“MODELLI DI CITTÀ PROF .SSA CARMELINA GUGLIUZZO

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“MODELLI DI CITTÀ PROF .SSA CARMELINA GUGLIUZZO
“MODELLI DI CITTÀ”
PROF.SSA CARMELINA GUGLIUZZO
Università Telematica Pegaso
Modelli di città
Indice
1
CITTÀ E CAMPAGNA ------------------------------------------------------------------------------------------------------- 3
2
LA DIVISIONE DEL LAVORO FRA CITTÀ E CAMPAGNA ------------------------------------------------------ 8
3
LA CITTÀ, I MERCATI, LE FIERE ------------------------------------------------------------------------------------- 12
BIBLIOGRAFIA --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 18
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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1 Città e campagna
Dovunque sia, una città implica sempre un certo numero di realtà e di processi, con
regolarità evidenti. Non vi è città senza divisione obbligata del lavoro, come non vi è divisione del
lavoro un po' sviluppata senza l’intervento di una città. Non vi è città senza mercato e non vi sono
mercati regionali o nazionali senza città. Spesso si parla della funzione della città nello sviluppo e
nella diversificazione dei consumi, ma assai più di rado del fatto, peraltro importantissimo, che il
più povero dei cittadini passa obbligatoriamente attraverso il rifornimento del mercato, e insomma
che la città generalizza il mercato. Ora, proprio da una parte e dall'altra della linea del mercato si
dividono fondamentalmente le società e le economie. Finalmente, non vi sono città senza potere
insieme protettore e coercitivo, qualunque sia la forma di questo potere, qualunque sia il gruppo
sociale che lo incarna. E se il potere esiste fuori della città, entro di lei acquista una dimensione
supplementare, un campo d'azione d'altra natura. Né esiste apertura sul mondo, né ci sono scambi
lontani senza città: “una città è sempre una città”, dovunque sia, nel tempo come nello spazio. Ciò
non significa affatto che tutte le città si assomigliano, ma di là dai diversi caratteri originali, esse
parlano tutte un medesimo linguaggio fondamentale: il dialogo ininterrotto con le campagne, prima
necessità della vita quotidiana; il rifornimento in uomini, non meno indispensabile dell'acqua alla
ruota del mulino; il contegno, la volontà delle città di distinguersi dalle altre; la loro situazione
obbligata al centro di reti di collegamenti più o meno lontani; la loro articolazione in rapporto ai
loro sobborghi e alle altre città, poiché non avviene mai che una città si presenti senza
l'accompagnamento di altri centri urbani: le une padrone, le altre serve o addirittura schiave,
formano fra loro una gerarchia, costituiscono un insieme coeso, in Europa come in Cina o altrove.
Insolito concentramento di uomini, di case vicine, spesso congiunte, muro contro muro, la città è
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un'anomalia del popolamento. Non già che essa sia sempre “piena di popolo”, o - come diceva Ibn
Batuta, ammirando il Cairo, con i suoi 12 000 portatori d'acqua e le sue migliaia di cammelli da
prendere a nolo – “un mare agitato” di uomini. Vi sono città appena abbozzate, e certe piccole
borgate sono ad esse superiori per numero di abitanti: così, quegli enormi villaggi della Russia di
ieri e di oggi ancora, oppure quelle città rurali del Mezzogiorno italiano o del Sud andaluso, o
quelle costellazioni di villaggi a tessuto rado di Giava, quell’”isola di villaggi fino ai nostri giorni”.
Ma questi villaggi gonfiati, anche se congiunti, non sono necessariamente destinati a diventare città.
