La vie d`Adèle

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La vie d`Adèle
LA VIE D’ADÈLE
di Abdellatif Kechiche
con Adèle Exarchopoulos, Léa Seydoux, Salim Kechiouche.
FRANCE 2013, 179 min.
recensione di Giuseppe Russo
Premiato con la Palma
d’oro a Cannes 2013, La
vie d’Adèle. Chapitres
1-2 (giunto nelle sale
italiane solo alla fine di
ottobre) è probabilmente
il film più ambizioso tra
quelli finora realizzati
dal
cinquantenne
cineasta franco-tunisino
tanto apprezzato dalla
critica, soprattutto da
quella
tenacemente
aggrappata agli scogli
del politically correct.
Per la medesima ragione,
è anche il film che
maggiormente mostra i
limiti
strutturali
di
questo regista. La giuria
presieduta da Steven
Spielberg ha voluto
citare esplicitamente nelle motivazioni le due interpreti del lungometraggio,
precisando che «le Jury a pris la mesure de l’excellence de trois artistes: Adèle
Exarchopoulos, Léa Seydoux et Abdellatif Kechiche». Direi che Spielberg ha fatto
bene a collocare solo in terza posizione il regista, dal momento che almeno i 3/4
del valore estetico del film sono merito dei notevoli sforzi fatti dalle due attrici, una
delle quali, la ventenne Adèle Exarchopoulos (Adèle), era al debutto in un ruolo da
protagonista, mentre la Seydoux (Emma) – nipote e pronipote dei presidenti di
autentici colossi della cinematografia transalpina (Pathè Film e Gaumont), che ha
già lavorato con registi del calibro di Ridley Scott, Amos Gitai, Louis Garrel e
Tarantino – appare visibilmente più matura da ogni punto di vista. Non è eccessivo
affermare che in non pochi momenti di questo film, sia sequenze cruciali che di
transizione, la finzione proceda discretamente bene nonostante Kechiche e non
certo grazie a lui, che pecca soprattutto in quanto a tecniche di ripresa, scelte di
diffusione della luce, all’idea a dir poco infantile di non guidare lo spettatore nella
successione cronologica degli eventi1 e per altri motivi ancora.
Che il film non sia e non voglia essere un’apoteosi del lesbismo, è comune
denominatore a tutte le recensioni serie che sono state scritte, in Italia come
all’estero. Léa Seydoux, intervistata al termine del festival di Cannes da un
giornalista di TV5 Monde, ha giustamente dichiarato che in realtà questo «est un
film sur les sentiments, sur la rupture, sur la solitude»2. Presumibilmente, il
desiderio di Kechiche era quello di mostrare come le dinamiche di coppia, in
particolare quelle che si verificano nel classico binomio dominante/dominato, siano
sostanzialmente
le
stesse in ogni declinazione dell’eros.
A ciò va aggiunto il
particolare per nulla
irrilevante che lo
scorrere del tempo
impone ai rapporti di
coppia: un po’ per
volta, tutto ciò che
più in profondità
siamo, ciò di cui
siamo irreversibilmente fatti, emerge sempre, e pone implacabilmente fine al
periodo in cui l’unione era un mero idillio. In questo caso, il nucleo discriminante è
la diversa estrazione sociale delle due ragazze, dalla quale dipende il diverso
spessore nella formazione delle rispettive personalità, e quindi il fatto stesso che
una della due è più debole e ha maggiormente bisogno dell’altra, mentre l’altra,
1
Se un autore sceglie di sottotitolare la propria opera “Capitoli 1 e 2”, mostrando con ciò
l’intenzione di conferirle un tono narrativo forte, quasi solenne, a che pro far saltare gli
elementi utili a separare le fasi che devono comporla? Se il desiderio era quello di
introdurre un procedimento ellittico, è un desiderio che, dal punto di vista cinematografico,
si realizza in ben altri modi.
2
L’intervista alle due interpreti è qui: http://www.youtube.com/watch?v=jdYGZXXWhQk.
Emma, sembra sapere perfettamente ciò che vuole e perciò rappresenta la
personalità dominante della coppia.
