Come gestire i dipendenti difficili

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Come gestire i dipendenti difficili
Come gestire i dipendenti difficili
di Roberto Merlini – Consulente di direzione
Oggigiorno i ritmi e le condizioni di lavoro producono
spesso malcontento tra i lavoratori: la loro sofferenza,
unita ad una conduzione poco responsabile
dell’azienda, può generare dipendenti demotivati,
stanchi e inefficienti, con gravi ripercussioni sulla
produttività. Il ruolo del responsabile dell’Ufficio
personale diventa dunque decisivo: egli deve agire sul
miglioramento del clima aziendale e sull’aumento della
trasparenza e della meritocrazia
Chi è e come si riconosce il dipendente difficile
Per chi lavora nel Personale, gestire i dipendenti difficili è uno dei compiti più stimolanti e al tempo
stesso tempo più delicati. Cercare di ottimizzare i rapporti organizzativi a livello individuale
significa entrare nelle dinamiche interpersonali del rapporto capo-dipendente in un’ottica molto più
ampia rispetto alla classica azione disciplinare. Quest’ultima scatta di fronte alla violazione di un
comportamento vietato dal Ccnl e/o dal regolamento aziendale, e si concreta in un processo
altamente formalizzato, destinato a concludersi con una sanzione proporzionata alla gravità
dell’infrazione. Il ruolo dell’Ufficio personale (o Risorse umane, che dir si voglia) è quello di
“giudice” del comportamento non contrattuale messo in atto dal dipendente. C’è un comportamento
che va contro il dettato del contratto o del regolamento, viene contestato formalmente al lavoratore
che l’ha tenuto, e sulla base delle sue giustificazioni viene sanzionato con un provvedimento che
può andare dal richiamo verbale al licenziamento in tronco, secondo una graduazione commisurata
alle circostanze specifiche, alla recidività e all’incidenza del fatto sul rapporto organizzativo e
fiduciario con l’azienda. I dipendenti difficili non fanno quasi mai cose che rientrano nel campo di
applicazione del processo disciplinare. Il loro comportamento, per intenderci, è più cronico che
acuto: prima di sfociare in un illecito disciplinare si concreta generalmente in un malessere
operativo e relazionale che è fonte di disagio, tensione e soprattutto inefficienza.
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Bisogna essere chiari su questo punto: il dipendente scorbutico che fa il suo dovere o mal sopporta
un clima gerarchico è certamente sgradito al capo e forse anche ai colleghi, ma tecnicamente non è
un dipendente difficile. Non è semplice farlo capire a certi manager, abituati al pugno di ferro e
all’obbedienza “pronta, cieca e assoluta”, ma è così: il dipendente problematico si considera tale in
quanto obiettivamente inefficiente. C’è tutta una serie di sintomi che denunciano un problema di
performance.
1. Diminuzione del rendimento: la quantità e/o la qualità del lavoro svolto diminuisce o
peggiora, le vendite o la produzione scendono al di sotto del livello normale, misurato in termini
quantitativi; più complicato, ma non impossibile, rilevare il peggioramento intervenuto nella
prestazione di un collaboratore impiegato in attività di staff.
2. Scadenze non rispettate: gli incarichi e/o i progetti vengono terminati in ritardo o non vengono
portati a compimento.
3. Poco spirito di iniziativa: il dipendente non inizia a lavorare se non viene spronato o se non
riceve dei solleciti.
4. Nessun incarico difficile: il dipendente rimanda i lavori più difficili o se ne lamenta, cercando
spesso di “girare” il compito a qualcun altro.
5. Aumento delle lamentele: il dipendente ritiene che le decisioni adottate, le azioni intraprese, le
iniziative di cambiamento introdotte, ecc. siano quasi sempre sbagliate.
6. Diminuzione dell’interazione organizzativa: il dipendente diventa silenzioso alle riunioni o
tende a lavorare sempre più spesso in solitudine.