Non è importante soltanto il numero. La città esiste in quanto tale solamente di fronte a una
vita inferiore alla sua: la regola è senza eccezione, e nessun privilegio la sostituisce. Non vi è città o
cittadina senza i suoi villaggi, il suo lembo di vita rurale annessa, capace di imporre alla sua
campagna le comodità del suo mercato, l'uso delle sue botteghe, dei suoi pesi e delle sue misure, dei
suoi prestatori di denaro, dei suoi uomini di legge e anche delle sue distrazioni. Per esistere, deve
dominare un “impero”, per quanto sia minuscolo. Varzy, oggi nella Nièvre, conta appena duemila
abitanti agli inizi del Settecento. Eppure è una città, con una borghesia. Gli uomini di legge sono
tanto numerosi, che c'è da domandarsi che cosa possano fare, sia pure in mezzo a una popolazione
analfabeta, che deve dunque ricorrere alla penna d’altri. Ma questi uomini di legge sono anche
proprietari; altri borghesi sono padroni di ferriere, di concerie, mercanti di legname favoriti dai
traffici dei tronchi galleggianti sui fiumi, talvolta interessati al mostruoso rifornimento di Parigi e
possessori di diritti di taglio. È questo un caso tipico di piccola città occidentale, che possiamo
ritrovare a migliaia di esemplari. Perché le cose siano chiare, sarebbe necessario stabilire un limite
inferiore indiscutibile, che fisserebbe il livello base della vita urbana. Ma su questo punto nessuno è
- né potrebbe essere - d'accordo. Tanto più che un limite del genere muta nel tempo. Per la statistica
francese una città è un agglomerato di almeno duemila abitanti (oggi ancora), ossia la grandezza di
Varzy nel Settecento. Per le statistiche inglesi la cifra sale a cinquemila. Così, quando si afferma
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che nel 1801 le città rappresentano il 25 per cento della popolazione inglese, occorre sapere che se
si prendesse per base le comunità superiori a duemila abitanti, la percentuale salirebbe al 40 per
cento. Per parte sua, pensando al secolo XVI, Richard Gascon stima che “seicento fuochi (ossia fra i
duemila e i duemilacinquecento abitanti) costituirebbero probabilmente un buon limite inferiore”.
Per lo meno nel Cinquecento, sembra che questo sarebbe un limite inferiore già molto elevato. In
ogni caso, per l’intera Germania alla fine del Medioevo, si sa che esistono tremila località che
hanno ricevuto il diritto di città. Ora, la popolazione media di queste è di quattrocento persone.
Dunque, il livello base normale della vita urbana è assai al di sotto della grandezza di Varzy,
probabilmente per l'intero occidente (e le eccezioni confermano la regola). Così, in Champagne,
Arcis-sur-Aube, sede di un deposito del sale e di un arcidiaconato, autorizzata da Francesco I nel
1546 a circondarsi di mura, non ha che 228 fuochi ancora all'inizio del Settecento (ossia 900
abitanti); Chaource, che possiede un ospedale e un collegio, conta 227 fuochi nel 1720. La storia
urbana deve dunque estendere la sua ricerca a questi limiti inferiori, perché le piccole città finiscono
col “vincere” le loro campagne vicine, penetrandole di “coscienza cittadina”, mentre a loro volta
sono divorate, assoggettate dagli agglomerati più popolosi, più attivi di loro. Queste città sono così
catturate nei sistemi urbani che ruotano regolarmente intorno a una città-sole: ma sarebbe un errore
tener conto soltanto delle città-sole, di Venezia o di Firenze, di Norimberga o Lione, di Amsterdam,
di Londra, di Delhi, Nanchino o Osaka. Dappertutto le città formano delle gerarchie e la punta della
piramide, per quanto importante sia, non riassume in sé tutto quanto. In Cina, le gerarchie urbane
sono espresse dalla particella che viene aggiunta al nome della città (-fu per una città di prima
grandezza, -ceu di seconda, -hien di terza), senza contare, a un livello anche più basso, le città
elementari costruite nelle province povere per “la necessità di contenere i popoli semiselvaggi che
sopportano a stento il giogo dell'autorità”. Ma proprio questo livello inferiore di città elementari, a
contatto con l'aureola di villaggi circostanti, è quello peggio scorto, in Cina come nel resto
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dell’Estremo Oriente. Quel medico tedesco che attraversa nel 1690 una cittadina sulla strada per
Yedo (Tokyo), vi conta cinquecento case (ossia almeno duemila abitanti), compresi i sobborghi, e
