lezione “dalla teoria funzionalista ai cultural studies una prospettiva

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lezione “dalla teoria funzionalista ai cultural studies una prospettiva
LEZIONE
“DALLA TEORIA FUNZIONALISTA AI CULTURAL STUDIES:
UNA PROSPETTIVA SOCIOLOGICA”
PROF.SSA LUCIA MARTINIELLO
Indice
1
La teoria funzionalista .................................................................................................................................... 3
2
L’approccio degli usi e gratificazioni ........................................................................................................ 6
3
La teoria critica .................................................................................................................................................. 8
4
La teoria culturologica .................................................................................................................................. 12
5
Cultural Studies ............................................................................................................................................... 15
Bibliografia.................................................................................................................................................................. 18
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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1 La teoria funzionalista
Adottando una prospettiva storica nell’ambito delle teorie della comunicazione di massa, è
possibile individuare almeno due differenti tradizioni sociologiche: un filone di ricerca che si snoda
da Emile Durkheim a Talcott Parsons, comprendendo la ricerca amministrativa sui media ed una
seconda corrente di pensiero che si sviluppa attraverso la scuola di Chicago e gli studi di Walter
Benjamin, approdando ai cultural studies e alla ricerca etnografica sul consumo.
Il primo filone di ricerca, sviluppatosi in seno alla sociologia funzionalista, è stato inaugurato
da Parsons negli anni Trenta del Novecento, per poi procedere fino al neofunzionalismo di
Luhmann.
Durkheim 1 , dal quale Parsons è evidentemente ispirato, si rivela l’interprete di una sociologia
organicistica, che considera i fenomeni sociali come disgiunti dai soggetti che li rappresentano.
L’opera di Durkheim si concentra sulle istituzioni e sulle strutture formalizzate, considerando poco
significativi i processi di interazione tra gli individui. Tale insegnamento ha una notevole influenza
sull’analisi della comunicazione, favorendo approcci quantitativi ed approfondendo una sociologia
degli apparati e delle istituzioni.
Il funzionalismo di Parsons 2 concepisce la società come un sistema di parti interconnesse, in
grado da un lato di autoprodurre equilibrio al proprio interno e dall’altro di restaurarlo se perturbato.
All’interno di questa teoria, i media sono concepiti come un sottosistema del sistema-società,
cui sono demandate specifiche funzioni, finalizzate al mantenimento o al ristabilimento
dell’equilibrio del corpo sociale. Pertanto, il funzionalismo opera un significativo passaggio dallo
studio degli effetti dei media a quello delle funzioni svolte dai mezzi di comunicazione di massa
nella società.
Altrettanto significativo è il passaggio dallo studio di situazioni di “campagna”, tipico della
ricerca amministrativa, alla focalizzazione sulla normale presenza dei media nella società.
Naturalmente accanto alle funzioni, i sottosistemi possono essere occasione di disfunzioni
all’interno del sistema sociale di cui fanno parte. Si riconosceranno così al sottosistema dei media
1
Cfr. E. Durkheim, Le regole del metodo sociologico, trad. it. M. Prospero, Editori Riuniti, Roma 1996.
2
Cfr. T. Parsons, La struttura dell’azione sociale, trad. it. M. A. Giannone, Il Mulino, Bologna 1968.
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vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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specifiche funzioni e disfunzioni, rispetto al sistema sociale nel suo complesso come rispetto agli
individui che ne sono parte.
Tra le funzioni dei media in relazione all’individuo prevalgono ad esempio:
•
l’attribuzione di status e prestigio alle persone e ai gruppi cui i media dedicano
attenzione;
•
la possibilità di socializzazione;
•
l’aiuto nelle attività quotidiane.
Tra le funzioni dei media in relazione alla società predominano:
•
la mobilitazione in caso di pericolo;
•
la segnalazione delle priorità;
•
il mantenimento del consenso.
Accanto alle funzioni, si riconoscono anche le disfunzioni del sottosistema dei media sia in
relazione all’individuo che alla società.
