VERBALE DI ASSEMBLEA del 22-23

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VERBALE DI ASSEMBLEA del 22-23
ORGANISMO UNITARIO DELL’AVVOCATURA ITALIANA
Ufficio stampa
Rassegna
stampa
10 marzo 2006
Responsabile :
Claudio Rao (tel. 06/32.21.805 – e-mail:[email protected])
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ORGANISMO UNITARIO DELL’AVVOCATURA ITALIANA
SOMMARIO
Pag. 3 GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA: Meno ricorsi davanti ai Tar (il sole 24 ore)
Pag. 4 GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA: Il calo del contenzioso (il sole 24 ore)
Pag. 5 GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA: Nel 2005 calano i ricorsi (professionisti)
Pag. 6 UNIVERSITA’: Rettori contro la riforma del Miur (professionisti)
Pag. 7 ORDINI: Confronto sulla Giustizia - Brutti(Ds):Avvocati, l’Ordine non va abolito
(il denaro)
Pag. 8 INAPPELLABILITA’: Entra in vigore e finisce subito alla Consulta
(diritto e giustizia)
Pag.10 INAPPELLABILITA’: L'inappellabilità va alla Consulta (il sole 24 ore)
Pag.12 INAPPELLABILITA’: Ragionevoli dubbi riscoperti
di Luigi Domenico Cerqua (il sole 24 ore)
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ORGANISMO UNITARIO DELL’AVVOCATURA ITALIANA
IL SOLE 24 ORE
Ieri l'apertura dell' anno giudiziario
Meno ricorsi davanti ai Tar
ROMA. Davanti ai giudici amministrativi arrivano sempre meno ricorsi: nei Tar si è passati da oltre
80mila cause del 2004 a poco più di 62mila dello scorso anno; gli appelli al Consiglio di Stato si sono
fermati, nel 2005, a 7.036, 844 in meno dell' anno prima. A far affievolire la voglia di litigare è
l'aumento del costo del contributo unificato sulle controversie e la prassi sempre più diffusa di
condannare al pagamento delle spese la parte soccombente.
L'arretrato. Sta di fatto che la riduzione del contenzioso, unita alla maggiore produttività dei magistrati
amministrativi (si definiscono più ricorsi di quanti ne vengano incamerati), contribuisce all'erosione dei
fascicoli arretrati, che nei tribunali risultavano, a inizio anno, oltre 689mila e a Palazzo Spada più di
24mila. Per quanto ormai da tempo l'arretrato diminuisca, rimane comunque un «annoso problema».
Così l'ha definito Alberto de Roberto, presidente del Consiglio di Stato, che ieri, alla presenza del
Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, ha aperto l'anno giudiziario. Bilancio di fine
mandato. Per de Roberto è stata l'ultima cerimonia, perché a dicembre lascerà la magistratura, dopo «52
anni al servizio della Giustizia amministrativa, di cui ben 45 nei ruoli di Palazzo Spada, con una lunga
presidenza al vertice dell' Istituto». «Mi considero un uomo fortunato», ha commentato.
La relazione ha rappresentato, dunque, l'occasione per tracciare un bilancio dell'attività dei Tar e del
Consiglio di Stato più ampio dell'arco di un anno. La giustizia amministrativa, ha sottolineato de
Roberto, ha saputo evolversi al passo con i tempi e offrire risposte adeguate di fronte a un ordinamento
che, soprattutto nell'ultimo mezzo secolo, ha conosciuto «tumultuose trasformazioni».
A margine della cerimonia, de Roberto ha, però, precisato che «esiste una questione di confini tra la
giustizia amministrativa e quella ordinaria». Si tratta «di un problema non corporativo, ma che riguarda
i cittadini, che hanno diritto di conoscere a quale giudice rivolgersi per risolvere la controversia». «Ci
dobbiamo dare una calmata», ha aggiunto: le due giurisdizioni devono entrambe contribuire a chiarire
meglio le rispettive competenze.
