Untitled - Barz and Hippo

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Untitled - Barz and Hippo
Basato su Le Bleu est une couleur chaude, romanzo a fumetti di Julie Maroh (bestseller in Francia e vincitore
del premio Fnac al Festival di Angoulême 2011) il film che ha conquistato la Palma d’oro 2013 porta in scena
un’intensa storia d’amore tra due donne che è al tempo stesso anche un romanzo di formazione ricco e
complesso. L’intento di realismo di Kechiche, mantenuto fin negli aspetti più intimi ed erotici, ha diviso le opinioni.
scheda tecnica
durata:
nazionalità:
anno:
regia:
soggetto adattato da:
sceneggiatura:
fotografia:
montaggio:
distribuzione:
179 MINUTI
USA
2013
ABDEL KECHICHE
Il Blu è un colore caldo di JULIE MAROH
ABDEL KECHICHE, GHALYA LACROIX
SOFIAN EL FANI
ALBERTINE LASTERA, CAMILLE TOUBKIS, JEAN-MARIE LENGELLÉ, GHALYA
LACROIX
LUCKY RED
LÉA SEYDOUX (Emma), ADÈLE EXARCHOPOULOS (Adèle), SALIM KECHIOUCHE
interpreti:
(Salim), MONA WALRAVENS (Lise), JEREMIE LAHEURTE (Thomas), ALMA JODOROWSKI (Beatrice), AURÉLIEN
RECOING (Il padre di Adele), CATHERINE SALÉE (La madre di Adele), FANNY MOURIN (Amelie), BENJAMIN SIKSOU
(Antoine), SANDOR FUNTEK (Valentin).
premi e nomination:
Festival di Cannes 2013, Palma d'Oro al miglior film e Premio FIPRESCI a A.
Kechiche
British Independent Film Awards 2013, Miglior film indipendente internazionale
Nominato ai Golden Globes come Miglior film straniero, ai BAFTA Awards come
Miglior film non in lingua inglese.
Abdellatif Kechiche
Abdellatif Kechiche è nato a Tunisi il 7 dicembre 1960; la sua famiglia è immigrata in Francia nel 1966. Dopo aver
studiato arte drammatica al Conservatorio di Antibes, intraprende la carriera di attore teatrale. Giovanissimo, si
fa notare in particolare per l'interpretazione in una pièce de Federico Garcia Lorca nel 1978 e l'anno seguente
per una di Eduard Manet. Come regista teatrale presenta al Festival d'Avignone L'Architecte et l'empereur
d'Assyrie. Prima di passare alla regia cinematografica appare come attore nel 1984 sul grande schermo come
protagonista in Le thé à la menthe di Abdelkrim Bahloul. Da questo momento alterna ruoli cinematografici e
teatrali. Nel 1984 grazie al ruolo da protagonista in Bezness di Nouri Bouzid ottiene il premio d'interpretazione al
Festival del Film Francofono di Namur (1992).
L'esordio dietro la macchina da presa avviene nel 2000 con Tutta colpa di Voltaire, che merita il Premio Luigi De
Laurentiis per la migliore Opera Prima al Festival di Venezia. Nella suo primo lavoro per il cinema Kechiche
affronta con impegno civile un tema vicino alla sua autobiografia, la difficile condizione degli emigrati magrebini,
tema che riprende anche nel successivo La schivata (2005), ambientato tra i ragazzi della banlieue parigina,
vincitore di quattro premi César. Con questo film Kechiche s'impone all'attenzione internazionale attraverso la
partecipazione a numerosi festival.