quest'ultimo particolare è per lui una prova, che si tratti davvero di una città. Solo che osservazioni
del genere sono assai rare. Sarebbe comunque importante poter valutare l'intera massa dei sistemi
urbani, il loro peso globale, scendendo sempre al loro limite inferiore, all'articolazione fra città e
campagne. Più delle cifre particolari, proprio queste cifre d'insieme sarebbero in grado di darci
indicazioni utili: porre su un piatto della bilancia tutte le città e sull’altro tutta la popolazione
dell'impero o della nazione o della regione economica, per calcolare poi il rapporto fra l'uno e l’altro
peso, così da poter valutare in modo abbastanza sicuro certe strutture economiche e sociali dell'unità
in osservazione. Sarebbe quanto meno un modo abbastanza sicuro qualora simili percentuali fossero
facili da stabilire e fossero soddisfacenti. Quelle proposte appaiono troppo alte, ottimiste, se
confrontate con le stime attuali. Non parliamo dell'affermazione per cui generalmente si suppone
che metà degli abitanti di uno Stato esista e dimori nelle città, l'altra metà nelle campagne. Per la
Francia un recente calcolo rileva soltanto un 16 per cento per la popolazione cittadina. Per di più,
tutto dipende dal livello considerato come base. Se vengono censite come città gli agglomerati al di
sopra di 400 abitanti, l'Inghilterra, nel 1500, è urbana al 10 per cento, nel 1700, al 25 per cento; ma
se il punto di partenza è stabilito a 5000, le cifre saranno solo del 13 per cento nel 1700, 16 per
cento nel 1750, 25 per cento nel 1801. È chiaro dunque che occorrerebbe rifare tutti i calcoli a
partire da un medesimo criterio prima di poter confrontare validamente i gradi di urbanizzazione
delle diverse regioni d’Europa. Al più, per il momento, possiamo indicare alcuni livelli
particolarmente elevati o bassi. Verso il basso, le cifre più modeste concernono, in Europa, la
Russia. Il livello del 10 per cento nella Germania del 1500 non sarebbe dunque insignificante,
confrontato con le cifre russe. È ancora quello dell'America inglese del 1700, dove Boston conta
7000 abitanti, Filadelfia 4000, Newport 2600, Charlestown 1100, New York 3900. E tuttavia, fin
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dal 1642, New York, allora Neuwe Amsterdam, il mattone olandese “alla moderna” ha sostituito il
legname nella costruzione delle case, evidente segno di arricchimento. Chi non riconoscerebbe il
carattere urbano di questi centri ancora mediocri? Nel 1690 essi rappresentano la tensione urbana
resa possibile da una popolazione globale di duecentomila persone circa, disperse attraverso uno
spazio assai vasto: in totale il 9 per cento di questa popolazione. Verso il 1750, la già densa
popolazione del Giappone (26 000 000) sarebbe urbana nella misura del 22 per cento. Verso l’alto,
è più che probabile che il 50 per cento sia superato in Olanda (140 180 cittadini nel 1515 su una
popolazione globale di 274 810 persone, ossia il 51 per cento, il 59 per cento nel 1627, il 65 per
cento nel 1795).
Secondo questo censimento del 1795, persino la provincia di Overijssel,
certamente non all'avanguardia, raggiungeva il 45,6 per cento.
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2 La divisione del lavoro fra città e campagna
All'origine e nel corso della vita delle città, in Europa e altrove, il problema essenziale
rimane lo stesso: si tratta di compiere, fra campagne e centri urbani, una divisione del lavoro, non
mai perfettamente definita, sempre da riprendere da capo, poiché la posizione delle due parti non
smette di modificarsi. La spartizione non finisce mai di essere rimessa in causa in un senso o in un
altro. Non si deve credere infatti che questa specie di lotta di classe si risolva immediatamente a
favore delle città, ossia del più forte fra le due parti in contrasto. Né dobbiamo credere che la
campagna abbia necessariamente preceduto nel tempo la città. Certo, è fenomeno frequente che lo
sviluppo dell'ambiente rurale, attraverso il progresso della produzione, abbia dato vita alla città, ma
questa non è in ogni caso un prodotto secondario. In un libro affascinante, Jane Jacobs sostiene che
la città compare almeno nello stesso tempo del popolamento rurale, se non prima di questo. Cosi,
fin dal VI millennio avanti Cristo, Gerico e Chatal Yùyùk (Asia minore) sono città creatrici intorno
