la rilevanza delle influenze culturali prof . barbara de canale

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la rilevanza delle influenze culturali prof . barbara de canale
“LA RILEVANZA DELLE INFLUENZE
CULTURALI”
PROF. BARBARA DE CANALE
Università Telematica Pegaso
La rilevanza delle influenze culturali
Indice
1
APPARTENENZA CULTURALE E ALLEVAMENTO DEL BAMBINO ---------------------------------------- 3
2
MATERNAGE E PROSSIMITÀ FISICA --------------------------------------------------------------------------------- 5
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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La rilevanza delle influenze culturali
Appartenenza culturale e allevamento del
bambino
Nella trattazione che precede, sono state ripercorse quelle correnti teoriche che hanno
sottolineato l’importanza dell’appartenenza culturale nel plasmare e modellare la personalità e le
caratteristiche cognitive, emotive e comportamentali del bambino.
Ciascun individuo nasce immerso in un bagno culturale di cui resta impregnato ed è egli stesso un
prodotto della cultura in ragione delle concezioni che il suo contesto di vita possiede e tramanda in
merito alla sua nascita, al suo sviluppo, alla sua educazione.
Lungi dall’essere spettatore passivo di realtà determinate o determinanti, il bambino partecipa
attivamente alla sua cultura e contribuisce ai processi di revisione, modifica e cambiamento in
risposta alle necessità dell’ambiente o dell’individuo.
“L’accesso al patrimonio culturale del gruppo di riferimento consente alla persona di acquisire e di far proprio un
linguaggio, uno stile di vita, un costume, una tradizione (che spieghi e motivi le scelte personali), una storia, un
sistema di riferimenti, un’appartenenza, un insieme di forme assuntive, un quadro valoriale e comunque un
contesto nel quale situarsi e dare radici alla propria identità. D’altro canto, se è vero che la cultura costituisce il
tramite attraverso il quale ciascuno diventa parte attiva del gruppo, è anche vero che la cultura di un gruppo
sociale attende di trovare in ciascuna persona un protagonista attivo, capace di fornire un qualche contributo a
sostegno del patrimonio culturale di tutti. […] Mentre ricapitola la storia del suo gruppo, la persona annoda i fili
della propria immagine, situandola nel tempo, contestualizzandola in un ben preciso universo simbolico e
culturale, definendola nel suo stile”1.
La relazione persona-contesto è dunque caratterizzata da dimensioni di interdipendenza e
reciprocità.
Dal pensiero degli autori analizzati, emerge parallelamente come l’azione della cultura sullo
sviluppo del bambino si eserciti soprattutto attraverso le modalità di allevamento e di cura dei suoi
genitori. Ciascuna cultura, infatti, promuove modalità parentali differenti atte allo sviluppo in uno
specifico contesto.
A tal proposito, M. H. Bornstein ha evidenziato che gli scambi interattivi tra madre e bambino
possono essere classificati distinguendo tra sei categorie di modalità comportamentali messe in atto
nella interazione:
1
Cfr. N. PAPARELLA, Quale mediazione didattica per educare alla “diversità”, in A. AGAZZI (a cura di), La scuola
nella società multietnica, La Scuola, Brescia 1994.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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- modalità “nurturant”: soddisfa le richieste biologiche e fisiche del bambino, come pure quelle
connesse al suo stato di salute;
- modalità fisica: è volta a promuovere lo sviluppo della motricità grossolana e fine;
- modalità sociale: comprende l’insieme dei comportamenti visivi, verbali ed emotivi che il
genitore assume quando interagisce affettuosamente con il suo bambino;
- modalità didattica: include l’insieme delle strategie impiegate dal genitore per stimolare il
bambino ad esplorare e a comprendere l’ambiente e ad agire su di esso;
- modalità materiale: comprende i comportamenti volti ad organizzare il mondo fisico che
circonda il bambino;
- modalità linguistica: attraversa tutte le altre categorie ed include i modi con cui il genitore
intraprende e conduce gli scambi verbali con il suo bambino2.
Tali categorie, pur essendo universali, vengono messe in atto in modi differenti e ricevono
differente enfasi nelle varie culture, sia dal punto di vista quantitativo (frequenza e durata), sia dal
punto di vista qualitativo (interazione e significato).
Le modalità di parenting sono modellate da consuetudini culturali le quali agiscono in maniera tale
da creare una relativa uniformità nelle cure parentali3. Queste forze unificanti operano attraverso le
“etnoteorie” ossia sistemi di credenze che influenzano in modo omogeneizzante i genitori
all’interno di una data cultura e dettano quelli che sono i modelli di allevamento auspicabili: quando
e come, ad esempio, prendersi cura del proprio bambino, quali sue caratteristiche siano da
desiderare e quali da evitare, ecc.4. Le differenze culturali in relazione alle modalità di parenting
esercitano un’influenza significativa sullo sviluppo cognitivo, linguistico, emotivo e sociale del
bambino.