Tra le disfunzioni relative all’individuo ricordiamo:
•
l’aumento dell’ansia;
•
l’eccesso di informazione, che comporta la cosiddetta disfunzione narcotizzante 3
relativa al fatto che l’eccesso di informazione confonde, disorienta e porta al
ripiegamento sulla vita privata;
•
3
il conformismo;
P. F. Lazarsfeld e R. K. Merton, Mass communication, popular taste and organized social action, New York, 1948.
La traduzione italiana di questo breve saggio scritto a quattro mani è stata inserita nella raccolta curata da V. Coppecchi,
P.F. Lazarsfeld, Metodologia e ricerca sociologica, Il Mulino, Bologna 1967.
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•
la standardizzazione dei gusti.
Tra le disfunzioni sulla società prevalgono:
•
il panico relativo alla diffusione di notizie allarmanti;
•
il pericolo determinato da flussi di informazione non controllati;
•
l’ostacolo ai cambiamenti.
In sintesi, la teoria funzionalista si fa apprezzare per il passaggio dallo studio degli effetti a
quello delle funzioni, con la conseguente apertura del dossier di ricerca sugli effetti a lungo termine.
Il suo limite è tuttavia la circoscritta considerazione della soggettività, determinata dalla
focalizzazione esclusiva sul gioco tra sistema e sottosistemi; non impropriamente si è definito
l’individuo dei funzionalisti un drogato culturale, teso unicamente a perseguire l’equilibrio del
sistema cui appartiene.
Niklas Luhmann amplia la prospettiva di Parsons, inserendo la comunicazione all’interno di
una visione ampia ed eterogenea. Ad esempio, il potere politico viene concepito come «un mezzo di
comunicazione sociale, cioè come un codice di simboli generalizzati che orienta il comportamento
degli individui» 4 .
Seguendo una famosa distinzione parsionana, Luhman distingue quattro aree all’interno del
sistema sociale:
1. l’area del sistema dell’economia, il cui strumento di comunicazione è il denaro;
2. l’area del sistema della famiglia, il cui strumento di comunicazione è l’amore;
3. l’area del sistema della scienza, il cui strumento di comunicazione è verità;
4. l’area del sistema del potere, il cui strumento di comunicazione è il potere.
Tale distinzione, mostra l’importanza che l’autore attribuisce alla comunicazione e alle
svariate funzioni che essa svolge nell’ambito sociale.
4
N. Luhmann, Stato di diritto e sistema sociale, Guida Editore, trad. it di F. Spalla, Napoli 1984, p. 17.
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2 L’approccio degli usi e gratificazioni
Fra la fine degli anni Cinquanta e la seconda metà degli anni Settanta, in ambito funzionalista
si sviluppa il paradigma di ricerca degli usi e gratificazioni. Esso muove dal presupposto che i
membri dell’audience usano i media per trovare gratificazione a determinati bisogni: la ricezione
viene dunque considerata un’attività dinamica. La gratificazione proveniente dalla fruizione non
deriva solo dai contenuti mediali, bensì dal tipo di esposizione e dal contesto sociale di consumo.
Fin dagli studi di Lasswell, gli studiosi avevano concentrato l’attenzione sugli effetti sociali
prodotti dalla comunicazione: la maggior parte delle ricerche si basava sugli effetti della
propaganda politica o pubblicitaria e sull’influenza esercitata dai media sull’opinione pubblica.
A partire da questa nuova prospettiva culturale, si sono sviluppate forme più articolate di
analisi del pubblico. In particolare le ricerche avviate sui bisogni individuali e sociali, soddisfatti
dalla fruizione dei media, mettono fin da subito in evidenza la relazione sinergica tra fruizione e
gratificazione. «L’approccio degli usi e gratificazioni si è occupato innanzitutto delle scelte, della
ricezione e del tipo di risposta dell’audience» 5 .
Nel 1973 Katz, Gurevitch e Haas 6 , elaborarono una classificazione dei bisogni, per gratificare
i quali le persone fanno ricorso ai media:
•
cognitivi, rendono più agevole l’acquisizione e il rafforzamento delle
conoscenze;
•
affettivi, rafforzano l’esperienza emotiva;
•
estetici, rafforzano l’esperienza estetica;
•
di evasione, favoriscono l’allentamento della tensione e dei conflitti;
•
integrativi a livello della personalità, incrementano la credibilità e lo status;
5
D. McQuail, Sociologia dei media, Il Mulino, Bologna 1996, p. 289.
6
Katz, E. Gurevitch, M e Haas, H., On the Use of Mass Media for Important Things, American Sociological Review
1973, p. 38.