a sé di campagne che si potrebbero dire moderne. Ciò nella misura in cui probabilmente la terra si
offre allora come uno spazio vuoto e libero, dove è possibile creare campi quasi dappertutto. La
stessa situazione si ritrova nell'Europa dei secoli XI e XII, e più vicino a noi, la si vede chiaramente
nel Nuovo Mondo, dove l'Europa ricostruisce le proprie città, quasi paracadutate nel vuoto, e dove
gli abitanti creano, da soli o con gli indigeni, le campagne alimentatrici. A Buenos Aires, ricostruita
nel 1580, gli indigeni sono ostili o assenti (il che non è meno grave), cosicché gli abitanti sono
costretti - e se ne lamentano - di guadagnare il pane con il sudore della fronte. Insomma, devono
creare la propria campagna, secondo i bisogni della città. Un processo analogo viene descritto
nell'Illinois verso il 1818 per quel che riguarda la spinta americana verso l'Ovest: “Dove parecchi
nuovi coloni hanno comprato dal governo, le une vicine alle altre, delle terre per lavorarle, un
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proprietario che vede un po' più lontano nei bisogni del paese e capisce i suoi futuri progressi,
calcolando che la sua posizione e favorevole all’insediamento di una nuova città, divide il suo
terreno (quello della sua concessione) in piccoli lotti separati da vie comodamente tracciate e le
vende via via che se ne presenta l'occasione. Prima di tutto arriva il “magazziniere” (così viene
chiamato un mercante d'ogni specie di oggetti) con qualche cassa di mercanzia e apre una bottega;
vicino si costruisce un albergo, e diventa la residenza di un medico e di un uomo di legge, che fa il
notaio, l'agente di affari; il “magazziniere” vi consuma i suoi pasti e tutti i viaggiatori vi fanno
sosta. Ben presto arrivano un fabbro e altri artigiani, non appena se ne fa sentire la necessità. Un
maestro di scuola che serve da ministro per tutte le sette cristiane è un membro d'obbligo per la
comunità nascente. Là dove non si scorgeva che persone vestite di pelli, ora si compare in chiesa
con un bell'abito blu, le donne in vestiti di calicò e cappello di paglia. Una volta che la città è
cominciata, la cultura dei campi si diffonde rapidamente e si diversifica nei dintorni. Le derrate
abbondano. Lo stesso avviene in Siberia, quest'altro Nuovo Mondo: nel 1652 nasce Irkutsk prima
delle campagne circonvicine che devono alimentarla. Tutto ciò procede da solo: campagne e città
obbediscono alla “reciprocità delle prospettive”: io ti creo, tu mi crei; io ti domino, tu mi domini; io
ti sfrutto, tu mi sfrutti, e cosi via, secondo le eterne regole della coesistenza. Le campagne vicine
alle città, anche in Cina, non sono forse valorizzate da questa vicinanza? Nel 1645, quando Berlino
riprende a vivere, il suo Geheime Rat dichiarerà: “La ragione fondamentale del basso prezzo dei
grani oggi deriva proprio dal fatto che quasi tutte le città, salvo rare eccezioni, sono devastate e non
hanno alcun bisogno del grano della campagna, ma sovvengono ai bisogni dei loro pochi abitanti a
partire dal loro territorio”. Questo territorio cittadino non è forse una campagna ricreata dalla città,
negli ultimi anni della guerra dei Trent'anni? Certo, le cose possono rovesciarsi: le città urbanizzano
le campagne ma queste ruralizzano quelle. Sin dalla fine del secolo XVI la campagna è l'abisso in
cui vengono inghiottiti i capitali cittadini, non fosse che per gli acquisti di terre, la creazione di
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proprietà agricole o di innumerevoli case di campagna. Venezia nel Seicento abbandona i guadagni
del commercio marittimo e riversa le sue fortune sulle campagne. Tutte le città del mondo
conoscono, un giorno o l'altro, trasferimenti di capitali di questo genere, Londra come Milano,
Lione come Lipsia, Algeri come Istanbul. In effetti città e campagne non si separano mai come
l'acqua e l'olio: nel medesimo istante c'è separazione e riavvicinamento, divisione e riunione. Anche
nei paesi islamici la città non ignora, non esclude la campagna, nonostante il taglio violento che le
separa. Anzi, essa sviluppa attorno a sé un'agricoltura efficace e attività ortofrutticole. Alcuni canali
che corrono lungo le vie cittadine, si prolungano fino agli orti di oasi vicine. La stessa simbiosi
esiste in Cina, dove la campagna è resa fertile dai rifiuti e dalle immondizie urbane. Ma perché mai