Nel successivo Cous cous (La Graine et le mulet, 2007), partendo da suggestioni ancor più legate alla sua
biografia, Kechiche continua a indagare in modo originale e non stereotipato la comunità magrebina in Francia. Il
film racconta la storia di una famiglia di Sète (Marsiglia), divisa dalle tensioni e da piccole ripicche tipiche di molte
famiglie di ogni cultura e provenienza, che ritrova la coesione di fronte al sogno del padre, lavoratore portuale
distrutto dalla fatica che vuole aprire un ristorante. Il film conquista il pubblico e la critica alla 64esima Mostra
del cinema di Venezia, dove si aggiudica il Premio Speciale della Giuria, il Premio Marcello Mastroianni come
miglior rivelazione (alla giovane Hafsia Herzi) e il Premio Fipresci. Numerosissimi anche i riconoscimenti raccolti
in Francia, tra cui 4 César come miglior film, sceneggiatura, regia e rivelazione femminile. Nel 2008 torna in
laguna per presiedere la giuria del premio De Laurentis alla migliore opera prima. Nel 2013 La Vita d'Adele
ottiene la Palma d'Oro, assegnata per la prima volta non solo al film ma a Kechiche e alle due giovani
protagoniste, Adèle Exarchopoulos e Léa Seydoux; inoltre, vince il premio della critica cinematografica
internazionale, sempre a Cannes, e il film è un grande successo di critica e di pubblico in numerosi paesi.
La parola ai protagonisti
Intervista al regista
Perché ha scelto di adattare un fumetto, Il blu è un colore caldo di Julie Maroh, per realizzare il suo quinto film, La
vita di Adele?
Si tratta di un adattamento molto libero. E la molla che ha fatto scattare il desiderio, la voglia di girare “La vita di
Adele”, è nata dall’unione di due elementi: la lettura del fumetto e un progetto a cui pensavo da molto tempo. In
effetti, fin dall’epoca de “La schivata” (2003), avevo in mente una sceneggiatura sul percorso di una professoressa
di francese appassionata di teatro. Volevo sviluppare un personaggio femminile desideroso di comunicare, e che
svolge il suo lavoro con passione. Allo stesso tempo questa insegnante è consapevole delle ripercussioni sul suo
lavoro di tutto ciò che le accade nella vita privata: gli amori, i lutti, le separazioni. Ero stato vicino a molti di questi
professori e professoresse nel periodo de “La schivata”. Per me era toccante il fatto che vivessero il loro lavoro
come una vocazione. Erano dei veri artisti, amavano la lettura, la pittura, la scrittura…Tutti ricordiamo momenti
chiave della nostra vita scolastica, quando un professore appassionato ci ha portato a vedere un certo film, o ci
ha spinto a leggere un certo libro, facendo forse nascere in noi delle vocazioni. Ma alla fine questa sceneggiatura
non è mai stata scritta. E quando mi sono imbattuto per caso nel fumetto “Il blu è un colore caldo”, che racconta
la storia di questo amore assoluto tra due donne, e allo stesso tempo parla di una giovane donna che diventa
un’insegnante, ho capito come far combaciare i due progetti.
Effettivamente la vocazione è un tema molto forte in relazione alle protagoniste del suo film: vocazione per la
pittura per una delle due, vocazione per l’insegnamento per l’altra
Trovo estremamente legittime e degne di rispetto le vocazioni, soprattutto quando si tratta di vocazioni anonime,
fatte di abnegazione, e che non hanno bisogno della riconoscenza degli altri. Per questo ammiro molto quelle
insegnanti, quelle professoresse interessate solo ai risultati dei loro allievi. Diventa parte della loro vita, è il loro
modo di gratificarsi.
Il suo film è anche e soprattutto una storia d’amore, di un amore al femminile, tra due donne
Raccontare una storia d’amore tra due donne significa lavorare intensamente con due attrici, è un lavoro che mi
appassiona e che si sta rivelando sempre più importante mano a mano che cresco come regista. Mi chiedo cosa
nella storia tratta dal fumetto “Il blu è un colore caldo” sia stato l’elemento ispiratore, quello che mi ha spinto a
fare il film. Forse le tavole che ritraggono i corpi nudi? È possibile. Non so quali siano state le ragioni più
profonde.