7. Difficoltà nel rispettare e/o accettare le direttive: le istruzioni devono essere ripetute spesso;
il dipendente adduce frequentemente ragioni per declinare determinati incarichi.
8. Aumento dell’irritabilità o tendenza a mantenersi sulla difensiva: diventa più difficile
conversare in modo pacato e razionale con questo dipendente; i cambiamenti di umore si fanno
più accentuati.
9. Diminuzione della collaborazione: diventa più difficile andare d’accordo e collaborare con gli
altri dipendenti; insorgono i primi conflitti.
10. Scaricare sugli altri la colpa degli errori e degli insuccessi: il dipendente non accetta la
responsabilità delle proprie azioni e trova facilmente da ridire sugli altri.
11. Aumento delle assenze dalla propria postazione: il dipendente “si imbosca” e spesso non si
sa dove trovarlo.
12. Frequente feedback negativo ricevuto dagli altri: altri dipendenti o clienti vi informano delle
difficoltà che incontrano e delle delusioni che sperimentano quando interagiscono con il
dipendente.
13. Aumento dell’assenteismo e/o dei ritardi.
Il ruolo del direttore delle Risorse umane
È un quadro sintomatico molto chiaro, che denuncia la presenza di problemi personali od
organizzativi. C’è un dato oggettivo che attesta il diminuito rendimento del lavoratore, e qui entra
utilmente in gioco lo specialista delle Risorse umane, nel doppio ruolo di analista ed educatore:
deve analizzare le ragioni del problema ed educare il capo a gestire il collaboratore “difficile”. In
una organizzazione che si rispetti, i manager sono tenuti a utilizzare al meglio le risorse –
finanziarie, tecniche e umane – che hanno a disposizione; di fronte alla performance insoddisfacente
del dipendente, devono intraprendere azioni metodologicamente corrette e rispettose dei valori
aziendali, per riportarne la performance su livelli accettabili. Bisogna però prima capire e poi agire.
Capire significa accertarsi che il dipendente problematico non si trovi a svolgere un lavoro inadatto
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alle sue caratteristiche, cosa che accade molto più comunemente di quanto si pensi, specie quando
dei collaboratori tecnicamente validi vengono promossi a compiti manageriali.
Significa accertarsi che non sia la natura del compito a rendere problematico il collaboratore. In
molte aziende ci sono delle posizioni “istituzionalmente” sgradevoli (penso per esempio al
responsabile dell’auditing interno, inteso come asfissiante controllo sulle procedure in un’ottica di
diffidenza generalizzata verso i dipendenti) che comportano, a gioco lungo, una caduta della
tensione produttiva, dovuta spesso a difficoltà relazionali. Significa analizzare le dinamiche di
gruppo, che potrebbero avere un peso rilevante, dando vita a relazioni disfunzionali (la più tipica
delle quali è l’emergere di leader naturali che sono in realtà dei prepotenti a caccia di “vittime”
arrendevoli). Significa naturalmente appurare che il dipendente difficile non stia vivendo nel privato
una situazione angosciosa (conflitto con il coniuge o con i figli, malattia di un congiunto, difficoltà
finanziarie, sfratto, etc.) che non può non riverberarsi sull’efficienza lavorativa.
Le colpe dell’azienda
Quando parlo di ruolo educativo del rappresentante della funzione Risorse umane intendo dire che
in questi casi – diversamente da quanto avviene nel processo disciplinare – il suo ruolo è più
indiretto, più da ascoltatore; sarà il responsabile della funzione, una volta analizzata la situazione,
ad adottare le misure necessarie, che almeno inizialmente non dovrebbero essere punitive. La
corretta diagnosi del problema, che va incentrata sul comportamento e non sulla persona, induce la
terapia corretta:
- portare il problema allo scoperto, superando gli equivoci e i malintesi;
- intervenire sulle cause, che una volta identificate vanno per quanto possibile rimosse;
- concordare le regole di base per una corretta comunicazione tra capo e dipendente, ma anche
tra il dipendente “difficile” e i suoi colleghi;
- agire prontamente – ma sempre in chiave costruttiva e mai punitiva – al primo insorgere di
comportamenti improduttivi.