Il presidente del Consiglio di Stato è stato, poi, invitato - sempre a margine della cerimonia - ad alcune
considerazioni sulla recente sentenza sul crocefisso nelle aule scolastiche.
«Il giudice - ha affermato- non deve essere il postumo difensore delle sue decisioni. Sono abituato a
rompere il cordone ombelicale con le sentenze. Non vorrei porre quella sul crocefisso su un piano
diverso dalle altre». Le sospensive. Riguardo al contenzioso, un aspetto significativo è risultato quello
relativo alle istanze cautelari: dei 62mila ricorsi presentati nel 2005 davanti ai Tar - ha spiegato nella
relazione de Roberto - circa 40mila chiedevano anche la sospensiva. In appello il rapporto è ancora più
elevato: su 7mila cause, più di 5.500 erano accompagnate dall'istanza cautelare.
Basso, invece, il numero di impugnazioni contro le sospensive pronunciate dai Tar: 3.600 appelli contro
circa 30mila ordinanze cautelari decise in primo grado.
ANTONELLO CHERCHI
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IL SOLE 24 ORE
Il calo
L’andamento del contenzioso
Ricorsi
2004
2005
Var%
24.595
7.036
7.413
-1,5
-10,7
-9,2
CONSIGLIO DI STATO
Pendenti
Pervenuti
Definiti
24.972
7.880
8.161
TAR
Pendenti
Pervenuti
Definiti
787.567
80.320
111.030
738.339
62.046
111.274
-6,3
22,8
-02
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PROFESSIONISTI
Nel 2005 calano i ricorsi
E’ l’effetto del passaggio di alcune competenze dallo Stato alle Regioni.
Lo ha rilevato, nella relazione annuale, Alberto De Roberto, presidente del Consiglio di Stato
Si riduce il volume del contenzioso giurisdizionale nell’anno appena trascorso per effetto della riforma del titolo
V della Costituzione che ha spostato diverse competenze dallo Stato centrale alle regioni. È quanto ha rilevato
ieri nella sua relazione annuale, a palazzo Spada a Roma (la sede del Consiglio di Stato, ndr), il presidente del
Consiglio di Stato, Alberto De Roberto. Tra le prime file di magistrati ed esperti di giustizia amministrativa
presenti all’inaugurazione dell’Anno giudiziario c’erano anche il presidente della Repubblica, Carlo Azeglio
Ciampi, il presidente della Corte Costituzionale Annibale Marini e il sottosegretario alla Presidenza del
Consiglio Gianni Letta, in rappresentanza del Governo.
De Roberto ha sottolineato che i ricorsi in primo grado nel 2005 «nell’area del contenzioso giurisdizionale»
hanno subito «una sensibile flessione», passando dagli 80 mila del 2004 ai 62 mila dell’anno scorso. Anche per
quanto riguarda «l’attività consultiva obbligatoria in relazione agli atti normativi rilevo che nel 2005 risultano
pervenute 112 richieste di parere», un dato nella media che ha preso avvio dal 2001 secondo De Roberto, che
prosegue: «Quanto poi ai ricorsi straordinari il loro numero ascende a 5.500 nel 2005, un numero che eccede di
poco la media dell’ultimo decennio, ma di molto inferiore agli 11 mila ricorsi del 2004 dovuti alla presenza di
circa seimila impugnative seriali dei dipendenti di una amministrazione statale». I quesiti in sede di
consultazione facoltativa, infine, «sono stati ottanta, con una lieve flessione rispetto alla media del precedente
decennio oscillante tra i cento e i centodieci». Resta però, ha sottolineato De Roberto, il problema dell’arretrato:
«È evidente che la differenza tra le entrate e le uscite non è tale da lasciar prevedere, in entrambi i gradi, in tempi
brevi, la risoluzione dell’annoso problema dell’arretrato, che rimane comunque sempre al centro della nostra
attenzione. Innanzi al consiglio di Stato comunque - ha sottolineato il presidente - il numero dei ricorsi in entrata
sembra aver sopportato una flessione anche se più limitata, pur in termini percentuali, rispetto al primo grado:
risultano introitati nel 2005 poco più di settemila ricorsi rispetto ai settemilaottocento del 2004».
