Asean-Cina, la fabbrica gigante

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Asean-Cina, la fabbrica gigante
Pubblicato il 19 Gennaio 2010
FOCUS. THAILANDIA E VIETNAM IN PRIMA FILA NELL'ATTRARRE INVESTIMENTI PER
REALIZZARE BENI DESTINATI AL MERCATO DI PECHINO E NON SOLO
Asean-Cina, la fabbrica gigante
di Micaela Cappellini
È il 4 gennaio, soltanto tre giorni dopo l'entrata in vigore dell'area di libero scambio tra
i sei più avanzati membri dell'Asean e la Cina. I vertici di Samsonite annunciano: la
produzione in Europa e in Cina verrà ridotta, quella in Thailandia e in Vietnam verrà
aumentata. Bangkok ora non si limiterà a fabbricare portafogli e borsette da esportare
in Cina e India, ma si cimenterà anche nella produzione di valigie. Le ragioni? La
crescita del costo del lavoro nell'ex Celeste impero, i dazi zero fra Thailandia e India,
e naturalmente l'area di libero scambio tra Asean e Cina. La più grande esistente al
mondo per numero di abitanti, la terza per valore degli scambi dopo il colosso Ue e il
Nafta nordamericano.
Passa qualche giorno, e arriva un nuovo annuncio: il gigante cinese degli
elettrodomestici Haier nel 2010 incrementerà la produzione di lavatrici, congelatori e
frigoriferi nei suoi stabilimenti in Thailandia, così da poter usufruire della tariffa zero
portata dall'area di libero scambio Asean. Da tempo nei parchi industriali thai operano
l'inglese Triumph e i giapponesi Toyota e Mitsubishi, mentre in Indonesia e in Vietnam
c'è l'italiana Perfetti. Da poco, dopo la Thailandia, la Danieli ha investito alle porte di
Ho Chi Minh City, mentre la Volkswagen ha posato gli occhi su Giakarta. E proprio ieri
la cinese Geely ha annunciato di voler aggredire il mercato dell'auto indonesiano
vendendo a 13.300 dollari il suo modello a cilindrata 1.500 che viene assemblato
direttamente in loco.
Tasselli. Con potenziale effetto domino: perché l'abbattimento delle tariffe tra Asean e
Cina non ha creato solo un'area da 1,8 miliardi di consumatori e 5.800 miliardi di Pil.
Sta anche ridisegnando la mappa della produzione: con aziende occidentali che
preferiscono il Sud-Est asiatico alla Cina per i loro nuovi investimenti. E addirittura con
i
cinesi
che
prendono
sul
serio
la
delocalizzazione
verso
Sud.
Per Tiziano Furlan, vicepresidente di Mda Consulting, la competizione si è inasprita:
«All'interno dell'Asean, Thailandia e Vietnam sono in prima fila quanto a capacità di
deviare il flusso degli investimenti. Sono entrambi paesi grandi, e sono
tecnologicamente abbastanza avanzati da entrare in competizione con la Cina. Anche
la Malaysia ha una discreta specializzazione tecnologica, ma è decisamente meno
popolosa rispetto agli altri due, che hanno un certo peso anche come consumatori».
Di nuovi percorsi produttivi si parla anche all'Asian development bank (Adb), ma qui
l'approccio si basa meno sulla competizione e più su un discorso di filiera integrata.
«Sarebbe semplicistico aspettarsi una migrazione della produzione dalla Cina ai paesi
Asean», sostiene Ganeshan Wignaraja, principal economist alla Banca per lo sviluppo
dell'Asia. E spiega che Pechino da tempo non è più solo bassi costi di manodopera
per una produzione di massa, ma anche tecnologia crescente, e una sempre
Pubblicato il 19 Gennaio 2010
maggiore conoscenza degli standard internazionali che stanno spostando la sua
capacità competitiva su un gradino più alto. La vera sfida dei paesi Asean non sta
dunque nel fare le scarpe alla Cina, ma nell'andare al suo traino: «Devono sapersi
inserire nel ciclo produttivo cinese, specializzandosi in una parte della manifattura –
dice Wignaraja –. Già oggi alcuni lo fanno: la Thailandia per l'auto (è chiamata la
Detroit dell'Asia), o la Malaysia per l'elettronica. Ma il traguardo sarà centrato solo se
si doteranno di infrastrutture energetiche e logistiche all'altezza». Pechino lo sa, che si
tratta di un gioco win-win, e per questo ha deciso di contribuire di tasca propria allo
sviluppo del Sud-Est asiatico: tra cooperazione e prestiti, nei prossimi due anni sono
in arrivo 25 miliardi di dollari.
Ma l'alleanza Cina-Asean conta anche una serie di detrattori. Tra questi il governo
dell'Indonesia, che è sceso in campo per proteggere le proprie industrie più obsolete
dalla concorrenza cinese. Qui l'italiana Perfetti opera fin dai primi anni 90, e non è
preocupata. «L'area di libero scambio tra Asean e Cina – racconta Luca Parodi,
vicepresidente della business unit Asia Pacific di Perfetti – per noi vuol dire aromi
meno cari del 15%. Quel che mi preoccupa, semmai, è l'implementazione
dell'abbattimento delle tariffe». Fattori burocratici da non sottovalutare, come ricorda
anche Alex Capri, partner Kpmg a Hong Kong: «Il fatto di operare in un paese che è
parte di un'area di libero scambio non significa che i vantaggi delle tariffe zero si
applichino a prescindere. A entrare in gioco sono le cosiddette regole d'origine, che
nel caso dell'area Cina-Asean impongono una soglia di produzione locale del 40%».
Significa che non basta venire qui per esportare a tariffa zero, ma bisogna anche
produrre - o cercare - in loco buona parte dei componenti del bene in questione.
La terza più grande area di libero scambio al mondo ridisegna infine gli equilibri del
continente asiatico. «L'India non perderà competitività – scommette Wignaraja –
perché ne beneficerà comunque attraverso l'accordo di libero scambio che ha con
l'Asean». I grossi accordi mancanti semmai sono altri, e riguardano la Cina con il
Giappone e con la Corea del Sud. «Se Tokyo – conclude l'economista dell'Adb – non
ha da temere dalla concorrenza cinese, perché la sua tecnologia è di livello davvero
alto, Seul invece rischia una competizione pesante. La Cina, del resto, fa già sentire il
suo fiato sul collo dei coreani nella cantieristica e nell'elettronica».
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