuto in mente che non sarei vissuta per sempre; e perché avrebbe dovuto? L’argomento
della mia morte non era mai stato neanche lontanamente
sfiorato.
Della morte ne sapevo abbastanza: morivano i pesci
rossi, l’avevo imparato sulla mia pelle. Succedeva se non
li facevi mangiare, e se li facevi mangiare troppo. Morivano i cani se andavano a finire sotto una macchina, i topi
se si lasciavano tentare dai biscotti all’avena ricoperti di
cioccolato che mettevamo sulla trappola sistemata nel
guardaroba sotto le scale, i conigli quando scappavano
dalle gabbie e diventavano facili prede delle volpi cattive.
La loro morte non mi aveva mai preoccupata a livello
personale; anche se avevo cinque anni, sapevo che quelli
erano animali, creature pelose che facevano cose stupide
che io non avevo certo intenzione di fare.
Perciò, scoprire che la morte avrebbe trovato anche
me mi sconvolse.
Stando alla mia fonte, se ero «fortunata» sarei morta come il nonno. Che era morto vecchio. Puzzando di
fumo di pipa e scoregge, con palline di kleenex appiccicate ai baffetti sopra il labbro a furia di soffiarsi il naso.
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Con righe di sporcizia sotto le unghie per via del giardinaggio, e gli occhi un po’ ingialliti agli angoli, che mi
ricordavano tanto le biglie che collezionava lo zio e che
mia sorella una volta ingoiò per sbaglio, spaventando
mio padre che era corso da lei, le aveva stretto le braccia
attorno alla pancia e aveva premuto forte finché la biglia
non era schizzata fuori. Vecchio. Con i pantaloni marroni tirati su ben oltre la vita – diciamo fino al petto, dove
sembrava avesse due tettine molli – che rivelavano una
panciona flaccida e due palle strizzate tutte da un lato
della cucitura. Vecchio. No, io non volevo per niente morire come il nonno, ma la mia fonte insisteva a dire che
morire vecchi era l’opzione migliore.
Seppi della mia morte incombente da mio cugino più
grande, Kevin, il giorno del funerale del nonno, mentre
eravamo seduti sull’erba in fondo al suo grande giardino
con in mano dei bicchieri di plastica pieni di limonata
rossa, il più possibile lontani dai nostri parenti in lutto,
che sembravano scarabei stercorari in quello che aveva
tutta l’aria di essere il giorno più caldo dell’anno. Il prato
era pieno di fiori di tarassaco e margherite e l’erba era
più alta del solito. La malattia aveva impedito al nonno di
occuparsi del giardino, nelle ultime settimane. Ricordo
che mi sentivo triste per lui, dispiaciuta che l’occasione
di sfoggiare il suo magnifico giardino con amici e vicini
fosse capitata in un giorno in cui non era proprio tutto
perfetto come invece avrebbe voluto lui. Non gli sarebbe
importato di non esserci – non amava molto parlare – ma
di sicuro gli sarebbe piaciuto occuparsi della grande presentazione, per poi sparire nel nulla ad ascoltare di soppiatto i complimenti, nascondendosi magari al piano di
sopra, con la finestra aperta. Con un sorriso soddisfatto,
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i pantaloni macchiati di verde e le unghie sporche, avrebbe fatto finta che non gliene importasse, quando in realtà
gliene importava eccome. Qualcuno, un’anziana signora
che teneva un rosario stretto tra le dita, disse che sentiva
la sua presenza in giardino, ma io non la sentivo. Ero
sicura che non fosse lì. Gli avrebbe dato troppo fastidio
vedere quel posto ridotto così, non l’avrebbe sopportato.
La nonna sottolineava i momenti di silenzio con frasi
tipo «I suoi girasoli sono uno splendore, che Dio accolga
la sua anima» o «Non vedrà fiorire le petunie». Al che il
mio cinico cugino mormorò: «Già, il suo corpo morto è
diventato concime adesso».
A tutti scappò una risata; ridevano sempre tutti quando Kevin diceva qualcosa, perché Kevin era fico, perché
Kevin era il più grande, aveva cinque anni più di me e
alla venerabile età di dieci anni poteva permettersi di
dire cose crudeli, che noi non avremmo neanche osato
pensare. Anche se non faceva ridere, sapevamo di dover
ridere, perché altrimenti saremmo diventati il bersaglio
successivo delle sue cattiverie, cosa che capitò a me proprio quel giorno. In quella particolare circostanza, non
mi faceva ridere l’idea che il corpo morto del nonno, sotto terra, favorisse la crescita delle petunie, ma nemmeno
la trovavo crudele. Ci vedevo della bellezza. Una specie
di amabile pienezza, di giustizia. Era esattamente quello
che avrebbe desiderato il nonno, ora che le sue dita a salsicciotto non potevano più occuparsi del suo splendido
giardino allungato, il centro del suo mondo.
Mi chiamo Jasmine perché mio nonno amava il giardinaggio. Quando nacqui, andò a trovare mia madre in
ospedale e le portò un mazzetto di gelsomini presi dal
graticcio di legno dipinto di rosso che aveva costruito da
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