L`ULTIMA VENDEMMIA - Premio Letterario Santa Margherita

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L`ULTIMA VENDEMMIA - Premio Letterario Santa Margherita
L’ULTIMA VENDEMMIA
“Quante volte vi devo dire che il vostro vino non lo voglio bere!”
Quelle parole mi sfuggirono di bocca. Non feci in tempo a pensarle, che le avevo già dette. Me ne
resi conto non appena vidi le espressioni di dolorosa sorpresa sui volti di mio padre e di mio nonno.
Dopo quell’infelice risposta non tentarono più d’indurmi ad assaggiare il vino della nostra terra.
Negli anni si susseguirono pranzi e cene di Natale, feste di compleanno, anniversari e pranzi della
domenica in cui la nostra numerosa famiglia si riuniva. Ma quella bottiglia di rosso, riempita pochi
minuti prima dalla damigiana in cantina non fu più avvicinata al mio posto. Il motivo di
quell’avversione non fu mai chiaro neanche a me. Forse sarà stato perché consideravo il lavoro
della campagna come una limitazione della mia libertà, chissà. Ricordo che una volta, proprio in
quel periodo, conobbi una ragazza di nome Valeria. Bellissima; tutti i ragazzi del paese le morivano
dietro. Quando mi guardò negli occhi, capii che per lei non ero uno dei tanti. E quando mi chiese di
accompagnarla al cinema il sabato successivo, ero al settimo cielo.
La stessa sera, a casa, si fece strada in me una dolorosa consapevolezza: quel sabato era giorno di
vendemmia. A quei tempi, al paese c’era un solo cinema, e l’unico spettacolo era alle tre del
pomeriggio. Provai a chiedere a mio padre di dispensarmi dal lavoro per quella volta. Niente da
fare: serviva anche la forza delle mie braccia per girare il torchio.
Al cinema fui sostituito da Paolo, uno dei belli della scuola; così Valeria, per colpa del vino rimase
un sogno durato un giorno.
In seguito gli studi e il lavoro mi portarono lontano dalla mia terra. Andai ad abitare in città,
recandomi solo sporadicamente a trovare mio padre, che, morto il nonno, mandava avanti l’azienda
con l’aiuto dei miei zii e cugini. Poco prima delle feste di Natale ricevetti la telefonata con la quale
m’invitava per il pranzo del venticinque dicembre. Da qualche anno declinavo l’invito, preferendo
passare le vacanze sulla neve con gli amici. Ma l’ultima volta che ero andato a trovarlo l’avevo
visto stanco e invecchiato. Decisi di non negargli il piacere della mia compagnia e dissi che sarei
andato.
Quando entrai nella sala da pranzo erano già tutti a tavola. Mio padre mi fece sedere accanto a lui e
le zie cominciarono a portare i piatti. Per prime fettuccine al ragù, come da tradizione. Avevo
dimenticato quei sapori, e gustai ogni singola forchettata. Mio padre ogni tanto mi guardava. In
mezzo a noi, stavolta, c’era anche una bottiglia di rosso della nostra cantina. Quando fu il momento
dell’arrosto, la prese e riempì il mio bicchiere con quel liquido sanguigno. Non si fece intimidire
dallo sguardo contrariato con cui lo fulminai e disse con la voce rotta dall’emozione:
“Assaggialo almeno stavolta. E’ stata la nostra ultima vendemmia. Dobbiamo vendere, troppe
spese. Prova! Una forchettata di arrosto e un sorso di vino. Senti come si sposano bene.”
Trafitto da quelle parole, feci come aveva detto. Assaggiai un pezzetto di arrosto e presi il
bicchiere, girandolo ripetutamente nella mano prima di guardare il vino in controluce e aspirare il
suo profumo, intenso e inebriante. In quel bicchiere c’era tutta la fatica di mio padre, di mio nonno,
il loro sudore. In quei riflessi rosso rubino vidi, come in un magico specchio, uomini con i cesti in
spalla, mentre bagliori di luce filtravano tra i pampini purpurei; vidi cassette di legno ricolme d’uva
matura, udii le grida dei vignaiuoli, respirai il profumo del mosto ribollente nelle botti, e mio padre
che diceva:
“E’ l’ultima vendemmia.”
Portai il bicchiere alle labbra e mentre quel vermiglio nettare scendeva nella gola scaldando e
inebriando i miei sensi con un retrogusto di fragole e more, mi resi conto di ciò che avevo perso in
quegli anni. Con le lacrime agli occhi abbracciai quel vecchio stanco e deluso e gli sussurrai:
“Non è stata l’ultima. Da oggi ci sono anch’io.”