Non è certo un caso se oggi i dipendenti problematici sono più numerosi che mai. Le ragioni
fondamentali (non lo dico io, ma R. Brayton Bowen, un noto consulente americano intervistato
alcuni anni fa dalla Harvard Management Update) sono sostanzialmente tre, che si combinano
spesso in un cocktail micidiale per la salute delle persone e per quella delle organizzazioni:
- i licenziamenti, ossia la perdita (anche solo minacciata) del posto;
- la pressione per fare di più con meno, ossia la perdita di risorse;
- la deresponsabilizzazione, ossia la perdita del controllo sul lavoro da fare.
Ne aggiungerei una quarta: lo scadimento delle relazioni interpersonali, sia orizzontali che verticali,
ossia la perdita di un reale interesse per le persone, viste sempre più solo e soltanto come mezzi di
produzione e/o di potere.
Soluzioni per evitare che l’azienda crei “disobbedienti”
Brayton Bowen dice una frase che spiega molto: “La logica del business ha portato a questo: il
maggior utilizzo di collaboratori a termine, occasionali, flessibili ecc. è la conferma che viviamo in
una società ‘usa e getta’. In pratica i lavoratori vengono considerati delle commodity a perdere,
anziché le preziose e coccolate risorse di cui parlano insinceramente i Ceo”. È un giudizio molto
duro, che spiega tanti casi di comportamenti disfunzionali.
Le aziende che credono veramente nell’importanza delle risorse umane possono fare diverse cose
per minimizzare il problema endemico dei dipendenti difficili. Provo ad elencarle:
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monitorare regolarmente il clima interno, informando onestamente il personale dei risultati e
implementando le necessarie azioni di miglioramento;
- fare formazione ai manager sul rapporto capo-dipendente;
- creare una cultura imperniata sulla trasparenza e sulla promozione dei comportamenti
produttivi, con esplicitazione di valori su cui si fonda; si tratta di un punto particolarmente
importante, perché lo scollamento tra cultura dichiarata (tutte le aziende si dicono
democratiche e decise a fare in modo che i collaboratori diano il meglio di sé) e cultura agita
(esistono sempre sacche più o meno consistenti di autoritarismo acritico) è causa diffusa di
malessere organizzativo;
- avvalersi di risorse professionali per la diagnosi e la soluzione dei problemi, individuali e
collettivi, che stanno dietro il comportamento dei dipendenti problematici; mi riferisco in
particolare, rispettivamente, ai servizi di assistentato sociale (l’Issim, Istituto per i servizi
sociali d’impresa, fa un ottimo lavoro in questo campo) e alle unità di diagnosi
organizzativa.
Nella mia esperienza manageriale ho visto all’opera con alterni risultati una di queste unità,
costituita presso la Direzione del personale di una grande multinazionale. Gli intenti erano lodevoli:
analizzare professionalmente la situazione di disagio organizzativo, causata il più delle volte dal
comportamento improduttivo del dipendente, proporre e implementare l’intervento “terapeutico”. I
risultati si possono definire alterni perché anche in quella realtà avanzata era davvero difficile dare
torto al capo e ragione al dipendente.
Gira e rigira, il problema dei dipendenti difficili si riallaccia in qualche modo alla cultura effettiva
dell’azienda e al suo stile di management. Un conto è mettere doverosamente rimedio a un
comportamento operativo sottoperformante; un altro conto è leggere come tale quello che in realtà è
il tentativo insopprimibile di perseguire l’auto-espressione all’interno di strutture ancora permeate,
nonostante l’avvento dell’era postindustriale e il radicale mutamento della forza lavoro, da una
logica fordista che premia l’obbedienza acritica e punisce la “disobbedienza” critica.
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