Note positive, sottolinea invece il presidente De Roberto, per quanto riguarda il lavoro in uscita, ovvero i pareri
espressi nel 2005 dalla giustizia amministrativa sia in primo grado che in secondo (Tar e Consiglio di Stato): il
numero delle decisioni conclusive dei ricorsi in primo grado, ha spiegato De Roberto, nel 2005 «resta
sensibilmente maggiore di quello dei ricorsi in entrata. Risultano, infatti, definiti quasi 114 mila ricorsi,
all’incirca il doppio dei ricorsi introitati», stessa dinamica registrata al Consiglio di Stato, dove «le uscite
risultano in numero superiore ai ricorsi in entrata (circa 7.500 nel 2005)». Quanto alle cause di questa riduzione
dei ricorsi alla giustizia amministrativa, il presidente del Consiglio di Stato le individua «oltre che negli effetti
della sentenza n. 204 della Corte Costituzionale» (che ha ridefinito le competenze della giustizia amministrativa
in tema di diritti soggettivi lesi dall’amministrazione nelle aree dei servi pubblici e dell’edilizia-urbanistica ndr.),
anche «nell’aumento del costo del contributo unificato e alla sempre più diffusa prassi di far luogo, anche nel
giudizio amministrativo, alla condanna alle spese della parte soccombente in caso di esito sfavorevole del
ricorso». Quella di quest’anno è l’ultima relazione annuale di De Roberto come presidente del Consiglio di Stato.
«Mi considero un uomo fortunato - ha detto il presidente concludendo il suo intervento – perché raggiungerò se
Dio vorrà 52 anni al servizio della Giustizia di cui ben 45 nei ruoli di Palazzo Spada con una lunga presidenza al
vertice dell’istituto: una permanenza (quella dei 45 anni) credo mai maturata da alcuno a partire dai tempi in cui
Carlo Alberto dette vita nel 1831 al Consiglio di Stato». Secondo il presidente De Roberto quella affrontata in
questi anni è una sfida sostanzialmente vinta dal Consiglio di Stato: «La giustizia amministrativa ha saputo
reggere al ritmo dei tempi – ha affermato - di off rire sempre risposte adeguate in un ordinamento che è venuto,
specie in quest’ultimo mezzo secolo, sopportando tumultuose trasformazioni. Un dato che è da ascrivere alle
capacità con le quali la giustizia amministrativa ha saputo cogliere e fronteggiare le esigenze via via
sopravvenute coniugando insieme, sempre armoniosamente, nuovo ed antico». Luigi Berliri
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PROFESSIONISTI
Rettori contro la riforma del Miur
Mozione della Crui sulle nuove classi di laurea
Diciamo che ai Rettori del Bel Paese proprio non è piaciuta la riforma dell’Università targata Letizia
Moratti. In effetti, i vertici del mondo accademico italiano lo sbandierano da tempo di non essere assai
convinti - anzi, per nulla convinti - delle migliorie apportate al sistema universitario nostrano dal
ministro «azzurro» e dal sottosegretario di Alleanza Nazionale Maria Grazia Siliquini.
Già in autunno, ad un oceanico incontro di Rettori ed accademici, era sembrata a tutti evidente
l’assoluta mancanza di feeling fra il corpo accademico italiano e i responsabili di viale Trastevere. Ora,
però, l’opposizione ha ancora più i crismi dell’ufficialità, con la dura presa di posizione della
Conferenza dei Rettori delle Università Italiane.