A questo proposito, come ha scelto le sue protagoniste, Léa Seydoux e Adèle Exarchopoulos?
Ho scelto prima Léa Seydoux per il ruolo di Emma. Lei ha la bellezza giusta, la voce, l’intelligenza e la libertà del
personaggio. Ma soprattutto la cosa determinante nel mio incontro con Léa, è stato il suo modo di rapportarsi
alla società. È molto attenta al mondo che la circonda, possiede una vera coscienza sociale. C’è in lei un reale
bisogno di impegnarsi per gli altri, che corrisponde molto al mio. Ho potuto rendermene conto davvero perché
ho trascorso un intero anno con lei, da quando è stata scelta per il ruolo fino alla fine delle riprese. Inoltre,
trovavo in Léa qualcosa che potremmo definire una certa “arabità”, qualcosa dello spirito arabo. Mi ha poi detto
di avere due fratellastri arabi, ma questo io non lo sapevo. Léa vive con grande consapevolezza, pienamente
cosciente di tutto ciò che accade. Ed è anche il suo modo di affrontare la vita. Ha qualcosa a che fare col
nomadismo, col vagabondaggio, qualcosa che attiene alla malinconia, quello che noi chiamiamo “mektoub”. Léa
è fatta così, questo è il suo modo di stare al mondo.
E per quanto riguarda Adèle Exarchopoulos?
Abbiamo fatto un casting interminabile, ma non appena ho visto Adèle, l’ho scelta. L’avevo invitata a venire con
me in un bar. Lei ha ordinato una torta al limone, e per il suo modo di mangiare mi sono detto: “È lei”. Lei è
“sensorialità”, il suo modo di muovere la bocca, di masticare… La bocca è stata un elemento molto importante
per questo film, la bocca delle due protagoniste è fondamentale per questo film, per delle ragioni
comprensibilmente umane. Provocano infatti le sensazioni più diverse, ogni genere di impressione. Tutti noi
siamo colpiti da qualcosa nel viso degli altri, il naso, la bocca. Per me si tratta del motore da cui tutto ha origine.
La solitudine causata dalle pene d’amore rende coraggiosi, anche questo sembra un tema del film.
Provo molta ammirazione per il personaggio di Adele, che è una donna libera, davvero coraggiosa, devota e
forte. Adele è distrutta dal dolore ma non si tira mai indietro quando è in gioco il suo lavoro di insegnante. Si fa
forza. Quando in qualcuno, chiunque esso sia, noto un coraggio come questo, beh, devo ammettere che mi
turba. Io personalmente non mi sento coraggioso, ma mi aggrappo sempre a questa idea e la noto spesso nelle
ragazze più giovani, questa forza, questa capacità di affermare se stesse. Mi ha fatto pensare, anche se non oserei
mai paragonarmi a lui, a Marivaux e, in particolare, a “La Vie de Marianne” e alla sua eroina orfana, ma
determinata e coraggiosa, pronta ad affrontare le prove della vita. Trovo ci sia una parentela con il modo in cui ho
immaginato Adele.
In questo film emerge anche una caratteristica tipica del suo modo di girare: un grosso lavoro per ottenere il
massimo della spontaneità nella recitazione degli attori. Come riesce ad ottenere questo risultato?
È importante che ciò che appare nelle immagini sia naturale, nonostante sia inevitabile un lavoro di
preparazione, ma bisogna che sia ridotto al minimo indispensabile. È un modo di vedere fino a dove è possibile
arrivare alla verità, tra virgolette, di un personaggio, e di sbarazzarsi di una recitazione sapiente, per quanto non
ci si riesca mai completamente.
Questo aspetto emerge con forza ancora maggiore nelle scene di gruppo, in cui gli scambi di battute tra i diversi
personaggi sembrano addirittura improvvisati. Quanto è lasciato all’improvvisazione?