Guardare allo sviluppo infantile attraverso le lenti della cultura consente sia di spiegare le
possibili differenze in relazione a costrutti, strutture, funzioni, processi psicologici, sia di
interpretare il significato di un’attività all’interno di un contesto: una medesima attività può avere
diversi significati in culture differenti, come pure attività differenti possono assumere lo stesso
significato in diversi contesti culturali.
2
Cfr. M. H. BORNSTEIN, Parenting e sviluppo infantile, in C. PODERICO, P. VENUTI, R. MARCONE (a cura di), Diverse
culture, bambini diversi? Modalità di parenting e studi cross-culturali a confronto, Unicopli, Milano 2003.
3
Cfr. C. PODERICO, P. VENUTI, R. MARCONE (a cura di), Diverse culture, bambini diversi? Modalità di parenting e studi
cross-culturali a confronto, op. cit.
4
Cfr. S. HARKNESS, C. M. SUPER, Parental Ethnotheories in Action, in I. E. SIGEL, A. V. MCGILLICUDDY-DELISI, J. J.
GOODNOW (eds.), Parental Beliefs Systems. The Psychological Consequences for Children, Erlbaum, Hillsdale 1992,
pp. 373-392; ID., Parent’s Cultural Beliefs Systems, Guilford Press, New York 1996.
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Maternage e prossimità fisica
Prendendo in considerazione le modalità degli scambi interattivi tra madre e bambino e le
routine quotidiane in cui i due partners della relazione sono impegnati, è stata avanzata una
distinzione tra culture ad “alto contatto”5 o “contatto prossimale”6 e culture a “basso contatto”7 o
“contatto distale”8.
Le culture ad alto contatto hanno caratterizzato gran parte della storia dell’umanità prima
dell’avvento dell’industrializzazione; la loro peculiarità è un forte, intenso e duraturo contatto fisico
tra il corpo della madre ed il corpo del bambino che ha inizio sin dalla nascita. L’obiettivo
principale delle modalità di allevamento e degli scambi interattivi è la sopravvivenza del neonato e
la protezione della sua salute. Madre e bambino, per almeno i primi due anni di vita di quest’ultimo,
sono considerati come un’unità, una simbiosi, il cui fine è avvolgere il neonato nell’aurea materna e
proteggerlo dalle difficoltà e dagli stimoli esterni. In queste culture, il parto, di norma, ha luogo
all’interno delle mura domestiche ed il bambino è da subito messo a contatto con il corpo della
madre; ha inizio così un intenso rapporto simbiotico caratterizzato dalla costante prossimità fisica
tra madre e figlio, non interrotta neppure durante le attività lavorative o della vita quotidiana né
nelle ore notturne. È diffusa, infatti, in queste culture, la pratica del baby-carrying (portare il
bambino) o baby-wearing (indossare il bambino): le madri, durante l’intera giornata e nel mentre
svolgono le loro mansioni quotidiane, recano i loro piccoli, avvolti in un panno, sulla schiena o su
un fianco9. Questo panno ha, oltre ad una funzione strumentale, una valenza simbolica
10
. In
Sénégal, in particolare, sono due i panni che vengono impiegati per il trasporto del bambino. Il
primo lega il piccolo alla madre e rappresenta simbolicamente l’utero materno che contiene, una
sorta di pelle condivisa da madre e bambino; proprio per tale ragione viene utilizzato per tutti i figli
5
Cfr. E. BALSAMO, Bambini immigrati e bisogni insoddisfatti: la via dell’etnopediatria, in LA CASA DI TUTTI I COLORI,
Mille modi di crescere, Franco Angeli, Milano 2002, pp. 99-142; ID., Sono qui conte. L’arte del maternage, Il Leone
verde, Torino 2007.
6
Cfr. H. STORK, Enfances indienne. Étude de psychologie transculturelle et comparée du jeune enfant, Paidos/Bayard
Editions, Paris 1986.
7
Cfr. E. BALSAMO, Bambini immigrati e bisogni insoddisfatti: la via dell’etnopediatria, op. cit.
8
Cfr. H. STORK, Enfances indienne. Étude de psychologie transculturelle et comparée du jeune enfant, op. cit.
9
Cfr. E. BALSAMO, Il rapporto genitori/figli nella migrazione, in Atti del Convegno “Famiglie migranti e stili
genitoriali”, Bologna 2006, pp. 83-90.
10
Le denominazioni di tale panno variano al variare del Paese in cui è impiegato. Esso è chiamato Mei Tai in Cina,
Podeagi in Korea, Onbuhimo in Giappone, Bilum in Papua Nuova Guinea, Selendang in Indonesia, Rebozo in Messico,
Bambaran in Guinea Bissau, Pagne in Sénégal, Kanga in Kenya, Kikoy sulla costa occidentale africana. Cfr. E. WEBER,
Portare i piccoli, Il leone verde edizioni, Torino 2007, p. 12.
