Il reato di estorsione nel rapporto di lavoro

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Il reato di estorsione nel rapporto di lavoro
Tribunale Bologna 24.07.2007, n.7770 - ISSN 2239-7752
Direttore responsabile: Antonio Zama
Il reato di estorsione nel rapporto di lavoro
29 gennaio 2011
Argante Franza
La lotta al lavoro sommerso, i vari tentativi più o meno efficaci al suo contrasto, la sospensione dell’attività
imprenditoriale etc, non hanno, ad oggi, guarito o risollevato l’economia del paese.
Allo stesso modo il fiume di norme che regolano la materia del lavoro, non ha fatto chiarezza e restano tuttora
aperte questioni importanti che interessano tutti i soggetti attori del mondo del lavoro, senza distinzione
alcuna.
Sopra ogni cosa, il ricorso ad un eccessivo sistema sanzionatorio, in parte caratterizzato da illeciti di natura
amministrativa, di fatto, non garantisce soluzioni capaci di debellare o prevenire quelle forme sottili di
illegalità diffusa che vanno ad incidere in modo assolutamente occulto sulla capacità di autodeterminazione
del lavoratore.
Tale soggetto, in diverse occasioni, è costretto, per poter lavorare, a tollerare condotte abusive e/o omettere
l’esercizio di un proprio diritto innanzi a interessi spregiudicati di un qualche datore di lavoro, inosservante
delle leggi e assolutamente indifferente, ad esempio, a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del
lavoratore.
Siffatte condotte, non del tutto evidenti e raramente trattate rilevano delle defaillance nella funzione quale
quella ispettiva in materia di lavoro, riconfinata, ad avviso dello scrivente, senza tema di smentita, ad una
prevalente e mera attività burocratica, tendente all’applicazione della disciplina del lavoro e della legislazione
sociale e di conseguenza delle sanzioni in uno spazio circoscritto al formale.
In effetti, il concetto di ispezione, inteso nella sua ontologica definizione di osservazione attenta, oculata,
introspettiva ha assunto, in questo periodo, un ruolo assai diverso e non del tutto efficace.
Colpa del mare “magnum” di leggi, leggine e circolari; queste ultime foriere di generare una confusione nel
tentativo spesso infelice di interpretare l’interpretato? Forse.
Il continuo e ripetuto ricorso all’interpretazione amministrativa delle Leggi, rischia, in concreto che questi
strumenti operativi quali quello sopra citato della sospensione dell’attività imprenditoriale, siano solo un
mezzo per appuntare e in seguito colpire attività d’impresa piccole, spesso incapaci di potersi difendere
doviziosamente, qualora la Pubblica Amministrazione va addirittura a rasentare l’eccesso di potere.
In tema, mi corre l’obbligo di riportare l’attenzione sulla sentenza nr. 310 del 2 novembre 2010 della Corte
Costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 14 comma 1 del Decreto Legislativo nr.81 del 9 aprile
2008 contenente norme in materia di tutela della salute e di sicurezza nei luoghi di lavoro,nella parte in cui,
stabilendo che ai provvedimenti di sospensione dell’attività imprenditoriale previsti dalla citata norma non si
applicano le disposizioni contenute nelle norme in tema di procedimento amministrativo e diritto di accesso ai
documenti che, esclude l’applicazione ai medesimi provvedimenti dell’articolo 3 comma 1 della Legge 7
agosto 1990 n. 241.
In particolare, nella summenzionata sentenza, la Consulta sottolinea la necessità da parte dell’organo o ufficio
procedente di “indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione
dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria”.
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Orbene quanto sopra fa trapelare che, il concetto di tutela va scemando in fumose applicazioni, talvolta
sintomatiche di eccessi di potere e violazioni di legge che, in termini oggettivi non si curano di quelle
situazioni, da tempo esistenti, di condotte in contesti di attività lavorativa diversi, i quali sono degni di nota
soprattutto sotto il profilo della tutela penale.
Abbiamo avuto modo di leggere su FILODIRITTO (Articolo del 20 dicembre 2010 - La tutela penale in materia di Mobbing Dott.ssa Licia Gulotta) che alcune fattispecie in materia di lavoro sono prive di tutela.
In vero, la responsabilità anche penale del datore di lavoro è prevista solo da alcune norme di riferimento,
quali ad esempio il Decreto Legislativo 81/2008, la somministrazione di manodopera oppure le norme che
regolano l’avviamento al lavoro di cittadini extracomunitari o piuttosto minori e altre fattispecie da definirsi
appendicolari rispetto a quelle tipiche e rinvenibili nel contratto di lavoro.
Quindi occorre, di fronte a fattispecie diverse, fare riferimento a quei reati che chiunque può commettere,
quali l’ingiuria, la diffamazione, maltrattamenti, violenza privata, nonché il reato di estorsione ex articolo 629
del codice penale.
Questo testualmente recita: “Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad
omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione
da cinque a dieci anni e con la multa da euro 516 a ero 2.065.
La pena è della reclusione da sei a venti anni e della multa da euro 1.032 a euro 3.098 se concorre taluna delle
circostanze indicate nell’ultimo capoverso dell’articolo precedente”.
Per meglio illustrare in maniera tangibile quest’ultima fattispecie, ritengo opportuno fissare l’attenzione
partendo da alcuni principi della nostra Costituzione, quali l’articolo 1; l’articolo 35 sulla tutela del lavoro in
tutte le sue forme ed applicazioni; l’articolo 36 sul diritto del lavoratore ad una retribuzione proporzionata alla
quantità e qualità del suo lavoro; l’articolo 37 sulla parità tra uomo e donna nell’ambito lavorativo, nonché il
riconoscimento ai minori di norme speciali che ne garantiscono la parità di lavoro.