cercare la dimostrazione di ciò che è ovvio? Fino a tempi molto recenti ogni città doveva avere il
suo cibo alle sue stesse porte, a portata di mano. Uno storico economista, cui sono familiari i
calcoli, valuta che a partire dal secolo XI un centro di tremila abitanti deve disporre, per vivere, di
una decina di villaggi agricoli con le relative campagne, ossia all’incirca 8,5 kmq, considerato il
basso rendimento dell'agricoltura. La campagna, infatti, deve sostenere la città, se questa non vuole
temere ad ogni istante una carestia: il grande commercio può alimentarla solo eccezionalmente e
parzialmente. Ed è possibile solo per alcune città privilegiate: Firenze, Bruges, Venezia, Napoli,
Roma, Pechino, Istanbul, Delhi, La Mecca... D'altronde, fino al secolo XVIII anche le grandi città
conservano alcune attività rurali. Persino in Occidente esse ospitano pascoli, guardie campestri,
contadini, vignaioli (nella stessa Parigi). Ogni città possiede generalmente dentro e oltre le mura
una cinta di orti e di verzieri, e più lontano terre, talvolta spartite col sistema dei tre campi, come
avviene a Francoforte sul Meno, Basilea, a Monaco. Nel Medioevo il rumore della battitura si ode –
a Ulma, ad Augusta, a Norimberga – fin nei pressi della Rathaus, e i maiali si allevano in libertà
nelle strade, così sporche e fangose che bisogna attraversarle su trampoli, o gettare passerelle di
legno da una parte all'altra. Alla vigilia delle fiere, a Francoforte, si ricoprivano frettolosamente con
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paglia o trucioli di legno le strade principali. Sembra quasi incredibile che a Venezia, ancora nel
1746, fosse necessario vietare l'allevamento dei maiali in città. Per quel che riguarda poi le
innumerevoli cittadine, esse emergono appena dalla vita campagnola; si è arrivati a parlare di “città
rurali”, il che in sé è apparentemente contraddittorio. Nella Bassa Svevia vinicola, Stoccarda ed
Esslingen si incaricano di avviare verso il Danubio il vino che producono, e del resto il vino è di per
sé un'industria. Jerez de la Frontera, vicina a Siviglia, risponde a un'inchiesta del 1582 che “la città
ha soltanto i suoi raccolti di vino, di grano, di olio, di carne”, il che basta al suo benessere e a far
vivere i suoi traffici e il suo artigianato". I mercati urbani si tengono in generale una o due volte la
settimana. Per rifornirli, è necessario che la campagna abbia il tempo di produrre e raccogliere le
derrate e che possa distrarre parte della manodopera per la vendita (affidata preferibilmente alle
donne). Nelle grandi città, tuttavia, i mercati tendono a essere quotidiani, come a Parigi, dove in
linea di massima, e spesso di fatto, dovrebbero tenersi soltanto il mercoledì e il sabato.
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3 La città, i mercati, le fiere
In ogni caso, intermittenti o continui, questi mercati elementari fra campagna e città, per il
loro numero e il loro instancabile ripetersi, rappresentano il maggiore fra tutti gli scambi noti. Per
questo le autorità cittadine hanno preso fermamente nelle loro mani l'organizzazione e la
sorveglianza di questa attività: è una questione vitale per loro. Si tratta di autorità vicine, pronte a
infierire, a regolamentare, attente a sorvegliare i prezzi. In Sicilia, basta che un venditore esiga un
prezzo superiore di un solo “grano” alla tariffa fissata perché possa essere condannato alla galera. Il
caso si presenta a Palermo, il 2 luglio 1611. A Chàteaudun i fornai sorpresi in fallo per la terza volta
sono gettati senza alcun riguardo giù da un carretto, legati come salami: è una pratica che risale al
1417, quando Charles d'Orléans concesse agli scabini diritto d'ispezione sui fornai; la comunità
ottiene la soppressione del supplizio solo nel 1602. Tuttavia sorveglianza e repressione non
impediscono al mercato di fiorire, di svilupparsi secondo la domanda, ponendosi al centro della vita
cittadina. Frequentato nei giorni stabiliti, il mercato è un centro naturale della vita sociale. È qui che
ci si ritrova, ci si accorda, ci si ingiuria, si passa dalle minacce alle vie di fatto; qui nascono gli
incidenti, e il loro seguito di processi rivelatori di complicità, qui si compiono gli interventi
piuttosto rari delle guardie, certo spettacolari, ma anche prudenti, qui circolano le notizie politiche o
d'altro genere. Nella contea di Norfolk, nel 1534, sulla pubblica piazza del mercato di Fakenham, si