L’Assemblea Generale della Crui, infatti, riunitasi a Roma in ordine agli schemi di decreti ministeriali
che in attuazione del D.M. 22 ottobre 2004 n. 270 definiscono le classi dei corsi di studio universitari
ed al relativo Decreto di accompagnamento, ha ritenuto la previsione di attivazione dei corsi di studio ai
sensi della nuova normativa a partire dal prossimo ottobre 2006 del tutto inapplicabile per quella che
viene definita in una nota «l’evidente mancanza dei tempi tecnici necessari ad approntare le modifiche
degli ordinamenti didattici in adempimento delle previsioni dei decreti in oggetto». Inoltre, l’Assemblea
Generale della Crui ha valutato come del tutto inopportuna la previsione del Miur, «poiché le modifiche
implicano revisioni e congruenti procedure che richiedono tempi adeguati in una materia così
importante e delicata». Ciò considerato, la Crui richiede al Ministero che l’intera procedura sia fatta
assolutamente slittare di un anno ed esprime altresì il proprio sconcerto a fronte di prescrizioni
normative contenute nel Decreto di accompagnamento che ritiene essere vistosamente lesive del
principio dell’autonomia degli Atenei in materia di didattica.
L’Assemblea Generale della Crui si riserva a questo punto, nel caso non si ritenesse da parte del Miur
di intervenire per apportare le necessarie modiciche alla nuova normativa, di agire in ogni sede, ivi
comprese quelle legali. Lo scontro fra Rettori e Ministero è quindi ormai deflagrato e, ovviamente, non
si può non notare come, in piena campagna elettorale, questo abbia una valenza certo diversa che in un
altro periodo dell’anno. Di sicuro, qualora il rassemblement di centrodestra dovesse riconfermarsi
alla guida del Paese, diverrà assolutamente necessario un chiarimento globale fra vertici accademici e
Miur. L’Università italiana ha bisogno di un clima sereno per crescere e certo quello odierno non lo è.
Carlo Lo Re
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IL DENARO
Confronto sulla Giustizia
Brutti(Ds):Avvocati, l’Ordine non va abolito
"Non sono d'accordo con Boselli. L'ordine professionale degli avvocati non va abolito" lo ha detto ieri
pomeriggio Massimo Brutti, responsabile Giustizia dei Ds e candidato al Senato alle prossime politiche
nella Regione Campania, a margine di un dibattito pubblico sul tema" Giustizia e legalità nel
Mezzogiorno", che si è svolto a Campagna, in provincia di Salerno. "Si può discutere e trovare un
punto d'incontro –ha affermato Brutti, riferendosi alle dichiarazioni del Segretario della "Rosa nel
pugno" che ancora ieri aveva avanzato l'ipotesi dell'abolizione degli ordini professionali - l'esigenza di
liberalizzazione, in generale, è un' esigenza giusta. Ma la professione dell'avvocato si differenzia dalle
altre, perché ha un rilievo costituzionale. L'avvocato è tramite necessario perché possa affermarsi il
diritto dei cittadini alla giustizia. Si deve garantire che vi siano standard di professionalità elevata per
l'avvocatura italiana".
"Certo - ha aggiunto - , così come sono, gli ordini non ce la fanno ad adempiere alla loro funzione. E'
dunque necessaria una riforma che innanzi tutto preveda la creazione di una struttura pubblicistica la
quale governi e regoli l'accesso all'avvocatura, con prove selettive e con un tirocinio organizzato dal
sistema degli ordini stessi, assicurando il controllo deontologico degli iscritti. Inoltre, crediamo che
siano necessari incentivi fiscali per indurre gli avvocati ad assodarsi. Solo così si potrà evitare che
approdino nel mercato europeo pochi studi del Nord e del Centro, con l'esclusione di quelli del
Mezzogiorno" .
Sulle proposte che, in materia di giustizia, i Ds intendono avanzare nel caso di vittoria del Centrosinistra, Brutti ha poi detto: "Intervenire immediatamente sull'organizzazione e su alcuni aspetti della
procedura per rendere più brevi i processi. Le misure più urgenti, riguardano i tempi dei processi.
