Un approccio “operativo” alla motivazione dei collaboratori

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Un approccio “operativo” alla motivazione dei collaboratori
Un approccio “operativo” alla motivazione dei
collaboratori
di Roberto Merlini – Consulente di direzione
La motivazione è un ingrediente fondamentale della
performance lavorativa. Ecco perché investire nella
motivazione dei collaboratori può fare la differenza per
l’azienda. E’ qui che la direzione del personale può
dare un contributo fondamentale, ma deve essere
autorevole, ascoltata e orientata allo sviluppo.
Alcuni principi guida per un approccio operativo alla
motivazione dei collaboratori
Difficile dire qualcosa di veramente nuovo sulla motivazione, un tema “alto” su cui su cui si sono
cimentati grandi studiosi, e che continua ad affascinare manager e ricercatori. Dalla scala dei
bisogni di Maslow alla teoria di Herzberg, che distingue – come molti ricorderanno – i fattori
igienici (la cui assenza genera demotivazione) dai fattori motivanti veri e propri, possiamo
comunque estrapolare alcuni principi-guida per un approccio “operativo” alla motivazione dei
collaboratori:
- i dipendenti motivati e stimolati sono più produttivi;
- la sicurezza del posto è un fattore igienico;
- senza autostima non c’è motivazione;
- la retribuzione motiva non poco, ma per poco.
Sono principi importanti, che alcuni non conoscono e molti sottovalutano, specie in tempi di crisi e
di tagli all’occupazione. E che invece andrebbero conosciuti e interiorizzati dai manager in quanto
gestori di risorse, anche e soprattutto umane.
Tratto da L’informatore INAZ 1/2007
1
La motivazione è affettività applicata
C’è una definizione, coniata dal professor Vaccani della Bocconi, che mi piace moltissimo per la
sua straordinaria concisione: “La motivazione è affettività applicata”. Alla base c’è l’idea che il
contributo attivo dei dipendenti non si possa massimizzare e promuovere senza una partecipazione
emotiva che coinvolge la sfera affettiva. Ma è un’affettività particolare, che non ha nulla a che
vedere con il pernicioso legame paternalistico. Tutt’altro. Per come la interpreto io, questa
affettività ha una doppia valenza: far crescere il collaboratore per migliorare la sua performance e
quella dell’organizzazione. Dunque ha una dimensione di apprendimento e di sviluppo che
andrebbe tenuta costantemente presente. Non implica quell’affetto filiale che potrebbe far perdere
di vista le ineludibili implicazioni produttivistiche del rapporto di lavoro. Implica invece un
obbligo, non solo morale, di far crescere professionalmente il dipendente in un’ottica di
“employability” (una parola alla moda che non dovrebbe essere solo un elegante eufemismo per
“precarietà”) che trascende l’operatività immediata.
L’employability non è la risposta
Un doveroso inciso sull’employability, dipinta da molti come la nuova frontiera dell’occupazione e
teorizzata molto più di quanto non venga agita. A fronte dell’impossibilità di garantire al dipendente
l’impiego a vita, il datore di lavoro si impegna a dargli quella formazione continua – teorica e
pratica – che dovrebbe assicurargli una costante appetibilità sul mercato. Giudichino i lettori se si
tratta di realtà o di utopia. Anche nelle imprese più avanzate, la formazione professionale appare
ancora ben lontana da questo tipo di finalizzazione: è legata, com’è logico, alla operatività
immediata e se va bene allo sviluppo interno nel medio termine. Sarebbe assurdo che le aziende
formassero i collaboratori con l’idea di perderli. Succede già, per una dinamica spontanea, che in
presenza di una motivazione inadeguata o di prospettive – organizzative e/o personali – incerte, i
dipendenti che hanno più mercato se ne vadano spontaneamente. In buona sostanza, rotto il
contratto psicologico che si fondava sulla stabilità del rapporto, le imprese devono fare i conti con il
turnover sempre più elevato dei collaboratori professionali. Evidentemente (lo dice Charles Handy,
uno grandi pensatori di management) l’employability non è la risposta.
Un ingrediente fondamentale della performance lavorativa
Ma che cos’è la motivazione? Possiamo descriverla come un orientamento verso qualcosa
(motivazione positiva) o come una spinta che allontana da qualcosa (motivazione negativa o
demotivazione). E contrariamente a quanto pensano molti manager “pragmatici” (o per meglio dire
semplificatori), la motivazione non è un “di più”, un elemento che si aggiunge – se si può – alla
controprestazione retributiva. È un ingrediente fondamentale della performance lavorativa. Come si
vede nella figura 1, la capacità professionale non basta a produrre un output soddisfacente se non si
abbina a una motivazione elevata.