Nelle sequenze di gruppo, il testo, i dialoghi, sono sempre scritti minuziosamente. Esistono, ma io cerco
comunque, per quanto possibile, di non subire un ritmo predeterminato e, anche se ho la sensazione di non
esserci ancora riuscito, continuo a provarci. Cerco di fare in modo che quel ritmo venga fuori al momento delle
riprese, perché non mi sento a mio agio con i ritmi dettati dalla sceneggiatura, nonostante ne rispetti la struttura.
Quando sono sul set, ho bisogno di rinunciare a questo principio, al principio di dover rispettare la sceneggiatura
ad ogni costo. Preferisco rivolgermi agli altri con dialoghi miei e aprirmi a qualcos’altro, senza restare bloccato su
quello che è stato scritto. Così quando arriviamo a quelle scene, lasciamo aperte tutte le possibilità. Le prove
vengono dimenticate e la scrittura continua durante le riprese. Sono scene che amo girare. Si ricreano in
continuazione, costringono gli attori a reagire uno nei confronti dell’altro. Mi diverte.
Adesso che il film è finito, cosa le ha dato?
Non mi ha dato delle risposte, al contrario, ha accresciuto i miei interrogativi e i miei dubbi sul principio della
femminilità che è anche il principio della vita, della speranza, del mistero. Ho idea che forse un giorno troverò
una risposta.
È per questo che il titolo del film è “La vita di Adele”?
Capitoli I e II, perché non so ancora quali siano gli altri. Vorrei che Adele mi raccontasse il seguito.
Adele è la sua Antoine Doinel (personaggio interpretato da Jean-Pierre Léaud presente in molti film di François
Truffaut)?
Antoine Doinel, le confesso che ci avevo pensato.
Recensioni
Marzia Gandolfi. Mymovies
Adèle ha quindici anni e un appetito insaziabile di cibo e di vita. Leggendo della Marianna di Marivaux si
invaghisce di Thomas, a cui si concede senza mai accendersi davvero. A innamorarla è invece una ragazza dai
capelli blu incontrata per caso e ritrovata in un locale gay, dove si è recata con l'amico di sempre. Un cocktail e
una panchina condivisa avviano una storia d'amore appassionata e travolgente che matura Adèle, conducendola
fuori dall'adolescenza e verso l'insegnamento. Perché Adèle, che alle ostriche preferisce gli spaghetti, vuole
formare gli adulti di domani, restituendo ai suoi bambini tutto il bello imparato dietro ai banchi e nella vita. Nella
vita con Emma, che studia alle Belle Arti e la dipinge nuda dopo averla amata per ore. Traghettata da quel
sentimento impetuoso, Adèle diventa donna imparando molto presto che la vita non è sempre un (bel) romanzo.
Ancora una volta Abdellatif Kechiche guarda a Pierre de Marivaux, maître dei sentimenti nella società francese
del diciottesimo secolo, spiando il cuore della 'petites gens' dove si nasconde l'amore. L'amore che il suo cinema
come la letteratura dello scrittore fa uscire allo scoperto, segnato da un movimento della parola e da una
naturalezza di espressione che incanta. Sul romanzo "La Vie de Marianne" apre La vie d'Adèle, storia d'amore e di
formazione di un'adolescente che concede alla macchina da presa ogni dettaglio e ogni sfumatura di sé.