Questa è "assoluta priorità".
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DIRITTO E GIUSTIZIA
Inappellabilità, entra in vigore e finisce subito alla Consulta
Come debutto non è stato male. Appena la legge sull’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento è
entrata in vigore ha subito incassato la prima eccezione di incostituzionalità. Due per l’esattezza, una
presentata a Milano, ma respinta, ed una a Firenze. I giudici della terza sezione della Corte d’appello
fiorentina, dopo neanche un’ora di camera di consiglio, hanno accolto un’eccezione sollevata dal
sostituto procuratore generale, Marcello Scialoja, per un processo fissato in mattinata e subito sospeso
nel quale è imputato un marocchino di 24 anni, H.S. assolto in primo grado a novembre del 2003
dall’accusa di mancata esibizione di documenti, con la motivazione che «il fatto non costituisce reato».
Secondo le disposizioni della legge 46/2006, passata alle cronache come la legge Pecorella dal nome
del primo firmatario del provvedimento, H.S. non dovrebbe più passare all’esame della Corte d’appello,
ma vista l’eccezione sollevata dal procuratore, il processo adesso si congela in attesa della decisione
della Consulta.
Secondo il Pg, la legge sull’inappellabilità, laddove stabilisce limiti all’appello alle sentenze di
proscioglimento, viola l’articolo 111 della Costituzione sulla parità delle parti nel processo, perché
«penalizza in maniera sensibile solo il pubblico ministero». Le nuove disposizioni inoltre
contrasterebbero con l’articolo 112 della Costituzione sull’obbligatorietà dell’azione penale a carico del
Pm, essendo il potere di impugnazione «una estrinsecazione dell’azione penale». Infine la legge che
vieta al procuratore di presentare appello a meno che non emergano prove decisive, contrasterebbe col
principio di ragionevolezza, fissato sempre dalla Carta costituzionale sotto due profili. Secondo Scialoja
sarebbe irragionevole una disciplina che vieta al Pm totalmente soccombente di proporre appello,
quando invece è legittimato se la «sua soccombenza sia soltanto parziale» o quando, in caso di
condanna, ritenga che l’imputato debba essere prosciolto. Inoltre, vietare per legge al pubblico
ministero «di cercare, mediante l’appello, di correggere un più o meno evidente errore valutativo del
giudice di merito o di rimuovere una decisione ingiusta non può che significare porre irragionevolmente
un ostacolo a che l’esercizio della giurisdizione tenda effettivamente a realizzare le esigenze di
giustizia».
H.S. era stato denunciato per non aver esibito un documento d’identità valido, assolto nel 2003, aveva
poi fatto perdere le sue tracce. Ieri il suo difensore d’ufficio, Giuseppe Larango, si è detto «sorpreso del
ricorso in appello» per un caso del genere, ma molto più della decisione del sostituto procuratore
generale e poi dei giudici. Larango ha anche aggiunto di essere certo «che le questioni presentate a
Firenze saranno molto simili a quelle che altri rappresentanti delle diverse procure d’Italia sono pronti a
sostenere. La Pecorella – ha aggiunto – si fermerà fino a quando la Corte costituzionale non risolverà la
questione, nel frattempo però il tempo passa e la giustizia, a mio parere, non ne guadagna moltissimo».
A Milano, la seconda Corte d’appello ha respinto, dopo cinque ore di camera di consiglio, l’eccezione
sollevata dal sostituto procuratore generale, Laura Bertolè Viale, nel processo d’appello per le
cosiddette tangenti idrogeologiche, versate per l’assegnazione di lavori di sistemazione in zone della
Lombardia colpite da frane e alluvioni. Dopo l’intervento del procuratore, gli avvocati Pier Maria Corso
e Carlo Gilli, difensori di due imputati assolti in primo grado, hanno preso la parola opponendosi alle
argomentazioni della procura generale con diverse motivazioni. Successivamente, il presidente del
collegio, Roberto Pallini, ha letto in aula la lunga ordinanza che ha accolto in pieno la motivazione
oppositoria dell’avvocato Corso, dichiarando inammissibile l’appello presentato contro gli assolti in
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primo grado. Il collegio giudicante, dopo aver dichiarato non separabili le posizioni degli imputati
assolti da quelli condannati, ha rinviato a tempo indeterminato il processo. Ora la procura avrà 45 giorni
di tempo per preparare il ricorso in Cassazione.