criticano ad alta voce gli atti e i progetti di re Enrico VIII. E su quale mercato inglese non sarebbe
possibile ascoltare, nel corso degli anni, le parole veementi dei predicatori? Quella folla emotiva è
pronta per tutte le cause, perfino per quelle buone. Il mercato, poi, è il luogo d'elezione per gli
accordi d’affari o di famiglia. A Giffoni, in provincia di Salerno, nel secolo XV, vediamo dai rogiti
notarili che nel giorno di mercato, oltre alla vendita delle derrate alimentari e dei prodotti
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dell'artigianato locale, si nota una percentuale più alta di contratti di compravendita di terreni, di
censi enfiteutici, di donazioni, di contratti di matrimonio, di costituzioni di doti. Grazie al mercato
tutto si accelera. Anche, logicamente, lo smercio delle botteghe. È senza dubbio una regola
generale. A condizione, evidentemente, che le botteghe non siano chiuse d'ufficio - come capita
spesso in molte città - nei giorni di mercato o di fiera. Che il mercato stia al centro di una vita di
relazioni è attestato già dalla saggezza dei proverbi. Eccone alcuni esempi: “Tutto si vende al
mercato fuorché la prudenza silenziosa e l'onore”; “Chi compra il pesce in mare [prima che sia
pescato] rischia di non averne che l'odore”. Poiché al mercato nessuno è solo, “pensa a te stesso e al
mercato”, ossia agli altri. Per l'uomo accorto, dice un proverbio italiano, “val più avere amici in
piazza che denari in cassa”. Resistere alle tentazioni del mercato è l'immagine stessa della saggezza
per il folclore del Dahomey di oggi. “Al venditore che grida: ‘Vieni e compra’, sarai saggio se
risponderai, ‘Non spendo al di sopra dei miei averi!’. Per quanto complesso e particolare sia il
mercato centrale di Parigi, esso traduce soltanto la complessità e le necessità del vettovagliamento
di una grande città, cresciuta ben presto fuori dalle proporzioni normali. Non appena Londra si è
sviluppata nella misura che sappiamo, le stesse cause producono gli stessi effetti, e la capitale
inglese invasa da una quantità di mercati caotici. Nell'impossibilità di contenersi entro i vecchi spazi
riservati, i mercati straripano nelle vie adiacenti e ciascuna di queste diventa un mercato
specializzato: del pesce, degli ortaggi, del pollame, ecc. Ai tempi di Elisabetta, ingombrano ogni
giorno di più le vie di maggior passaggio della capitale. Solo l'incendio del 1666, “the Great Fire”,
consentirà un riordinamento generale: le autorità costruiscono allora, per sgombrare le vie, diversi
grandi edifici che hanno al centro vasti cortili; sono cosi dei mercati chiusi, ma all'aria aperta;
alcuni, specializzati, sono piuttosto dei mercati all’ingrosso, altri sono più diversificati. Il più grande
di tutti è Leadenhall: lo si diceva il più esteso d'Europa, e offre uno spettacolo simile a quello delle
Halles di Parigi. Probabilmente, è più ordinato. Leadenhall aveva assorbito in quattro edifici tutti i
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mercati moltiplicatisi prima del 1666 intorno alla sua vecchia area: i mercati di Gracechurch Street,
di Cornhill, del Poultry, di New Fish Street, di Eastcheap. In una corte, 100 banchi di macellai
vendono carne di bue; in un'altra 140 banchi sono riservati alle altre carni; altrove si vende il pesce,
il formaggio, il burro, i chiodi, gli utensili in ferro o in rame, ecc. Insomma, un mercato mostruoso,
oggetto della fierezza cittadina e uno dei maggiori spettacoli della città”. Naturalmente l'ordine di
cui Leadenhall era il simbolo non durò a lungo: continuando a crescere, la capitale superò queste
sagge soluzioni per ritrovare le vecchie difficoltà. Dal 1699, probabilmente già prima, i banchi
invadono di nuovo le strade, si installano sotto i portoni delle case, i rivenditori si spargono per la
città, nonostante i divieti che colpiscono i mercanti ambulanti. Le scene più pittoresche sono anche
qui offerte dalle venditrici di pesce che gridano pèr le vie offrendo la loro merce, portata sulla testa,
dentro un paniere; hanno cattiva fama, ci si fa beffe di loro, le si sfrutta, anche; se la giornata è
andata bene, le si ritrova di certo, la sera, in qualche taverna. Anche loro, come le pescivendole
delle Halles, sono sboccate e aggressive. Ma torniamo a Parigi. Per assicurare i suoi rifornimenti,