Figura 1 - La performance individuale
Performance = Capacità x motivazione
Alta
1.2
CAPACITÀ
1.1
Bassa
Bassa
MOTIVAZIONE
Tratto da L’informatore INAZ 1/2007
2.2
2.1
Alta
2
La figura è auto esplicativa: il collaboratore ad alta capacità e bassa motivazione (casella 1.2 della
matrice) è una risorsa che rende meno del dovuto, mentre il collaboratore a bassa capacità e bassa
motivazione (casella 1.1) è una risorsa (si fa per dire) “a perdere”. Sempre più rari, sfortunatamente,
sono gli abitatori della casella 2.2 (alta capacità e alta motivazione). É evidente pertanto che
l’investimento nella motivazione dei collaboratori professionali può fare la differenza per l’azienda.
Con buona pace di quei dirigenti che la considerano poco più di un orpello, o pensano che i soldi
siano tutto.
Tanto più che se si incrociano su due assi cartesiani la soddisfazione-insoddisfazione e la reattivitàpassività (figura 2) si ha, per così dire, la prova del nove.
Figura 2 - Due componenti degli atteggiamenti sociali
REATTIVITÀ
Voglia di migliorare, di fare, di progredire
Rapidità di risposta agli stimoli esterni e interni
Impegno e orientamento al rischio
Malcontenti attivi
Soddisfatti reattivi
INSODDISFAZIONE
SODDISFAZIONE
Retribuzione
Comodità
Sicurezza
Malcontenti passivi
Soddisfatti passivi
PASSIVITÀ
Due osservazioni meno lapalissiane di quel che può sembrare a prima vista, sempre a beneficio dei
manager semplificatori di cui sopra:
1)
per essere produttiva, la soddisfazione (frutto della motivazione) deve accompagnarsi alla
reattività, che va adeguatamente stimolata;
2)
l’insoddisfazione abbinata alla passività genera un atteggiamento tanto diffuso e pericoloso
quanto sottovalutato; il fatto che gli scontenti non si lamentino va considerato di per sé un segnale
di demotivazione, ancora più grave dell’aperta manifestazione del malcontento. Ma per accettare
l’espressione dello scontento occorre una cultura della trasparenza che in molte realtà è ancora di là
da venire.
Il ruolo della direzione del personale
Quando si parla di motivazione in senso tecnico, bisogna tener presente alcuni principi
fondamentali:
- le motivazioni umane differiscono da una cultura all’altra e da una persona all’altra (o
quantomeno da una categoria professionale all’altra);
- motivazioni simili possono manifestarsi per mezzo di comportamenti dissimili;
- motivazioni diverse possono esprimersi con comportamenti analoghi;
- le motivazioni si manifestano spesso in forma “mascherata”: l’oggetto apparente sottende un altro
oggetto, più alto e di più lungo periodo.
Tratto da L’informatore INAZ 1/2007
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Sono valide ragioni per accostarsi alla motivazione dei collaboratori con un approccio
professionale, basato su una segmentazione per categorie professionali, se non addirittura sulla
individualizzazione, dei dipendenti. È qui che la direzione del personale può dare un contributo
fondamentale. Ma dev’essere autorevole, ascoltata e orientata allo sviluppo. Insomma, non
dev’essere un ente di conservazione, un’emanazione - di nome o di fatto - della direzione
amministrativa.
Alcuni fattori critici di motivazione
Nella mia esperienza professionale e consulenziale ho individuato una serie di fattori critici di
motivazione, che vado a elencare in ordine rigorosamente alfabetico:
- ambiente fisico;
- ambiente psicologico;
- autonomia e responsabilità (potere e status);
- contenuto professionale;
- retribuzione.
Sono dei “titoli” a cui va dato un significato concreto.
L’ambiente fisico
L’ambiente fisico è quello in cui deve operare quotidianamente il lavoratore. Rumorosità, caldo,
freddo, fumo (prima dei recenti divieti), sovraffollamento, scarsa igiene, mancanza di privacy
connotano degli ambienti fisici demotivanti. Ricordo di aver visitato una fabbrica tessile penalizzata
da un assenteismo da record: vi regnavano un rumore assordante, un caldo da tropici da maggio a
ottobre e un freddo barbino da novembre a marzo. Facile individuare le cause del problema; molto
più difficile convincere la direzione a effettuare i necessari investimenti.
L’ambiente psicologico
L’ambiente psicologico è un macro-contenitore in cui stanno tutti gli elementi che connotano gli
aspetti relazionali e di potere del rapporto di lavoro: stile di leadership, stile di management,
sicurezza, trasparenza, disciplina, prospettive di crescita e/o di carriera, rapporti sociali, relazioni
orizzontali e verticali, criteri di valutazione, democrazia interna, orientamento strategico,
comunicazione, leve extraretributive del sistema premiante, cultura aziendale, etc. In due parole,
clima interno.
Autonomia e responsabilità
Autonomia e responsabilità sono gli elementi critici che consentono l’effettiva estrinsecazione delle
capacità. Vengono limitate o esaltate dalla natura della mansione, dal ruolo gerarchico, dal grado di
supervisione, dalle risorse a disposizione e dalla politica aziendale nel suo complesso. Vanno (o
dovrebbero andare) a braccetto con il potere e con lo status. Dove c’è autonomia senza
responsabilità, o peggio responsabilità senza autonomia, si crea una situazione disfunzionale e
gravemente demotivante. Il potere, inteso come dotazione di risorse, è una condizione di
funzionamento per il buon esercizio del ruolo manageriale. Se manca o se è eccessivo, siamo in
presenza di una situazione pericolosa e potenzialmente demotivante; nel primo caso per il manager
e nel secondo per i dipendenti.