La prima parte del film può così basarsi sulla graphic novel di Julie Maroh Il blu è
un colore caldo (in Italia edita da Rizzoli Lizard), e questa parte risulta piuttosto
convincente, nonostante una certa gratuità in alcuni richiami a La vie de Marianne
di Marivaux, romanzo che Adèle legge al liceo per un corso di letteratura e nel
quale ritrova certi spunti autobiografici, dato che la protagonista del celebre
romanzo di Marivaux ha davvero dei tratti in comune con Adèle, essendo una sorta
di collezione vivente di fragilità, incertezze, desiderio di protagonismo senza essere
notata, ipertrofico bisogno di affetto. Marianne ama le sue debolezze, e vorrebbe
che gli altri la amassero per le stesse ragioni, che lei percepisce come un merito,
pur definendole come malheur dal punto di vista sociale: «Anzitutto la mia
disgrazia, che era unica; con tale disgrazia avevo della virtù, e andavano così bene
insieme; e poi ero giovane, e poi ero bella; che volete di più?»3 La conoscenza di
Emma e la scoperta di una nuova e più appagante forma di vita attraverso lei,
crescendo con lei, quasi nutrendosi di lei (come testimonia il rituale delle dita di
Emma che vengono a trovarsi così spesso tra le labbra di Adèle, che le bacia, le
succhia, le beve), rappresenta la fase crescente della sua parabola. Ma già in questa
parte, ossia il capitolo 1 della vicenda, il regista opera alcune scelte tecniche a dir
poco discutibili, in certi momenti semplicemente disastrose. Un conto è avvicinare
la macchina da presa ai volti degli attori per enfatizzare pregi e difetti espressivi,
lineamenti in nervoso e incessante movimento etc.; un altro conto è non capire
quando ci si deve fermare, ossia rifiutare l’esistenza di una “giusta distanza”
dall’oggetto, quanto meno in certe sequenze. Se vuoi realizzare un’opera che aspira
ad avere un valore paradigmatico riguardo le modalità di Erlebnis dell’esperienza
erotica giovanile femminile, e non stai semplicemente ripetendo gli schemi quasi
dilettanteschi di Cous Cous (2007), che senso ha posizionare la mdp a pochi
centimetri da labbra dai cui angoli colano rivoli di sugo alla bolognese mentre i
personaggi stanno cenando? Ingigantire in modo pantagruelico quelle bocche come
se le immagini fossero caricature del Pranzo di Babette o de La grande bouffe di
Ferreri? E non è solo Adèle, ad essere coinvolta in scelte infelici come questa; lo
sono anche i genitori, gli amici e le amiche della ragazza, e un po’ per volta anche
Emma e le persone che gravitano intorno ad Emma. Eppure non mancano i
posizionamenti ben riusciti della mdp, in particolare (e non è certo un caso) quando
si allontana dal corpo nudo e dormiente di Adèle e lo riprende dalla giusta altezza e
con la giusta inclinazione, oppure quando (in quello che dovrebbe essere il secondo
3
P.C.Ch. de Marivaux, La vita di Marianna, a cura di R. Arienta, vol. I, Milano, Rizzoli
1951, p. 103.
capitolo) la ragazza ormai stremata dallo sviluppo degli avvenimenti giace sulla
panchina del parco in cui la storia con Emma era iniziata e le foglie rossastre degli
alberi autunnali cadono su di lei e intorno a lei, trascinate dal vento, quasi suggerendole di passare
oltre, di superare la
sua dipendenza, unica
possibilità per lei di
rafforzarsi
come
soggetto e avvicinarsi
ad un minimo di
autonomia. E allora,
dal momento che il
film è stato totalmente
girato in digitale con
camere Canon C300,
note per la loro leggerezza (appena 2,7 chili di peso) e per la loro versatilità (infatti
vengono qui usate sia per riprese a mano che con supporto fisso), la responsabilità
di ogni scelta nel loro posizionamento va fatta ricadere totalmente e unicamente sul
regista.
Per non parlare di come la fotografia, diretta da Sofian El Fani, che già aveva
collaborato con Kechiche in Venus Noire (2010), oscilli costantemente e
inutilmente tra il teen movie americaneggiante (esterni giorno con luce alta laterale,
perché nei film come nei telefilm americani di ambientazione liceale i ragazzi e le
ragazze hanno quasi sempre gli occhi azzurri, che così brillano maggiormente) e
combinazioni iperdrammatiche e vagamente teatrali, con quegli interni durante i
lunghi amplessi fra le due ragazze dove non mancano candele posizionate in punti
ritenuti strategici ma che non contribuiscono in alcun modo alla formazione della
luce. Ovvio che poi non si registri una sola dissolvenza degna di questo nome, in
un film dove di dissolvenze ce ne sarebbero volute, e anche molte. Insomma, come
si può pensare seriamente di dare un tono magistrale ad una pellicola con tali
ambizioni, mostrando di non saper tenere separati certi registri, certe soluzioni di
ripresa, certe strategie di diffusione della luce a beneficio delle immagini che non
possono essere mescolate?
Sostanzialmente, La vie d’Adèle è un film di cui l’Europa del XXI secolo aveva
bisogno e che pertanto ha premiato, anche se non aiuterà molto a combattere
l’omofobia dilagante nel vecchio continente. Ma è anche un lavoro che mostra i
numerosi limiti della generazione di cineasti di cui Kechiche fa parte. Bergman
aveva 48 anni quando girò Persona, che non affronta argomenti troppo diversi;
Jacques Rivette ne aveva solo 41 quando fece L’amour fou (che dura 70 minuti più
di La vie d’Adèle ma si digerisce molto meglio); Lars von Trier ne aveva 40
quando ha realizzato Breaking the Waves, che pure mostra con grande efficacia
drammatica una dinamica dominante/dominato in un rapporto di coppia fortemente
disfunzionale. Kechiche a 50 anni non è in grado di fare di meglio, a quanto pare, o
forse non è il caso di aspettarsi più di tanto.