Parigi deve organizzare un'enorme regione intorno alla capitale: il pesce e le ostriche vengono da
Dieppe, da Le Crotoy, sulla costa piccarda: “Incontriamo soltanto ostricari e pesciaiuoli - dice un
viaggiatore che passa presso queste due città nel 1728 -. Eppure è impossibile - aggiunge - avere di
questo pesce che ci segue da tutte le parti... Lo si porta tutto a Parigi”. I formaggi vengono da
Meaux nella Brie; il burro da Gournay, vicino a Dieppe; gli animali da macello arrivano dai mercati
di Poissy, o più da lontano; il buon pane viene da Gonesse; i legumi secchi da Caudebec in
Normandia, dove si tiene mercato ogni sabato. Di qui, tutta una serie di misure da prendere o da
modificare di continuo. Essenzialmente si tratta di mettere al riparo la zona di rifornimento diretto
della città, di lasciarvi svolgere liberamente l'attività dei produttori, rivenditori e trasportatori, tutti
personaggi modesti, dai quali vengono continuamente riforniti i mercati della capitale. Perciò
l'attività libera dei mercanti di professione è stata respinta di là da questa zona più vicina. Ma vi
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sono anche altri problemi: uno dei più difficili è quello del rifornimento di cavalli e di bestiame. Si
svolge in mercati tumultuosi che, per quanto possibile, vengono rigettati alla periferia o fuori dalla
cerchia urbana. Quella che sarà la Piazza Reale, l'attuale place des Vosges, un terreno abbandonato,
fu per molto tempo un mercato di cavalli. Parigi è cosi circondata in permanenza da una corona di
mercati, che sono quasi delle fiere. Uno si chiude, l'altro si apre l'indomani con gli stessi
assembramenti di uomini e di animali. Su uno di questi mercati, probabilmente quello di SaintVictor, ecco nel 1667 più di tremila cavalli, ed è cosa prodigiosa che ve ne siano tanti, poiché vi è
mercato due volte la settimana. In realtà, il commercio dei cavalli penetra per tutta la città: vi sono i
cavalli “nuovi”, che vengono dalla provincia o dall'estero, ma, ancora di più, i cavalli “vecchi”,
ossia quelli “che hanno servito”, cavalli d'occasione, insomma, di cui “i borghesi vogliono disfarsi,
senza mandarli sul mercato”; di qui, un nugolo di sensali e di maniscalchi che fanno da mediatori al
servizio di mercanti proprietari di scuderie. Inoltre ogni quartiere ha i suoi noleggiatori di cavalli. I
grandi mercati di bestiame provocano a loro volta enormi assembramenti. Un commercio assai
attivo di carne vi è organizzato da una catena di appaltatori, che anticipano sul mercato il denaro per
gli acquisti, di mediatori e di procacciatori, che vanno a comprare le bestie attraverso tutta la
Francia, e finalmente di macellai, che non sono tutti dei poveri dettaglianti: taluni fondano vere e
proprie dinastie borghesi. Va tenuto presente che il mercato della carne che rifornisce Parigi si
estende su gran parte della Francia, come pure l'area da cui la capitale trae regolarmente o
irregolarmente il suo grano. Tale estensione pone il problema delle strade e dei collegamenti, un
problema considerevole. Per l'essenziale, si tratta senza dubbio dell'utilizzazione delle vie d'acqua
per rifornire Parigi: la Yonne, l'Aube, la Marna, l'Oise, che confluiscono nella Senna, e la stessa
Senna. Nell'attraversare la capitale, questo fiume apre tutta una serie di “porti” che sono al tempo
stesso mercati vasti e sorprendenti, dove ogni cosa è a miglior prezzo che altrove. Sulle acque del
fiume, innumerevoli battelli, imbarcazioni e, a partire dai tempi di Luigi XIV, dei burchielli a
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vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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disposizione dei clienti, analoghi al migliaio di «gondole» che sul Tamigi sono spesso preferite alle
sobbalzanti carrozze cittadine. Ogni città importante richiede una zona di rifornimento a misura
delle sue dimensioni. Cosi, al servizio di Madrid si organizza nel Settecento la mobilitazione
abusiva della maggior parte dei mezzi di trasporto della Castiglia, al punto di mettere a repentaglio
l’intera economia del paese. A Lisbona tutto sarebbe meravigliosamente semplice: la frutta, la neve
portata dalla Serra d'Estrela, il cibo che arriva grazie al mare compiacente. Gli abitanti, che si
accingono a mangiare, seduti a tavola, vedono le reti dei pescatori riempirsi di pesce. È un piacere