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di una stessa madre ed è oggetto di particolari attenzioni. Il secondo panno, invece, è posto sopra il
primo ed è una sorta di coperta che resterà di proprietà del bambino anche quando sarà cresciuto, in
quanto sta simbolicamente a rappresentare il processo di differenziazione e di separazione del
bambino nei confronti di sua madre e dei suoi fratelli11.
In modo analogo, con il medesimo intento di preservare la continuità della simbiosi, anche durante
la notte, madre e bambino dormono insieme nello stesso letto, pratica conosciuta con il termine di
co-sleeping.
“…il sonno non è un fatto privato, come avviene da noi, ma è un qualcosa che avviene nel gruppo, è un evento
di gruppo: si mangia insieme, si cammina insieme, si lavora insieme, si dorme insieme. […] Nelle culture
tradizionali il bambino piccolo dorme sempre insieme a un adulto, è inconcepibile lasciare dormire un bambino
piccolo da solo”12.
Un’altra consuetudine tipica delle culture ad alto contatto è l’allattamento a richiesta, ossia
un allattamento che avviene ogniqualvolta il bambino ne manifesti esigenza, senza seguire intervalli
regolari di tempo prestabiliti; tale consuetudine rappresenta uno strumento non soltanto per
soddisfare i bisogni nutritivi del bambino, ma parimenti per consolare e dimostrare sollecitudine nei
confronti di ogni sua richiesta. Il latte materno costituisce dunque il nutrimento, la gratificazione, la
sicurezza, il calore umano, il piacere, la testimonianza di un legame esistente con un’altra persona.
È possibile anche parlare, in queste comunità, di cure condivise, in quanto gli impegni relativi alla
crescita ed all’educazione del bambino non gravano unicamente sulle spalle della madre, ma sono
gestiti dall’intera collettività.
Le varie pratiche sono incoraggiate da una concezione di salute di tipo olistico ed energetico
che mira a coltivare, e a ripristinare in caso di perturbazione, il delicato equilibrio tra forze
opposte13.
Le culture a basso contatto si sono diffuse in seguito al processo di industrializzazione e
sono tipiche per lo più del mondo occidentale. La nascita avviene di norma in strutture mediche
apposite ed il neonato è separato dalla madre per essere sottoposto a procedure di routine.
L’obiettivo cui mirano le pratiche di allevamento è la precoce e progressiva autonomia del bambino
rispetto alle figure genitoriali e lo sviluppo delle capacità cognitive. Proprio per questo, gli scambi
11
Cfr. O. DIODO LY, Le bébé africain : du dos de la mère aux bras des substituts, in H. E. STORK, Les rituels du
coucher de l’enfant, variations culturelles, ESF, Paris 1993.
12
Ivi, p. 87.
13
Il modello di allevamento ad alto contatto è anche definito modello pediatrico; cfr. R. A. LEVINE ET AL., Child care
and culture: Lessons from Africa, Cambridge University Press, New York 1994.
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interattivi si basano prevalentemente sullo sguardo e sulla comunicazione verbale. L’allattamento
avviene soltanto nei primi mesi di vita, ad intervalli regolari di tempo, e, non di rado, è praticato
avvalendosi del biberon; madre e bambino dormono in letti separati e talvolta anche in stanze
differenti; durante la giornata, il neonato trascorre la maggior parte del suo tempo in carrozzine,
sediolini, box, girelli, ossia lontano dal corpo della madre. Gli impegni relativi alla crescita ed alla
cura del bambino sono di quasi esclusiva pertinenza della madre; non di rado quest’ultima non
usufruisce neppure del sostegno del partner14.
Alla base di queste abitudini vi è una visione meccanicistica della salute intesa quale assenza
di patologia che, in caso di malattia, incoraggia il ricorso ai prodotti farmaceutici15.
Al di là, tuttavia, delle convinzioni relative alla salute ed alla sopravvivenza del bambino, vi è da
dire che le varie modalità di allevamento che è possibile riscontrare nelle diverse culture, sono
suggerite ed incoraggiate da quello che è l’ideale di uomo che si vuole promuovere perché ritenuto
funzionale alla vita all’interno di una società data. Le culture ad alto contatto mirano alla
formazione di una persona fortemente legata alla sua comunità, ed incline a stabilire con essa un
rapporto di dipendenza sul modello del rapporto simbiotico strutturato con la madre nella prima
infanzia. Le culture a basso contatto, al contrario, sono volte alla formazione di una personalità
autonoma e indipendente, capace di badare a se stessa senza avvalersi dell’aiuto di altri, e proiettata
ad affermare i propri attributi interiori e le proprie aspirazioni.
14
Cfr. E. BALSAMO, Bambini immigrati e bisogni insoddisfatti: la via dell’etnopediatria, op. cit.
Il modello di allevamento a basso contatto è anche definito modello pedagogico; cfr. R. A. LEVINE ET AL., Child care
and culture: Lessons from Africa, op. cit.
15
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