Resta molto duro il commento dell’Unione delle Camere penali dopo la notizia arrivata da Firenze.
«C’è una chiara resistenza di una parte della magistratura ad applicare la legge Pecorella, che se si
tradurrà i ostruzionismo i penalisti sono pronti a reagire anche scioperando» ha detto il presidente Ucpi
Ettore Randazzo. «La legge – ha continuato – è in linea con il principio costituzionale del giusto
processo e rispetta sia il diritto di difesa, sia le convenzioni internazionali». Secondo Randazzo inoltre
non ci sarebbe nessuna violazione del principio di parità delle parti «perché la presunzione di non
colpevolezza dell’imputato garantisce il suo diritto a impugnare una sentenza di condanna e di avere un
secondo grado di merito, non certamente quello del Pm di ripetere la sua tesi, dopo un giudizio pieno e
nel contraddittorio delle parti che ha assolto l’imputato». La magistratura, secondo il presidente dei
penalisti sta per mettere in atto quella resistenza «preannunciata nelle dichiarazioni di autorevoli
esponenti istituzionali della magistratura che lasciavano intendere che la legge sarebbe stata interpretata
in senso ostruzionistico. Contro questo ostruzionismo ci batteremo in maniera ferma, anche
scioperando».
Voci di corridoio danno per pronte nei cassetti altre eccezioni di incostituzionalità che potrebbero
essere presentate a giorni. Dopo le note del Quirinale che aveva rinviato alle Camere la prima stesura
del testo, ora bisognerà attendere quelle della Consulta. (p.a.)
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IL SOLE 24 ORE
PROCESSO PENALE/La riforma è stata rinviata alla Corte Costituzionale nel suo primo giorno di
applicazione
L'inappellabilità va alla Consulta
Sono state accolte le richieste della Procura di Firenze
MILANO. Uno a uno. Ma il gioco non è a somma zero. Perché la Consulta dovrà valutare la legittimità
costituzionale delle legge Pecorella. A chiamare in causa la Corte costituzionale è stata la procura
generale di Firenze con un'ordinanza poi accolta dalla Corte d'appello, mentre a Milano un'identica
eccezione, ma per diversi motivi veniva giudicata infondata. A Venezia, poi, la questione è stata
sollevata, ma la decisione non è stata presa.
Un tam tam neanche tanto sotterraneo aveva messo nei giorni scorsi in contatto le procure di diverse
sedi giudiziarie che, al primo momento utile, hanno presentato in serie le loro perplessità.
Insomma,come un contemporaneo San Sebastiano del diritto, la nuova disciplina delle impugnazioni è
stata crivellata da un capo all'altro dei tribunali. E il debutto (ieri era il primo giorno di entrata in
vigore) si è rivelato un percorso a ostacoli.
A Firenze il sostituto procuratore generale, Marcello Scialoja, ha segnalato in tre pagine numerosi
profili di incostituzionalità che, poi, la corte d'appello ha accolto, sospendendo il processo nel quale la
questione era stata sollevata e rinviando gli atti alla Consulta. A essere violato, innanzitutto, sarebbe il
canone di parità tra le parti del giudizio, fissato dall'articolo 111 della Costituzione. Se è vero, infatti,
che la legge Pecorella stabilisce i medesimi limiti all'appello contro la sentenza di proscioglimento sia
per l'imputato sia per l'accusa, «non può sfuggire a un più attento esame che la nuova normativa
penalizza in maniera sensibile soltanto il pubblico ministero, in quanto nella normalità dei casi è
proprio il pubblico ministero che ha concreto interesse a impugnare una sentenza di proscioglimento».