Eludendo il compiacimento dell'esibizione, il regista tunisino racconta una stagione d'amore dolorosa e
irripetibile, senza psicologismi e con una carnalità priva di morbosità. Al centro del film due giovani donne che
leggono la realtà con gli occhi del desiderio, il loro, che esplode sullo schermo accordando i capitoli della loro
esistenza. L'abilità dell'autore a dirigere gli attori, già osservata nei lavori precedenti (La schivata, Cous cous,
Venere Nera), produce periodi di pura bellezza come in occasione della lunghissima scena dell'amplesso, delle
cene di presentazione e delle letture scolastiche. Con un movimento dall'esterno verso l'interno, Kechiche
realizza un film che quanto più si distende nel tempo (quello diegetico e quello effettuale), tanto più si stringe
nello spazio di una camera, di un'aula, di una cucina, placandosi nel ritmo e dentro un'appassionata ricerca di
interiorità. La galleria di reincarnazioni dell'eterno femminino dopo la danzatrice del ventre di Cous cous e la
'schiava assoluta' di Venere Nera si arricchisce di un'altra figura, questa volta divorata dall'eros, spregiudicata,
libera e bellissima. Adèle Exarchopoulos è l'Adèle del titolo, colta nell'incandescenza di un sentimento
fervidissimo e totalizzante per Emma e congedata con una raggiunta consapevolezza. Dentro un abito blu, 'preso
in prestito' dalla bande dessinée di Julie Maroh ("Le Bleu est une couleur chaude"), la protagonista comprenderà
di poter sopravvivere agli amori che non possiamo trattenere, preferendo le lacrime (tante lacrime) e lo
struggente languore all'innaturale rimozione. E la bellezza di La vita di Adele nasce proprio nei momenti di
frattura, chiavi per aprire il futuro alla protagonista (...).
Fabio Ferzetti. Il Messaggero
Una storia d'amore. Senza aggettivi. Il film che ha conquistato Cannes dura tre ore e racconta la cosa più bella e
terribile del mondo. Un amore che nasce, cresce, trionfa, si consuma, si spezza.
Uno di quegli amori che potrebbe durare una vita e invece sbatte contro ostacoli eterni e insormontabili. Le
differenze di classe e cultura, le mentalità che separano mentre i corpi si attraggono, i diversi modi di stare al
mondo che finiscono per allontanare anche gli amanti più appassionati. Anzi le amanti, perché le protagoniste di
La vita di Adèle, che comincia un po’ dove finiva La classe di Cantet, sono due ragazze, Adèle e Emma appunto.
Adèle che all'inizio va ancora al liceo, e Emma che studia alle Belle Arti. Adèle che vuol fare la maestra,
trasmettere un sapere. Emma che farà la pittrice. Adèle così piccolo borghese, Emma che è di tutt'altro ambiente
ma si innamora subito di quella ragazzina timida che ancora non si conosce ed è tutta carnalità e gioia di vivere.
Adèle che non ha mai mangiato le ostriche e non sa dire le bugie. Emma che ha una vita sociale complessa e in
Adèle vede anche un modello, un'ideale, la forma di un'astrazione. Qualcosa da assorbire, metabolizzare. E
dipingere.
Come capiremo verso la fine, perché in tre ore di film passano diversi anni e Kechiche osserva le sue due eroine
da vicino, molto da vicino, anche quando mangiano e quando fanno l’amore, in lunghe scene più che esplicite.
Ma riprese con uno sguardo caldo e pittorico che annulla ogni voyeurismo e sembra confondersi con quello dei
personaggi stessi. Rendendo ancora più doloroso il lento lavorìo della società contro di loro.
(...) Ci voleva un tunisino naturalizzato francese, (...) per rendere con tanto calore e tanta crudezza l’incanto dei
corpi e la crudeltà dell’esclusione sociale che si annida anche nello sguardo sapiente ma dominatore di un’artista.
Che è Emma ma anche un po’ Kechiche. Artista ma anche e sempre immigrato. E deciso a non farcene
dimenticare.