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•
integrativi a livello sociale, rafforzano i contatti interpersonali.
Se durante gli anni Cinquanta, i ricercatori si occupano principalmente delle relazioni tra
bisogni soddisfatti dai media e la loro origine psicologica e sociale, con gli anni Settanta essi
spostano la loro attenzione sulle connessioni tra le aspettative dei fruitori e le modalità di
comportamento dei media.
McQuail riconosce che le gratificazioni possibili in relazione ai diversi tipi di esperienza sono
illimitate, ciononostante propone una categorizzazione delle interazioni media-persona,
identificando quattro classi:
•
informazione;
•
identità personale;
•
integrazione e interazione sociale;
•
intrattenimento.
L’approccio degli usi e gratificazioni scorpora pertanto il pubblico in categorie uniformi, pur
ritenendolo attivo durante la fruizione. Gli studi successivi, invece, cercheranno di individuare i
modi in cui diacronicamente l’esposizione mediale si relaziona ai processi e alle strutture sociopolitiche.
Ciò che manca a un approccio di questo tipo è l’attenzione alla dimensione rituale del
consumo, che non sempre risponde a un bisogno specifico; in modo simile, l’approccio degli usi e
gratificazioni si mostra cieco al contesto relazionale in cui si calano le occasioni di consumi. Sono
trascurate, infine, le dimensioni sociali ed ideologiche dei significati culturali a tutto vantaggio della
dimensione individuale e psicologica.
In sostanza, l’approccio degli usi e gratificazioni evidenzia un uso acritico della metodologia
di indagine, risultando eccessivamente rigido per comprendere con sufficiente chiarezza la
complessità del pubblico dei media.
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3 La teoria critica
Un terzo filone classico di ricerca sui media è rappresentato dalla teoria critica che assume
una posizione negativa nei confronti dei mass media e della ricerca amministrativa.
La teoria critica si identifica storicamente nel gruppo di studiosi, che ha fatto capo alla
Scuola di Francoforte e che fu costretta alla chiusura con l’avvento del nazismo. L’Istituto di
Francoforte fu riaperto nel 1950, quando ormai gli studiosi più rappresentativi – come ad esempio
Horkheimer e Adorno – si erano trasferiti in Francia e negli Stati Uniti.
Nel saggio Dialettica dell’illuminismo 7 Horkheimer e Adorno denunciano la regressione
umana e la creazione di una nuova mitologia tecnologica, con la conseguente crescita esponenziale
della violenza barbarica. Nella società di massa – chiaramente originata dalla razionalità
tecnocratica dell’Illuminismo – la cultura viene realizzata e diffusa come qualsiasi tipo di merce
all’interno dell’industria capitalistica. Il valore dell’opera d’arte è frutto della sua commerciabilità e
il valore d’uso si trasforma negativamente in valore di scambio.
La scuola di Francoforte critica aspramente la società e la cultura di massa; anzi, per questi
studiosi non si deve neppure parlare di cultura di massa (perché questa espressione potrebbe far
pensare ad una cultura che emerge spontaneamente dalle masse o ad una forma d’arte popolare) ma
di industria culturale, a sottolineare l’armonizzazione dei settori che costituiscono il sistema dei
media.
L’industria culturale è un sistema, guidato dalla razionalità tecnica e dalla logica del profitto.
Sotto le differenze dei diversi prodotti culturali c’è un’identità di fondo che sacrifica l’autonomia
del consumatore: una diversità di contenuti solo apparente che condiziona totalmente la fruizione e
la qualità del consumo.
Nella società di massa viene istituito un nesso inscindibile fra:
7
•
bisogni;
•
sistema produttivo;
Horkheimer T. W. e Adorno M., Dialettica dell’illuminismo, trad. it. R. Solmi, Einaudi,Torino 1966.
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•
tecnica;
•
dominio.
L’individuo diventa un consumatore passivo e la cultura non soddisfa più le esigenze
collettive di qualità, coscienza e consapevolezza critica, bensì mira all’incremento del capitale
investito. Il lavoratore stesso, nel suo tempo libero, è orientato alla produzione.
