Baldini, Eraldo (1952 - ) L`uomo nero e la bicicletta blu, Torino

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Baldini, Eraldo (1952 - ) L`uomo nero e la bicicletta blu, Torino
Baldini, Eraldo (1952 - )
L’uomo nero e la bicicletta blu, Torino, Einaudi, 2011
[18] […]
Insomma, in tutta la faccenda io sarei stato solo il braccio: la mente era il vecchio Carlino, che da
un bel po’ mi illustrava a parole la mappa di tutti i campi del paese dove c’erano i cocomeri
migliori. Lui ne andava matto, ma diceva che al negozio costavano troppo, e non era più capace di
andarsene a rubare uno da solo.
[73-76] […]
- No, non esiste! E le bandiere? L’avete mai vista la bandiera di una nazione marrone e celeste? Eh?
Al che mia madre si superò, perché cercando di placarmi la sparò grossa: - Sì, - disse, - c’è uno
Stato che ce l’ha proprio così.
- Quale? – gridai.
- Il nome non me lo ricordo, so solo che è… è molto lontano. Confina con l’Australia.
L’aveva fatta fuori dal vaso. A me la geografia piaceva e a volte me ne stavo ore a guardare le
cartine disegnate sul mio sussidiario, per cui potei sbugiardarla pubblicamente: - Hahaha!
L’Australia è un’isola, quindi non confina con niente!
Ci fu un attimo di silenzio, poi la solita storia: mio padre intervenne per dare una mano contro di
me. – Anche la Sicilia è un’isola, - disse, - eppure confina con l’Italia.
- La Sicilia è Italia! – lo corressi. Mio padre non aveva finito neppure le scuole elementari, e tra
l’altro mi aveva raccontato che invece di frequentare le lezioni andava a pescare nel fiume o a
zonzo nei campi.
Inaspettatamente mi si mise contro anche il nonno. – La Sicilia è Italia ‘sto par di coglioni, borbottò. – In trincea con me c’erano dei siciliani e non parlavano italiano proprio per niente.
- Neanche tu parli italiano, - gli feci notare. In effetti usava sempre il dialetto, perché conosceva
bene solo quello. Poi rincarai: - E in più, se i siciliani erano in guerra con te, dalla tua parte, vorrà
dire che erano italiani, no?
Scosse la testa come a commiserare la mia ignoranza. – Negli ultimi mesi con noi e dalla nostra
parte c’erano pure gli americani, se è per questo. Sono italiani, gli americani?
Io risi ma mio padre guardò in alto, si grattò il mento e sentenziò: - Be’, direi di sì. La maggior parte
sono italiani.
La convesazione stava diventando decisamente surreale, come molte di quelle che si svolgevano in
casa mia.
- Ma cosa stai inventando? – gli chiesi.
Lui sbuffò con aria di sufficienza. – Lo sai tu chi era Rodolfo Valentino?
- No.
- Era un attore americano, che però era italiano, come pure Frank Sinatra e Dean Martin. L’hanno
fondata loro Hollywood, cosa credi? E Fiorello La Guardia, lo sai chi era?
- No, - risposi, - e secondo me non lo sai neanche tu.
- Certo che lo so, io: era il sindaco di Nuova York. E Joe Di Maggio?
- Non può esistere uno che si chiama così!
All’improvviso mio padre fece la faccia mesta, si versò un bicchiere di vino, lo bevve d’un fiato e
sospirò. – Esiste, eccome: è un giocatore di baseball che è stato sposato con la povera Marilyn.
[…]
Il nonno ruppe il minuto di raccoglimento dicendo: - Vabbe’, io non lo so se gli americani e i
siciliani sono italiani. Di sicuro, però, non lo sono i ferraresi.
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Mi ci volle un po’ per riavermi. – Cosa?
- I ferraresi, - ribadì.
Saltò fuori che un tizio di Ferrara, molti anni prima, aveva comprato due vitelli dal nonno al
mercato di Forlì e poi non glieli aveva pagati. Per questo secondo lui i ferraresi non erano italiani.
Ne avevo abbastanza, mi stavo stufando e confondendo.
[…]
La notte sognai che ero a scuola , e la maestra appendava alla parete una carta geografica dell’Italia
dicendoci che quella che c’era prima era sbagliata. Nella nuova al posto di Ferrara e dintorni
compariva una macchia bianca.