Questo breve, pur tuttavia necessario, percorso nella Carta Costituzionale, trova poi la sua definizione nelle
disposizioni contenute nell’articolo 2087 del Codice Cvile e nello statuto dei Lavoratori, laddove vengono
fissati, con maggiore chiarezza, i principi sopra menzionati.
L’importanza di un posto di lavoro è essenziale affinché un individuo possa trovare sostegno e considerazione
in un ambito sociale, oggi diverso e diversificato rispetto al passato.
Nonostante tutto, allorché la necessità di un lavoro diventa frutto di speculazioni della parte contraente forte
del rapporto (datore di lavoro) e le stesse vanno a incidere sulla sfera personale e morale del lavoratore, tali da
condizionarne la volontà, siamo ragionevolmente innanzi ad evidenti abusi perseguibili e/o da perseguire con
ogni strumento giuridico a disposizione.
In effetti, questi eccessi, in prime cure silenti, si sviluppano a partire da lievi forme di sopraffazione ad
esempio con richieste inique o piuttosto imposizioni di orari di lavoro estremi, in condizioni di lavoro, di
igiene e sicurezza impossibili, tali che il lavoratore deve subire la volontà del datore di lavoro per evitare il
concretizzarsi di un male ingiusto o un faticoso pregiudizio personale e sociale.
Innanzi a tali circostanze, la parte contraente debole del rapporto vive un’esistenza sul posto di lavoro di
assoluta coercizione, con la probabilità di restare senza lavoro, di non essere assunto regolarmente, di non
ricevere una giusta retribuzione e i contributi previdenziali versati.
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Comportamenti di prevaricazione a danno del lavoratore (di contro all’ingiusto vantaggio economico del
datore di lavoro), forme di larvate minacce condizionano di fatto l’agire del prestatore d’opera e l’ambiente di
lavoro non sempre vengono esaminati con la dovuta attenzione.
Siffatte azioni all’interno di un luogo di lavoro alimentano forme di omertà, ritenute necessarie per difendersi
da comportamenti illeciti conferenti sotto il profilo penale e nella fattispecie ascrivibili anche al reato di
estorsione.
Occorre subito ricordare, come da giurisprudenza ormai consolidata, che tutte le volte che quegli
atteggiamenti sono considerati idonei a incidere sulla capacità di autodeterminazione del soggetto che le
riceve, diventa assolutamente irrilevante, sotto il profilo dell’esimente, la circostanza più volte sottoposta
all’attenzione del giudice adito, in ordine all’accordo lavorativo tra il datore di lavoro e il prestatore, che, per
evitare la perdita del posto di lavoro, accetta condizioni di assoluta illegalità.
Effettivamente, anche “lo strumentale uso di mezzi leciti e di azioni astrattamente consentite può assumere un
significato ricattatorio e genericamente estorsivo, quando lo scopo mediato sia quello di coartare l’altrui
volontà. In tal caso l’ingiustizia del proposito rende necessariamente ingiusta la minaccia di danno rivolta alla
vittima e il male minacciato, giusto obiettivamente diventa ingiusto per il fine cui è diretto" [(Cassazione
Penale Sezione 2 , n. 877 del 1973)]
Anche “la prospettazione di un male ingiusto può integrare il delitto di estorsione, pur quando si persegua un
giusto profitto e il negozio concluso a seguito di essa si riveli addirittura vantaggioso per il soggetto
destinatario della minaccia” [(Cassazione Penale Sezione 2 n. 1071 del 1992; Cassazione Penale Sezione 2
Sentenza n. 36642 del 2007].
Parimenti, l’approfittarsi di situazioni di mercato favorevoli al datore di lavoro per una prevalenza dell’offerta
sulla domanda, e che costringa di fatto all’accettazione da parte dei dipendenti di trattamenti retributivi
deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate, assume rilievo sotto il profilo della violazione di cui
all’articolo 629 del codice penale [(Cassazione Penale Sezione 2 n. 16656 del 2010)].
Per concludere questa breve panoramica sul reato di estorsione nel rapporto di lavoro è evidente che anche
l’assenza dell’elemento materiale della minaccia o piuttosto lo stato di soggezione dei lavoratori non esclude
la configurabilità dell’illecito penale in esame.
Di recente, nella sentenza del 19 gennaio 2011, la Cassazione Penale Sezione 2 nr. 3933/10 Registro generale
nr. 25185/2010- Udienza pubblica del 14 dicembre 2010 ha confermato la sentenza della Corte di Appello di
Catanzaro che aveva condannato per il delitto di estorsione il legale rappresentante di una ditta che “mediante
minaccia di licenziamento, aveva costretto le lavoratrici a sottoscrivere la busta paga relativa ai salari mensili,
agli straordinari, alla 13^ e 14^ mensilità per importi che venivano corrisposti per un orario di lavoro inferiore
a quello effettivamente prestato, procurandosi, così, un ingiusto profitto con correlativo danno per le suddette
lavoratrici”.
E’ augurabile che in futuro sia riposto un maggiore impegno alla identificazione di condotte quali quelle
esaminate che, ad oggi, restano solo in parte accertate e sanzionate opportunamente, rispetto al reale quadro
globale.
Articolo pubblicato in: Diritto costituzionale, Diritto del lavoro e della sicurezza, Diritto penale, Diritto pubblico
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