La produzione industriale di cultura toglie al soggetto la capacità di pensare autonomamente,
e ne annienta l’attività intellettiva, poiché tende a sostituirla con l’automatismo, la ripetitività e la
segmentazione, tratti tipici del processo produttivo. Tale riproducibilità stereotipata determina
l’annientamento di ogni differenza e di ogni capacità creativa della ragione. L’alienazione ingloba
l’individuo, senza che egli ne abbia la percezione esatta.
Il sistema domina l’individuo, ma si tratta di un dominio soft, molto pericoloso perché
annienta la coscienza individuale, conducendo lentamente all’appiattimento delle differenze e
all’adesione tacita e acritica ai valori imposti.
L’identità individuale viene gradualmente sostituita da una pseudo-individualità, favorita
dalla ubiquità, dalla ripetitività e dalla standardizzazione dell’industria culturale, che si rivela
singolare strumento di controllo psicologico.
In particolare, la standardizzazione dei prodotti e la stereotipizzazione dei generi
rappresentano la strategia più utilizzata dall’industria culturale per impedire l’attività interpretativa
dell’individuo. Lo stereotipo fissa la formula del prodotto ma prescrive, allo stesso tempo, le
modalità della fruizione: lo spettatore non si interroga sui contenuti che percepisce poiché lo
stereotipo già determina le modalità dell’attribuzione del senso ai messaggi. L’industria culturale
riflette, così, il meccanismo economico della società industriale avanzata, che è fondata sulla logica
della dominazione.
La teoria critica si oppone alla funzione ideologica delle scienze sociali e polemizza contro le
ricerche amministrative sui media perché queste ultime si occupano di come manipolare le masse,
rafforzando la logica della dominazione e anche perché tali ricerche si fondano sulle interviste agli
spettatori che, secondo gli studiosi della teoria critica, non sono attendibili in quanto già vittime
dell’industria culturale.
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Per Horkheimer e Adorno i prodotti dell’industria culturale sono il frutto della paralisi
dell’immaginazione e della spontaneità; essi sono costruiti per un consumo distratto (easy listening) prescrivendo le possibili reazioni e vietando, in tal modo, l’attività mentale dello spettatore.
La strategia di dominazione, che si cela dietro l’industria culturale e che è conseguenza
dell’ideologia capitalista, comporta, dunque, la realizzazione di prodotti standardizzati, di insistenti
messaggi nascosti e di generi che soddisfano le aspettative più grossolane del pubblico.
I messaggi dell’industria culturale sono stratificati, alternano e sovrappongono significati
manifesti e nascosti che incantano lo spettatore a vari livelli psicologici e che indirizzano le reazioni
del pubblico, conducendolo ad uno stato di asservimento. I prodotti dell’industria culturale
promettono la liberazione attraverso l’amusement, mentre in realtà il sistema ripropone sotto altre
forme i meccanismi produttivi del lavoro. Al processo lavorativo nella fabbrica e nell’ufficio si può
sfuggire solo adeguandosi all’ozio: l’uomo diventa un impiegato, rincorso dalla produzione
culturale fin nella sua più intima coscienza; quanto più crede di emanciparsi dal processo
lavorativo, tanto più ne rispecchia i presupposti, consumandone i prodotti culturali, la mercecinema, la merce-TV, la merce-musica, etc.
Il divertimento comporta una fuga dal pensiero che si fonda sull’impotenza e
sull’impossibilità di reazione. Per questa via, l’industria culturale decreta la morte dell’arte 8 e
costruisce una società a una dimensione 9 .
Diversa è la posizione di Walter Benjamin che, pur afferendo alla Scuola di Francoforte,
tende gradualmente a distaccarsene, elaborando una prospettiva maggiormente flessibile. Secondo
Benjamin 10 , l’intellettuale che intende schierarsi dalla parte del proletariato contro il capitalismo,
non si può limitare solo a condividerne la fede ideale, ma deve accettare la proletarizzazione del suo
lavoro e della sua stessa funzione intellettuale.
In questa prospettiva, la riproducibilità e la mercificazione dei prodotti culturali non appaiono
semplicemente come fattori degradati di forme estetiche elitarie, ma sono considerati risorse
potenziali per l’emancipazione della massa.
8
Hegel G.W.F., Arte e morte dell’arte. Percorso nelle Lezioni di Estetica, trad. it. di G. F. Frigo, Mondadori, Bologna
1997.
9
Marcuse H., L' uomo a una dimensione, trad. it. L. Gallino, Einaudi, Torino 1967.
