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13 gennaio 2017 delle ore 08:01
A TEATRO
In scena al Piccolo Teatro di Milano Lehman Trilogy l’ultimo gigante spettacolo di Luca
Ronconi
Quattro ore e mezza di teatro di parola, nel senso
più alto del termine, possono spaventare. Ma
una volta entrati nella sala del Piccolo Teatro di
via Rovello, il tempo perde di significato e si
viene assorbiti dalla Storia. Nel gennaio 2015
Luca Ronconi mette in scena il suo ultimo
spettacolo, Lehman Trilogy, dal testo di Stefano
Massini, giovane drammaturgo, classe 1975,
già vincitore del Premio Tondelli nel 2005 con
L'odore assordante del bianco: trentadue scene,
molte delle quali dal titolo yiddish, in omaggio
alla cultura ebraica della famiglia, che
raccontano la nascita e la caduta di un impero
economico e finanziario durato 150 anni, che
ha resistito a tutto, compresa una Guerra civile,
due conflitti mondiali e al crollo di Wall Street,
ma non all'ingordigia dell'era moderna. 1844.
Montgomery, Alabama. Harry (Massimo De
Francovich) è il maggiore dei tre fratelli
Lehman. Appena sbarcato da Rimpar, un
piccolo paese della Baviera, apre un negozio di
vestiti di cotone, l'oro dell'Alabama. Tre anni
più tardi lo raggiunge Emanuel (Fabrizio
Gifuni), istintivo e reattivo, che si contrappone
al fratello razionale e ponderato: sono la testa e
il braccio. Per bilanciarli arriva Mayer
(Massimo Popolizio), la patata di famiglia.
Abbandonano il commercio di beni e materie
prime e si inventano mediatori: fanno
un'immensa fortuna con il cotone, pochi cent
alla volta. Alla morte di Harry, partono alla
conquista di New York. Dopo la guerra di
secessione si lanciano sul mercato del caffè e
del tabacco. Prima di raggiungere il fratello,
Mayer crea la Banca dell'Alabama, finanziata
dal Governo per rilanciare l'economia del Sud.
New York, con la sua frenesia e la sua vitalità,
non dà spazio a sogni e sentimentalismi. I titoli
delle scene, che compaiono come per magia
sullo sfondo neutro, all'inizio quasi tutti in
yiddish, fanno spazio all'inglese. Philip (Paolo
Pierobon), figlio di Emanuel, è l'incarnazione
della metropoli moderna e del passaggio al
nuovo secolo, il '900: con la sua parlantina,
prende in mano gli affari di famiglia e porta il
nome dei Lehman al vertice della Borsa: le
ferrovie per viaggiare, il petrolio per le
industrie, il cinema per sognare. La finanza si
fa metafora con Salomon Paprinsky, l'equilibrista
di Wall Street. Tutte le mattine sale sul filo e
ondeggia sul nulla, senza mai cadere. Un
equilibrio instabile, come la vita di chi gioca
tutto alla grande roulette del "mercato”. Ma quel
fatidico giovedì nero, nell'ottobre del 1929,
Solomon cade e la caviglia si rompe, come cade
Philip. Sono entrambi costretti a lasciare il
posto ai figli. Bobbie Lehman (Fausto Cabra)
non è all'altezza del padre: sempre in
competizione con lo zio, il figlio di Mayer, il
democratico senatore Herbert (Roberto
Zibetti), un punto di riferimento per la famiglia
e la società. Bobbie ama i cavalli e l'arte.
Nonostante i tremolii, traghetta la zattera verso
i nuovi meccanismi di investimento, ma nella
vertigine dei futures ci rimette la salute, la vita
e l'intera Banca Lehman. Tutti abbiamo nella
memoria le immagini del crac che ha dato inizio
alla grande crisi che stiamo attraversando. Ma
questa non è una lezione di storia: come ha detto
lo stesso Ronconi in un'intervista, "tutto il
racconto è figlio di un funerale”.
Il testo non ha praticamente dialoghi. Ogni
personaggio percorre il proprio binario, solo
pochi incroci creano colloqui. Ognuno narra la
sua storia, a proprio modo. Come una grande
intervista simultanea, dove tutti i personaggi in
scena rispondono senza ascoltare l'altro. Questa
molteplicità di registri, perfettamente calibrata,
dà forma a un ingranaggio dal ritmo incalzante
e a tratti ironico, tenendo sempre alta
l'attenzione, grazie anche alla magistrale
interpretazione di un gruppo d'attori di diverse
generazioni, tutti in evidente stato di grazia.
Anche la morte non è definitiva, in questa
grande saga famigliare: gli antenati tornano in
scena come apparizioni, premonizioni di un
passato che non si può cancellare. Fantasmi che
animano i sogni e ricordano che siamo tutti figli
dei nostri padri. È questo a rendere onirica la
Storia, con il suo eterno divenire. Qui sta la
differenza tra leggere un saggio sui Lehman e
assistere a questa rappresentazione. Non c'è
sipario, la scena di Marco Rossi è già
interamente visibile non appena si entra in sala.
Bianca, pulita ed estremamente rigorosa. Quasi
algida e distaccata. Una scatola senza tempo e
senza filtri, così come gli abiti degli attori: non
ci sono distrazioni, tutto quello che conta è la
loro parola, che incanta e ipnotizza. La
messinscena si oggettiva in un eterno presente
storico, perché siamo noi spettatori chiamati in
causa a dare significato al passato e alle sue
ripercussioni sul presente.
Giulia Alonzo
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