La legge, in altre parole, dissimula «sotto la lettera delle disposizioni una sostanziale e vistosa disparità
di trattamento tra la parte privata e la parte pubblica a tutto svantaggio dell'accusa» .
A venire compromesso, secondo l'eccezione sollevata dalla Procura fiorentina, è poi il principio
dell'obbligatorietà dell'azione penale. Se si ritenne infatti che il potere di impugnazione deve essere
considerato «come un'estrinsecazione dell'azione penale, il cui meccanismo si attiva sulla base
della notitia criminis, devesi coerentemente ritenere che anche il potere di interporre appello partecipa
della "obbligatorietà" dell'azione penale le volte in cui il pubblico ministero ritenga di chiedere al
giudice di secondo grado una diversa decisione».
Di più. La riforma delle impugnazioni viola anche il principio di ragionevolezza sotto un duplice
profilo. Per il sostituto procuratore generale di Firenze il pubblico ministero totalmente soccombente
non può proporre appello, mentre può farlo in caso se sconfitto solo in parte, quando, per esempio,
ritiene che l'imputato deve essere prosciolto e, invece, viene condannato. Inoltre, il divieto assoluto
di proporre appello da parte dell'accusa, impedisce di porre rimedio a que1le forme di patologia de1la
giurisdizione costituite dagli errori di valutazione dei giudici di merito.
Tutte osservazioni, però, che non convincono il "padre" della legge, l'avvocato e deputato di Forza
Italia Gaetano Pecore1la, che ha invece sottolineato come «la parità de1le parti prevista dall' articolo
111 riguarda l'eguale contributo al contraddittorio e non la parità di posizioni processuali.
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La Corte costituzionale, in passato, ha già statuito che una differenza di diritti rispetto all'appello tra Pm
e difensore non contrasta con il principio di uguaglianza. Già oggi nel giudizio abbreviato l'imputato
può fare appello e il Pm no».
Tesi riecheggiate a Milano in un' ordinanza di 7 pagine, che ha respinto l'eccezione di legittimità
presentata da1laprocura generale (ma già oggi la questione dovrebbe essere riproposta). Infatti
l'ordinanza rileva che la parità tra causa e difesa non comporta necessariamente l'identità :dei poteri
processuali dell'imputato e del pubblico ministero. La diversità può invece essere giustificata «dalla
peculiare posizione istituzionale del pubblico ministero». Tanto che il Codice di procedura penale
contiene numerosi esempi di segno opposto, con poteri riconosciuti al Pm e non alla difesa. L'interesse
processuale del Pm, inoltre, non è quello di ottenere una condanna a tutti i costi, ma anche, per esempio
di svolgere accertamenti a favore degli indagati.
Infine l’'ordinanza di Milano, cambiando orientamento., prende posizione su una questione controversa
ammettendo l'applicazione del regime transitorio anche per le sentenze "miste", con reati prosciolti
connessi a condanne.
GIOVANNI NEGRI
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IL SOLE 24 ORE
Ragionevoli dubbi riscoperti
di Luigi Domenico Cerqua
La legge 20 febbraio 2006, n. 46 (legge "Pecorella"), in vigore da ieri, ha inserito nel Codice di procedura penale
un'importante regola di giudizio e valutazione delle prove: il giudice pronuncia condanna se l'imputato risulta
colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio.