10
Benjamin W., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa,trad. it. E.
Filippini, Einaudi, Torino 1991.
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Dalla fotografia al cinema, la riproducibilità tecnica fa perdere all’opera d’arte l’hic et nunc a
cui è legata la sua condizione di autenticità e su cui si sono fondati tradizionalmente il suo valore e
la sua funzione sacrale. La riproducibilità tecnica integra l’opera d’arte nel contesto di vita
quotidiana dei fruitori. Si dimostra emblematico il caso dell’architettura: la costruzione non si
contempla più dall’esterno, ma è vissuta dall’interno, in una dimensione pratica e funzionale.
Da oggetto di culto e di prassi rituale, l’arte si evolve in un elemento dell’ambiente
quotidiano, in uno strumento di prassi politica e di rivendicazione sociale.
Insieme al superamento del concetto di arte come momento di somma creatività del genio
artistico, il processo di industrializzazione della cultura comporta l’estensione della facoltà di
espressione a larghi strati di persone, tradizionalmente confinate nel ruolo passivo del pubblico.
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4 La teoria culturologica
La teoria culturologica si sviluppa in due filoni, uno francese che ha un suo rappresentante di
spicco in Edgard Morin e uno inglese che si sviluppa nella prospettiva della Scuola di Birmingham.
La scuola francese di Morin si propone di studiare gli elementi antropologici più rilevanti
della cultura di massa. La cultura non è considerata come un insieme statico di idee o di testi ma
come un processo sociale di continua produzione, distribuzione e consumo.
Morin 11 ridimensiona il ruolo della cultura elitaria: se da un lato critica l’egemonia valoriale
degli Stati Uniti e la sua influenza nel consumo europeo, dall’altro considera la cultura industriale
l’unico grande terreno di comunicazione tra classi sociali e culture diverse e, quindi, l’unico
esempio di cultura universale della storia dell’umanità.
Le nostre società sono realtà policulturali, ma la cultura di massa è il più diffuso sistema
culturale del nostro tempo e ne riflette lo spirito. Per questo motivo, essa va analizzata con un
metodo della totalità, come complesso di cultura, storia e civiltà. La cultura di massa è costituita da
un insieme coerente di simboli e di valori, espressi attraverso linguaggi polisemici che creano
l’immaginario collettivo. «L’immaginario si struttura secondo alcuni archetipi: ci sono dei modelliguida dello spirito umano, che ordinano i sogni, e particolarmente quei sogni razionalizzati che
sono i temi mitici o romanzeschi» 12 .
L’industria culturale produce prodotti industriali con l’esigenza di conciliare la
standardizzazione con l’innovazione: l’industria culturale produce, è vero, prodotti standardizzati e
stereotipati, ma l’innovazione non è completamente soffocata in quanto anche lo standard richiede
di essere continuamente arricchito con punte di originalità.
La conciliazione di queste due esigenze contrapposte si riflette anche sulla struttura della
produzione che, per alimentare lo standard con elementi originali, si orienta verso l’autonomia dei
ruoli creativi, verso la decentralizzazione e la concorrenza.
11
Cfr. Morin E., Lo spirito del tempo, trad. it. di A. Carpi, Meltemi, Roma 2005.
12
Morin E., L’industria culturale, Il Mulino, Bologna 1963, p. 55.
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Archetipo, o
struttura ultima
di senso
Mito, o
organizzazione
narrativa degli archetipi
Immaginazione sociale:
connette
l’esperienza agli archetipi
Stereotipi
Immaginazione sociale:
connette
l’esperienza agli archetipi
Stereotipi
Stereotipi
Stereotipi
Figura 1. La struttura dell’immaginario, secondo Edgar Morin.