- Ferrara non è Italia, - diceva l’insegnante. – Qualcuno di voi sa il perché di questa stranezza?
Volevo rispondere ma Allegra mi precedette, che lei sapeva sempre tutto ed era sveltissima ad
alzare la mano.
- E’ per via che un signore di quella città una volta non pagò due vitelli che aveva comprato al
mercato di Forlì, - rispose smagliante.
La maestra la lodò e disse che quella bambina doveva essere un esempio per tutti noi, somari e
sfaticati che non ci applicavamo affatto.
Io alzai la mano a mia volta, eccitato, per spiegare che era mio nonno il commerciante a cui non
erano stati pagati i vitelli, e che dunque la mia famiglia aveva avuto un ruolo importante nel
determinare i confini della nostra nazione, ma la campanella suonò e tutti corsero fuori dall’aula
come se fosse scoppiato un incendio.
[121] […]
Si cominciava a parlare di guerra in Vietnam, a cui pareva che gli Stati Uniti volessero partecipare,
forse perché era andata a monte quella di Cuba e si ritrovavano con le mani in mano, e di certo,
spiegai a quel piccolo deficiente, una volta finito l’anno scolastico avrei fatto le valigie, mi sarei
messo in divisa e sarei corso laggiù.
A dire la verità, fino a qualche settimana prima non avevo la più pallida idea di dove fosse, il
Vietnam; lo avevo dovuto cercare sulle cartine del mio libro di scuola e mi ero accorto che stava in
capo al mondo, in un posto che per gli americani doveva essere molto più scomodo di Cuba per
andarci a combattere. Chissà perché poi non si limitavano ad attaccare il Canada, che era confinante
e ci sarebbe voluto uno sforzo minimo per mandare qualche stormo di bombardieri e un po’ di
marine.
[140-141] […]
Insomma, in storia ero a posto. Sulla geografia mi sentivo meno tranquillo: tra regioni, Stati, catene
di montagne, fiumi, laghi, mari, capitali e altro c’erano centinaia e centinaia di nomi da ricordare. A
me, essendo curioso per natura, piaceva guardare l’atlante e sapere dell’esistenza di luoghi mai
sentiti nominare prima, però erano davvero troppi.
Se mi avessero lasciato scegliere l’argomento avrei potuto parlare di San Marino, l’unica nazione
straniera in cui ero stato. Quali sono le caratteristiche di questa piccola repubblica? Mi avrebbero
chiesto. E io, a colpo sicuro, le avrei elencate per esperienza diretta: sta quasi tutta sul Titano, avrei
detto, un monte che quando non c’è la nebbia si vede anche da qui; infatti basta affacciarsi alla
finestra del piano di sopra o andare sull’argine del fiume, ed ecco che compare l’azzurra vision di
San Marino, come scrive Giovanni Pascoli in una poesia, quella in cui parla anche di rane e di
tacchini (e avrei fatto la mia bella figura e accresciuto il voto di italiano). Solo che a guardarlo da
qui pare un triangolo rettangolo (ed ecco che sarebbe cresciuto il voto in geometria), invece quando
ci arrivi ti accorgi che non è triangolare per niente, anzi, è fatto in un modo che non si capisce.
Inoltre San Marino è una nazione tutta in salita e piena di curve. La lingua ufficiale è un dialetto
quasi uguale al nostro.
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Sei sicuro? avrebbe insistito chi mi interrogava. Certo, avrei risposto, perché quando ci siamo
andati, qualche anno fa, ha cominciato a bollire l’acqua nel radiatore della Seicento, tanto la strada
era ripida, e le curve sono così tante che mio fratello ha vomitato che non la finiva più e ha
trasformato l’automobile in un porcile. Non sbaglio neppure sulla lingua perché a un certo punto è
arrivato un vigile, dato che la nostra macchina ferma bloccava la via (e quindi tutto lo Stato, che è
piccolo), e ha gridato a mio padre: Cavìv d’int ‘e mez!, Toglietevi di mezzo! Proprio come avrebbe
detto un vigile delle nostre parti, e c’è mancato poco che il babbo e quel tizio in divisa si
picchiassero.
E se invece di una cosa facile come San Marino mi avessero chiesto, che ne so, dove sono gli Urali
e a cosa servono? O i fiumi della Puglia?
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