Alberto Crespi. L’Unità
I palmarès dei festival cinematografici hanno, a volte, una logica paradossale. Prendiamo La vita di Adele,
vincitore dell'ultimo festival di Cannes. Non era assolutamente il miglior film del concorso cannense: lo
superavano, per bellezza ed equilibrio narrativo, Nebraska di Alexander Payne, Inside Llewyn Davis dei fratelli
Coen e Il passato di Asghar Farhadi. (...). Detto questo La vita di Adele è stato, nel contesto di Cannes 2013, la
Palma d'oro giusta e necessaria. Giusta per l'emozione che questa storia d'amore omossessuale ha suscitato nei
giurati e nel pubblico, in coincidenza con eventi di cronaca (in Francia e altrove) che la rendevano «il film del
momento». Necessaria per gli equilibri anche politica cinematografica che il festival esprimeva, con un'alleanza
anche produttiva sempre più forte tra Usa e Francia che il presidente della giuria Steven Spielberg ha
brillantemente interpretato. Palma d'oro ok, quindi, e film da vedere pur senza aspettarsi l'opera che ti cambia la
vita. L'unica persona a cui il film darà sicuramente una vita diversa è la giovane attrice Adèle Exarchopoulos,
straordinaria nel ruolo del titolo: un'adolescente che durante il film diventa donna, e che vive i nostri tempi con
le dovute dosi di entusiasmo e di inquietudine. Mentre sarà curioso, fra qualche anno, chiedere cosa penserà del
film a Léa Seydoux, la giovane diva che interpreta Emma, la ragazza di cui Adele si innamora. A Cannes la Seydoux
era raggiante quanto la collega, nel momento in cui è salita sul palco assieme a lei e a Kechiche per ricevere, tutti
insieme, la Palma. In seguito Lèa si è dissociata, attaccando pubblicamente il regista e raccontando di essersi
sentita «usata» durante le scene di sesso (molto realistiche, forse reali). Kechiche, a sua volta, l'ha distrutta con
dichiarazioni magari fondate ma di scarsissima eleganza. Brutta storia, che andrà lasciata decantare. Vedendo il
film, cercate di dimenticarla. In fondo le tre scene di sesso, per quanto lunghe e potenti, occupano una minima
parte delle tre ore di un racconto che si pone, né più né meno, come il più classico dei Bildungsroman. È un vero
romanzo di formazione, quello che porta Adele a rivedere tutto di se stessa: lei è una studentessa, di famiglia
«normale», con un'estrazione «normale» e gusti sessuali «normali». Kechiche la pedina come pedinava la
famiglia maghrebina di Cous cous, con un gusto quasi entomologico dell'immagine ma senza mai abbandonarsi a
scrupoli «politici» o sociologici. L'aspetto forse più affascinante di La vita di Adele è il suo essere una storia
d'amore in cui l'aspetto lesbico è solo mostrato, mai sottolineato: quando Emma irrompe nella vita di Adele,
l'amore ha le stesse dinamiche che si verificherebbero se una delle due fosse un ragazzo. (...) La vita di Adele ha
la forza e la discontinuità della vita vera. (...)
Simona Santoni. Panorama
Adele sembra uscita da Alba chiara di Vasco Rossi. È un'adolescente che si veste senza studiare il look, a scuola
ama immergersi nella lettura de La vie de Marianne di Marivaux, quando cammina ogni tanto si tira su i calzoni
sui fianchi e spesso e volentieri si accanisce contro i capelli che serra in code che disfa e rifà. E poi la sera, quando
è sola a letto, a volte con la mano si sfiora, alla scoperta della sua identità in divenire.
(…) "Ho l'impressione di fare finta, di fare finta su tutto": Adele (Exarchopoulos) ha quindici anni ma quando
prova ad approcciarsi al primo ragazzo sente che qualcosa non va, che quella storia non le appartiene e la fa
sentire sbagliata. Sarà un incontro casuale per strada a rapirla totalmente: una ragazza coi capelli blu abbracciata
a un'altra ragazza. I loro sguardi si intrecciano per poco, Adele entra in un turbamento completo, tutto scompare,
tutto si riempie: Emma (Seydoux) entra così nella sua vita, nei suoi sogni notturni, nei suoi aneliti.