La dottrina aveva da tempo auspicato l'introduzione nel sistema del codice di tale regola, alla cui stregua deve
essere risolto il problema delle prove insufficienti e delle prove contraddittorie: insufficienti quando l'organo
dell'accusa non ha dimostrato la colpevolezza"dell'imputato oltre ogni ragionevole dubbio; contraddittorie
quando gli elementi di reità, pur se prevalenti, svelano uno o più ragionevoli dubbi. Nel processo penale, tra le
due possibilità di errore giudiziario (l'assoluzione di un reo e la condanna di un innocente), lo Stato democratico
preferisce la prima, anche se l'ipotesi di colpevolezza appare più probabile. Questa regola - ora espressamente
dettata dal legislatore, come segnalato anche sul Sole-24 Ore di ieri - permea il sistema processuale e trova
espressione nelle garanzie fondamentali inerenti al processo penale, tra le quali quelle sulla responsabilità penale
per fatto proprio colpevole e sulla presunzione di non colpevolezza dell'imputato, che trovano riconoscimento
nella Costituzione, nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e nel
Patto internazionale sui diritti civili e politici, oltre che nello Statuto di Roma della Corte penale internazionale,
al quale l'Italia ha dato esecuzione. La regola, pertanto, non avrebbe dovuto essere marginalizzata nella prassi,
ma applicata ancor prima della legge ricordata; tuttavia,
ha trovato scarsa attuazione da parte della giurisprudenza, anche se vi sono alcune importanti decisioni della
Suprema corte e di qualche giudice di merito (tra i primi, la corte d'assise di Milano), che ne hanno fatto
applicazione.
Non si tratta, peraltro, di una regola di giudizio scoperta di recente in sistemi giuridici diversi dal nostro, ma di
una regola di giudizio che risale agli insegnamenti di grandi giuristi italiani dei secoli scorsi e che ha trovato
ampio riconoscimento in altri sistemi giuridici. E che vi siano potenti ragioni che la supportano è fuor di dubbio:
famosa la sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti in re Winship,
redatta nel 1970 dal giudice Brennan, dove si legge che ogni requisito della fattispecie incriminatrice deve essere
provato al di là di ogni ragionevole dubbio affinché la sentenza di condanna possa essere giustificata: trattasi di
un diritto costituzionale inviolabile dell'imputato, equivalente alla presunzione di innocenza o al diritto al trial by
jury.
Ovviamente il ragionevole dubbio, come ha evidenziato la dottrina, non è il mero dubbio sempre possibile o il
dubbio fantasioso o immaginario, che può essere sempre presente nei giudizi sulle azioni
umane, ma è il dubbio che, dopo tutte le valutazioni e le considerazioni sulle prove, lascia la mente dei giudici in
una condizione tale per cui non possono dire di provare una convinzione incrollabile, prossima alla certezza
morale (da intendersi come pratica certezza), sulla verità dell'accusa: così il paragrafo 1096 del Codice penale
della California e la sentenza sul caso O.J..Simpson (The people of the State of California v. Orenthal James
Simpson). La convinzione incrollabile basata esclusivamente sulle prove, ovvero la certezza schiacciante,
costituisce la linea di demarcazione, come è stato detto di recente, tra ciò che rimane dubbio immaginario o
fantasioso e ciò che invece si connota come dubbio ragionevole, in grado di comportare, secondo la Suprema
corte, la neutralizzazione dell'ipotesi prospettata dall' accusa e determinare l'esito assolutorio del giudizio. Si è
osservato che l'espressione colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio sta a significare, per riprendere una bella
immagine di Wittgenstein, «che si è giunti a un punto, mai determinabile a priori, in cui la vanga del dubbio, che
deve sempre armare il giudice, ha incontrato lo strato duro della roccia, rappresentata dalle prove, e si è piegata,
risultando implausibile ogni spiegazione diversa dalla colpevolezza». Bisogna riconoscere che la verità certa,
oggettiva, assoluta è irraggiungibile: se così è, ne consegue che, in presenza di un dubbio ragionevole sulla
ricostruzione accusatoria, il giudizio finale non può che essere di assoluzione. E gli strumenti migliori per
valutare l'effettiva sussistenza dei dubbi sono forniti dal processo accusatorio a struttura antagonistica.
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