per gli occhi, dice una relazione del 1633, osservare sul Tago le centinaia, le migliaia di barche dei
pescatori. Ghiotta, pigra, talvolta indifferente, la città mangerebbe il mare. Ma l'immagine è troppo
bella. In realtà Lisbona fatica continuamente a mettere insieme il pane per nutrirsi. Del resto, più
una città è popolata, più il suo nutrimento rimane aleatorio. Venezia, già nel secolo XV, deve
acquistare in Ungheria i buoi che consuma; Istanbul, che raggiunge nel Cinquecento forse 700 000
abitanti, divora le greggi di montoni dei Balcani, il grano del Mar Nero e dell'Egitto: eppure, se il
violento governo del Sultano non la reggesse saldamente in pugno, l'enorme capitale conoscerebbe
paralisi, carovita, carestie drammatiche, che in effetti, nel corso degli anni, non le furono
risparmiate. La fiera è baraonda, fracasso, musica popolare, festa, il mondo alla rovescia, disordine,
talvolta tumulto. A Prato, non lontano da Firenze, nelle fiere che risalirebbero al Trecento, vengono
da tutte le città della Toscana i “trombetti” per suonare a gara per le vie e nelle piazze cittadine. A
Carpentras, alla vigilia della fiera di san Matteo o di san Zefirino s'alza il suono acuto delle trombe
alle quattro porte della città, poi sulle piazze e finalmente davanti ai suoi palazzi. Le campane
suonano ininterrottamente a partire dalle quattro del mattino; poi fuochi d'artificio, falò di gioia,
rulli di tamburi: la città ne ha in abbondanza in cambio del suo denaro. Ed eccola presa d'assalto da
una schiera di venditori di rimedi miracolosi, di spezie, da indovine, giocolieri, prestigiatori,
funamboli, buffoni, cavadenti, musici e cantanti girovaghi. Le locande rigurgitano di gente. A
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Parigi, la fiera di Saint-Germain, che comincia dopo la Quaresima, raccoglie anche li tutta la vita
allegra della capitale: per le ragazze “è il tempo della vendemmia”, come dice una battuta
scherzosa. E il gioco attira tanti appassionati, come pure le donne di facili costumi. La lotteria fa
furore. La fiera, finalmente, è senza eccezioni il luogo d'incontro delle compagnie di teatranti. Fin
dai tempi in cui si teneva alle Halles di Parigi, la fiera di Saint-Germain era la grande occasione per
le rappresentazioni teatrali. Ben presto verrà ad aggiungersi la commedia italiana. Divertimenti,
evasione, mondanità: è questo il termine logico di queste vaste rappresentazioni? Sì, qualche volta.
A Venezia, la fiera della Sensa, dell'Ascensione, che dura quindici giorni, è una manifestazione
rituale e teatrale: in piazza San Marco si installano baracche di mercanti forestieri, uomini e donne
escono in maschera, e il doge davanti a San Niccolò sposa il mare come faceva nei tempi andati. Si
pensi che alla fiera della Sensa si accalcano ogni anno più di centomila stranieri, accorsi per
divertirsi e godere dello spettacolo della fantastica città. Anche la Bartholomew Fair di Londra è un
luogo d'incontro per feste popolari: è una di quelle vere fiere che ancora rimangono, fatte per
ricordare, se ce ne fosse bisogno, l'aria di festa, di licenza, di cuccagna, propria di tutte le fiere,
quelle più vivaci e quelle che più che altro sopravvivono. Invece la fiera parigina di Saint-Germain,
la sola che sia rimasta molto vivace nella capitale, sotto il segno del piacere, conserva anche il suo
aspetto commerciale: è un'occasione per vendite massicce di tessuti, di panni di lana, di tele di
cotone, acquistate da una ricca clientela, le cui carrozze sostano in un parcheggio riservato.
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Bibliografia
 Fernand Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII), I, Le
strutture del quotidiano, Einaudi, Torino 1982; II, I giochi dello scambio, Einaudi,
Torino 1981.
 Alberto Caracciolo (a cura di), Dalla città preindustriale alla città del capitalismo, Il
Mulino, Bologna 1975.
 Teresa Colletta (a cura di), Città portuali del Mediterraneo, Franco Angeli, Milano
2012.
 Cesare De Seta, La città europea dal XV al XX secolo, Rizzoli, Milano 1996.
 Massimo Giansante (a cura di), Documenti, archivi, storie della città, Il Chiostro dei
Celestini, Bologna 2015.
 Paola Maffei – Gian Maria Varanini (a cura di), Gli universi particolari. Città e
territori dal medioevo all’età moderna, University Press, Firenze 2014.
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