«La cultura di massa si costituisce in funzione dei bisogni individuali emergenti. Fornisce alla
vita privata le immagini e i modelli che danno forma alle sue aspirazioni. Alcune di queste
aspirazioni non possono appagarsi nelle grandi città civilizzate […]; in questi casi la cultura di
massa provvede a un’evasione per procura verso un universo in cui regnano l’avventura, il
movimento, l’azione sfrenata, la libertà; non la libertà nel senso politico, ma la libertà nel senso
individuale, affettivo, intimo, del realizzarsi dei bisogni o degli istinti inibiti o proibiti […]. Una
gigantesca ventata dall’immaginario verso il reale tende a proporre miti di autorealizzazione, eroi
modelli, un’ideologia e dei consigli pratici per la vita privata. Se si considera che ormai l’uomo
delle società occidentali fonda sempre più le sue preoccupazioni sul benessere e l’elevazione sociale
da una parte, sull’amore e sulla felicità dall’altra, la cultura di massa fornisce i miti conduttori delle
aspirazioni private della collettività. […] I mass media hanno divulgato nella coscienza popolare la
consapevolezza di ciò che costituisce una buona vita. Rendendo familiare questa buona vita, i mass
media l’hanno fatta apparire tanto possibile quanto desiderabile per le masse» 13 .
13
Morin E., L’industria culturale, Il Mulino, Bologna 1963, p. 104.
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I prodotti della cultura di massa sono caratterizzati dal sincretismo: essendo essi destinati al
consumo di massa, i produttori devono cercare un comune denominatore per omogeneizzare
contenuti e fonti diverse. Tuttavia, il dialogo tra produttore e consumatore rimane asimmetrico: il
produttore è un prolisso che racconta le storie che il consumatore muto ascolta.
Le differenze individuali sono appiattite nella comune adesione ai valori di consumo, che è il
sostrato della cultura di massa. Accanto all’etica del consumo, predomina l’etica del loisir, cioè
l’etica del tempo libero: il consumo dei prodotti diviene soddisfacimento dei bisogni di
autorealizzazione; la cultura di massa soddisfa, in questo modo, bisogni privati, affettivi e materiali.
Per Morin, la conciliazione della standardizzazione con l’innovazione, il carattere sincretico
dei prodotti e l’adesione agli stessi valori di consumo conduce alla semplificazione, alla
banalizzazione e alimenta la vita irreale dei consumatori che divengono fantasmi che proiettano la
loro anima nei doppi 14 che vivono al loro posto.
14
Cfr. Morin E., L’uomo e la morte, trad. it. da A. Perri e L. Pacelli, Meltemi, Roma 2002.
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5 Cultural Studies
Nel 1932 nasce la rivista Scrutiny, che si posiziona programmaticamente sul versante di chi
intende analizzare i fenomeni letterari evitando il ricorso alla semplice distinzione tra cultura
elitaria e cultura di massa. Intorno a questa rivista, cominciano ben presto a lavorare molti studiosi,
tra cui spicca il critico letterario Frank Raymond Leavis, padre del New Criticism inglese.
Leavis aveva pubblicato nel 1930 il saggio Mass Civilization and Minority Culture 15 che si
schierava in difesa della cultura commerciale. La posizione di Leavis determina una inaspettata
rottura con la tradizionale analisi letteraria, concentrandosi sulle variabili socio-culturali soggiacenti
al testo e soprattutto sullo studio dei meccanismi di produzione di senso.
Leavis, in sostanza, si oppone al funzionalismo inaugurando un differente approccio ai
fenomeni culturali.
La svolta che conduce alla nascita dei cultural studies avviene, però, in due step: nel 1958
Raymond Williams pubblica Culture and Society 16 nel quale stigmatizza la disgiunzione tra società
e cultura e, pochi anni più tardi, nel 1964 viene fondato il Center of Contemporany Culture Studies
(CCCS) che diventerà famosissimo come Scuola di Birmingham. La direzione di Stuart Hall, in
particolare, connoterà significativamente la scuola, grazie all’influenza dello strutturalismo. Per tutti
gli anni Settanta, infatti, la diatriba tra strutturalisti e culturalisti caratterizzerà l’andamento
culturale nel centro di studi.
Gli strutturalisti considerano la cultura come il primario oggetto di studio dell’epoca
contemporanea, mentre i culturalisti pongono l’accento sulle forme culturali distinte e sui diversi
mezzi di comunicazione.
A partire dalla seconda metà degli anni settanta, le idee guida dei cultural studies vengono
assorbite, attraverso la mediazione del pragmatismo, dall’intera classe culturale statunitense.
15
Cfr. Leavis F. R., Mass Civilization and Minority Culture, London, Art Books International, 1930.
16
Williams R., Culture and Society 1780-1950, London and New York, Columbia University Press, 1958.