Tratto da L’informatore INAZ 1/2007
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Il contenuto professionale
Per contenuto professionale si intende il grado di complessità, articolazione, difficoltà (intellettuale
o manuale) e soggettività del compito. La povertà del contenuto professionale è un tipico fattore di
demotivazione.
La retribuzione
Quanto alla retribuzione, senza disconoscerne la fondamentale importanza, vale la pena di ricordare
che (vedi sopra) in base alla teoria di Herzberg, è un fattore igienico e motiva non poco, ma per
poco. La retribuzione dipende in buona sostanza dal concorso di tre fattori: performance
individuale, mercato e politica retributiva aziendale. Pagando il collaboratore meno del dovuto si
corre il rischio di perderlo, e pagandolo più del dovuto non si ha la certezza di trattenerlo se non
intervengono altri fattori motivanti (autonomia, responsabilità, ambiente psicologico positivo, etc.).
Una graduatoria dei fattori critici per categorie di lavoratori
Come ho detto prima, per gestire la motivazione dei collaboratori, occorre segmentarli per categorie
omogenee: operai generici, operai specializzati, impiegati, manager e professional.
Con tutti i limiti delle generalizzazioni, si può ipotizzare un modello sul genere di quello
schematizzato nella figura 3. Per ogni categoria professionale, i fattori critici di motivazione si
posizionano in ordine diverso, a volte antitetico.
Figura 3 - Classificazione dei fattori critici di motivazione in ordine d’importanza percepita
Fattore critico Manager Professional Impiegato
Operaio
Operaio
specializzato
5
5
5
5
2
Ambiente fisico
4
4
1
3
3
Ambiente
psicologico
1
2
4
4
4
Autonomia
e
responsabilità
3
1
3
2
5
Contenuto
professionale
2
3
2
1
1
Retribuzione
Si tratta naturalmente di una costruzione altamente soggettiva, che ha un solo pregio metodologico:
evidenziare la differenza di approccio e di priorità motivazionali tra una categoria professionale e
l’altra.
Alcune velocissime osservazioni:
- la collocazione all’ultimo posto dell’ambiente fisico, lungi dall’indicare una scarsa importanza,
conferma – in linea con le teorie di Maslow e di Herzberg - che si tratta di un elemento basico, il
fattore igienico per eccellenza;
- l’ambiente psicologico conta di meno per i manager e i professional, in quanto si concentrano più
sulla natura del lavoro e sulla ricerca di autonomia e responsabilità che sugli aspetti sociali del
lavoro;
- la retribuzione è ovviamente un fattore altamente motivante sia per i manager che (ancora di più)
per gli operai. Solo che gli uni la negoziano individualmente e gli altri collettivamente; per i primi
ci sono i bonus e per i secondi il cottimo.
A questo punto potrebbe essere utile tentare –almeno per i manager e i professional – una
ponderazione dei fattori (figura 4).
Tratto da L’informatore INAZ 1/2007
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Figura 4 - Ponderazione indicativa dei fattori per manager e professional
Fattore critico
Peso ponderale
Peso ponderale
% per i manager
% per i professional
Ambiente fisico
10
10
Ambiente psicologico
10
20
Autonomia e responsabilità
30
20
Contenuto professionale
20
30
Retribuzione
30
20
100
100
La retribuzione è ovviamente importante, ma l’autonomia e responsabilità sono addirittura decisive
per il manager. Ecco perché c’è tanta demotivazione tra i dirigenti a fronte della storica resistenza
delle aziende italiane a decentrare il budget. Ricordo il caso si un dirigente licenziato perché “non
aveva inciso sui risultati”. Che cosa avrebbe potuto fare con risorse zero e vincoli enne? Questo è
un punto fondamentale da risolvere se vogliamo uscire da un modello verticistico e
autoperpentuatesi che blocca la crescita e il ricambio al vertice.
Come si misura la motivazione?
Come si misura la motivazione? Lo strumento principe, ormai abbastanza diffuso, è l’indagine sul
clima interno. Un questionario somministrato a tutto il personale, rigorosamente anonimo ma
leggibile per categorie professionali e macro aggregati organizzativi, consente una rilevazione
attendibile della “soddisfazione” dei dipendenti con riferimento a una serie di indicatori.
Naturalmente questo strumento funziona due condizioni tassative:
- è costruito ad hoc, sulla situazione specifica dell’azienda. Esistono sul mercato degli strumenti
preconfezionati, di cui sconsiglio caldamente l’utilizzo. Tendono generalmente a stimolare delle
risposte positive, e quindi finiscono per dire al management quello che vuole sentire;
- genera un feedback completo, tempestivo e senza reticenze, funzionale a un ambiente
democratico. Altrimenti è un esercizio demotivante.
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