Kechiche riprende con un naturalismo esasperato e sublime il lento formarsi della loro relazione, le prime parole
scambiate in un locale lesbico, la seduzione sicura ma delicata di Emma, il trasporto pieno e ingenuo di Adele, il
primo incontro a due in un parco rifulgente di sole e del loro desiderio, il primo bacio dolce e sussurrato, il primo
intreccio di corpi nudi, appassionato, compiuto, selvaggio e tenerissimo. Il regista tunisino naturalizzato francese,
come già aveva fatto in Cous Cous, lascia assaporare ogni momento senza fretta, non recide col montaggio e
lascia le due amazzoni della recitazione libere di far sobbollire tutto il loro talento, tutta la passione. È un
osservatore rispettoso che non censura e lascia scorrere i ripetuti amplessi, per minuti e minuti, sedotto dai corpi
ammalianti delle due donne che suonano così bene insieme. E poi... e poi l'amore muta, quello che vibrava si
ferma, nessuna relazione - neppure quella omosessuale - ne è immune.
Intanto, in tre ore di visione che sono un viaggio emotivo che porta lontano, Adèle Exarchopoulos è un diamante
grezzo che si svela al mondo. È tutto quello di bello che un'attrice può essere, così viscerale, così genuina: una
stupenda sorpresa. Le sue lacrime, i suoi tremori eccitati, l'adorazione racchiusa in uno sguardo: Adèle dà a tutto
un'autenticità suprema. Di Léa Seydoux si conosceva già la bravura: ho ancora addosso le sue iridi perse in Sister
di Ursula Meier. Accanto ad Adèle però la chimica è speciale. Le loro interpretazioni sono un autentico darsi,
primitivo e profondo; il loro è un regalo al cinema.
Uno dei momenti più emozionanti tra tanti? Al parco, dopo essersi incontrate per la prima volta da sole, Adèle ed
Emma, ancora fidanzata con Sabine, stanno per accomiatarsi: sono a un passo l'una dall'altra, gli occhi negli
occhi, un trasporto evidente che traspira da ogni sfumatura dei visi. In questa immobilità palpitante, a un passo
dall'esplodere in un bacio sulle labbra, passano secondi lunghissimi. E poi Emma, quasi prudente, bacia la più
piccola Adèle su una guancia. L'attesa del piacere.
Lo scambio di battute che porto nel cuore appartiene sempre a un incontro nel parco, entrambe distese sull'erba
e quasi sospese nella felicità di essere una accanto all'altra. "È bello stare qui", dice Emma. Adèle annuisce.
"Forse un po' troppo", aggiunge Emma. "Immagino di sì", conferma candidamente Adèle.
La vita di Adele si ispira al graphic novel Il blu è un colore caldo (Le bleu est un couleur chaude), opera d'esordio
della fumettista Julie Maroh, da poco pubblicato in Italia da Rizzoli-Lizard. Kechiche tanto prende dal romanzo
grafico, a partire da alcuni dialoghi, ma allo stesso tempo tanto se ne distacca, soprattutto nella seconda parte,
come se la narrazione avesse preso da sé una strada propria e intima, come lo stesso regista ha spiegato. Nel
fumetto l'amore trionfa, ma anche la morte incede inclemente.
Mi è capitato di sentire rimproverare a La vita di Adele di non essere altro che un racconto di maturazione di
un'adolescente, con la sola cosa particolare che l'amore che vive è di natura lesbica. Questa "sola cosa" mi
sembrerebbe già da sé una grandissima cosa, se pensiamo che tutt'oggi in 78 paesi del mondo l'omosessualità è
considerata un reato e che in Italia le leggi sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso sono un miraggio
sepolto nell'ignavia.
Alessandra Levantesi Kezich. La Stampa
È interessante raffrontare La vita di Adele, Palma d’oro allo scorso festival di Cannes, con la graphic novel Il blu è
un colore caldo di Julie Maroh (Rizzoli Lizard) cui si ispira: perché, pur in spirito di sostanziale fedeltà, appare
evidente con quanta autorevolezza (e autorialità) il regista Abdellatif Kechiche abbia trasformato l’opaco
materiale della pagina in cinema palpitante di vita. Con quello stile fenomenologico, «en plein air» anche quando
realizzato in interni, che è il marchio del cinema francese da Renoir alla Nouvelle Vague fino agli attuali epigoni.