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La Scuola di Birmingham considera la comunicazione in modo estensivo, essa non
comprende solo i mass media ma anche istituzioni e pratiche sociali (come la religione, lo sport,
l’educazione etc.) e afferma la necessità di analizzare la cultura entro le condizioni materiali e il
processo storico che ha generato le strutture del potere. La cultura passa attraverso tutte le pratiche
sociali. I media, in particolare, hanno la funzione di attivare quelle pratiche che portano alla
creazione dei significati e dei valori collettivi, costruendo i framework (le strutture interpretative)
attraverso i quali percepiamo la realtà.
Ogni messaggio è un testo polisemico che il fruitore contribuisce attivamente a costruire. Il
contributo fondamentale della Scuola di Birmingham sta proprio nell’avere evidenziato la natura
polisemica del testo, mostrando come un prodotto mediale (un film, un articolo di giornale, e così
via) sia oggetto di interpretazioni molto diverse con il variare delle condizioni socioculturali degli
spettatori.
Con i cultural studies, quindi, viene accettata la centralità del pubblico come agente positivo
nella costruzione sociale della realtà. Studi in questo senso hanno mostrato che il rapporto tra
emittente e ricevente può perfino ribaltarsi, in quanto la trasmissione di un messaggio mediale deve
essere valutata in base alla sua pertinenza rispetto alle condizioni culturali del pubblico.
Questo sistema di pertinenze precede il momento dell'emissione: ad esempio, una famiglia
operaia ha un suo quadro di pertinenze (che i media contribuiscono a definire, ma non esauriscono)
costituito dagli argomenti verso i quali i suoi componenti hanno maggiore sensibilità.
La comunicazione, quindi, è efficace soltanto quando i suoi contenuti sono conciliabili con il
profilo culturale del pubblico (o meglio, dei pubblici). Questo orientamento, a differenza della
tradizionale communication research, preferisce effettuare ricerche sulla base di metodi qualitativi
tipici della ricerca etnografica, che, però, offrono risultati meno rigorosi dei quelli quantitativi e
sono più sensibili alle distorsioni involontarie da parte dei ricercatori.
Riassumendo in forma schematica i fondamenti teorici del cultural studies, è possibile
individuare quattro concetti chiave:
•
ideologia;
•
egemonia, secondo la prospettiva di Gramsci e correlata al concetto di cultura
popolare;
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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•
autonomia della cultura e dell’ideologia;
•
genere, inteso come modalità di fruizione e come pratica d’uso dei testi massmediatici.
In particolare, il concetto di ideologia riguarda «il rapporto vissuto dagli uomini col loro
mondo. Questo rapporto non si rivela cosciente […]. L’ideologia è l’espressione del rapporto degli
uomini con il loro mondo, ossia l’unità del loro rapporto reale e del loro rapporto immaginario con
le loro reali condizioni di esistenza» 17 .
In secondo luogo, per egemonia si intende un sistema di idee dominanti che permeano una
società, ma in modo tale da far sembrare naturale l’assetto del potere in vigore. L’ideologia
dominante non è imposta, bensì viene percepita come conseguenza di un potere indiscusso. I
ricercatori dei cultural studies hanno ritenuto insufficienti le teorie che considerano la cultura
popolare una forma degradata di cultura, determinata dal capitalismo e dall’industrializzazione.
Essa viene vista come il frutto di continue mediazioni e scambi comunicativi tra fenomeni di
resistenza e processi di assimilazione nella cultura dominante.
Dal punto di vista dell’analisi mediatica, i mass media non riflettono un consenso già presente
a livello sociale ma vi partecipano alla costruzione, anche se tale consenso si articola liberamente.
Pertanto, il ruolo dei mezzi di comunicazione di massa è determinante nella costruzione del
consenso, ma non può ridursi ad un banale computo coercitivo e manipolatorio. Il consenso, infatti,
si articola in modo autonomo, seguendo molteplici canali e sfociando in differenti esiti.
Infine, il concetto di genere riguarda la modalità organizzativa dei palinsesti, strumento di
segmentazione e qualificazione dell’audience. Il genere, così inteso, rispecchia l’identità dei
produttori e dei fruitori dei contenuti mediatici.
17
Althusser L., Per Marx, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 209.
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(L. 22.04.1941/n. 633)
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(L. 22.04.1941/n. 633)
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