Shakespeare: Amleto (Atto III, scena I)

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Shakespeare: Amleto (Atto III, scena I)
Tribunale Bologna 24.07.2007, n.7770 - ISSN 2239-7752
Direttore responsabile: Antonio Zama
Shakespeare: Amleto (Atto III, scena I)
19 giugno 2013
Versione originale:
Hamlet:
To be, or not to be, that is the question
Whether 'tis nobler in the mind to suffer
The slings and arrows of outrageous fortune,
Or to take arms against a sea of troubles,
And by opposing, end them. To die, to sleepNo more and by a sleep to say we end
The heart-ache, and the thousand natural shocks
That flesh is heir to; 'tis a consummation
Devoutly to be wished. To die, to sleep;
To sleep, perchance to dream. Ay, there's the rub;
For in that sleep of death what dreams may come
When we have shuffled of this mortal coil
Must give us pause - there's the respect
That makes calamity of so long life:
For who would bear the whips and scorns of time
Th'oppressor's wrong, the proud man's contumely,
The pangs of despis'd love, the laws delay,
The insolence of office, and the spurns
That patient merit of th'unworthy takes,
When he himself might his quietus make
With a bare bodkin; who would fardels bear,
To grunt and sweat under a weary life,
But that the dread of something after death,
The undiscovered country, from whose bourn
No travellers returns, puzzles the will
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And make us rather bear those ills we have,
Than fly to others that we know not of?
Thus conscience does make cowards of us all,
And thus the native hue of resolution
Is sicklied o'er with the pale cast of thought,
And enterprises of great pitch and moment
With this regard their currents turn awry,
And lose the name of action.
Traduzione in prosa:
Amleto:
Essere o non essere: questo è il problema: se sia più nobile all'animo sopportare gli oltraggi, i sassi e i dardi
dell'iniqua fortuna, o prender l'armi contro un mare di problemi e combattendo disperderli.
Morire dormire; nulla più: - e con un sonno dirsi che poniamo fine al dolore e alle infinite miserie, naturale
retaggio della carne, è soluzione da desiderare ardentemente.
Morire - dormire - sognare, forse: ma qui è l'ostacolo che ci trattiene: perchè in quel sonno della morte quali
sogni possan venire, quando noi ci siamo sbarazzati di questo groviglio mortale: è la remora, questa, che di
tanto prolunga la vita ai nostri tormenti.
Chi vorrebbe, se no, sopportar le frustate e gl'insulti del tempo, le angherie del tiranno, il disprezzo dell'uomo
borioso, gli spasimi dell'amore disprezzato, gli indugi della legge, l'insolenza di chi è investito di una carica, e
gli scherni che il merito paziente riceve dai mediocri, quando di mano propria potrebbe saldare il suo conto
con due dita di pugnale?
Chi vorrebbe caricarsi di grossi fardelli imprecando e sudando sotto il peso di tutta una gravosa vita, se non
fosse il timore di qualche cosa, dopo la morte - la terra inesplorata donde mai non tornò alcun viaggiatore confonde la volontà, e ci fa piuttosto sopportare i mali che abbiamo, che non volare verso altri che non
conosciamo?
Così la coscienza ci fa tutti vigliacchi; così la tinta naturale della determinazione si scolora al cospetto del
pallido pensiero. E così imprese di grande importanza e rilievo per questo riguardo deviano il loro corso: e
dell'azione perdono anche il nome.
[Giorgio Melchiori, Shakespeare, Nove Volumi, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1991]
Articolo pubblicato in: Artediritto
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