Com’è noto, il film racconta l’iniziazione sentimentale di Adele, una liceale di Lille che scopre la sua femminilità
fra le braccia di una ragazza dai capelli tinti di blu. Conferendole la sua morbida fisicità, la neofita Adele
Exarchopoulos incarna con straordinario coinvolgimento il personaggio assumendone sulla pelle il
temperamento passionale e l’ossessività amorosa (quasi fosse parente stretta di un’altra Adele, quella
indimenticata di Truffaut); mentre la ragazza dai capelli blu, Emma, è impersonata con seduttiva civetteria in
chiave di tomboy da Lea Seydoux. La quale - forse allarmata dall’eventuale impatto sul pubblico di alcune
esplicite scene di amplesso saffico - a ridosso dell’uscita francese ha lanciato contro Kechiche l’accusa di essere
un tirannico manipolatore.
Il che può essere anche vero, ma il punto è un altro: ai fini della storia c’era bisogno di sequenze di sesso tanto
insistite e dettagliate? A noi pare che uno stile più sorvegliato e qualche taglio avrebbero giovato, però Kechiche
è così, prendere o lasciare. Impegnato a cogliere la vita nel suo fluire, in modo da far dimenticare l’artificio
narrativo e senza badare alla durata (175 minuti), se ne resta con l’obiettivo incollato addosso alle sue
protagoniste incalzandole in un susseguirsi di primi piani (...) e tuttavia il bello (e, volendo, il limite) del film resta
quello della sua impressionistica, naturalistica pregnanza formale.
Julien Gester. Libération
Quello che si spera sempre di vedere durante un festival è un film che s’innalzi sopra gli altri, un grande film
capace di farci dimenticare tutto il resto, soprattutto in annate particolarmente cupe. Ed eccolo qui, dopo otto
giorni di proiezioni a Cannes (un periodo che in termini di festival equivale a un secolo), un film che vale anche
come gesto di riconciliazione. Riconciliazione con il concorso di Cannes, fino a quel momento ancora in cerca di
eccellenza, ma soprattutto con il cinema di Kechiche, dopo le ultime deludenti esperienze. Un cinema di cui La
vie d’Adèle costituisce allo stesso tempo l’opera più riflessiva e più sconvolgente. Sembra quasi che Kechiche,
dopo il fallimento della sua Venere nera, sia voluto tornare alle fonti della sua poetica, nel territorio
marivaudiano di La schivata, il film del 2004 che l’ha rivelato al grande pubblico. Un tuffo nel passato, necessario
per poter andare avanti. Ed è proprio grazie alla ferocia con cui ha affrontato questa operazione che è riuscito a
raggiungere una dolcezza e una pienezza mai sperimentate prima.
Alessia Starace. Movieplayer
Adèle è un'adolescente graziosa, intelligente, sensibile, ingorda di cibo, di sensazioni, di informazioni e di vita, ma
molto confusa. Un flirt con il compagno di scuola Thomas le lascia un'inspiegabile insoddisfazione. Perché da
qualche parte, in città, c'è una ragazza con i capelli tinti di blu intravista per la strada con cui Adèle ha sentito
scoccare la scintilla, come ne La vie de Marianne di Marivaux.
Riuscirà a ritrovarla in un locale gay (...). La vita di Adèle è tratto molto liberamente dalla graphic novel di Le bleu
est une couleur chaude di Julie Maroh, la cui storyline si fonde, nel progetto di Kechiche, con un altro soggetto
concepito dal regista franco-tunisino, dedicato al percorso di una donna che desidera insegnare; e il tema della
storia d'amore si appaia alla perfezione con l'altro, perché Adèle è stata ispirata dai suoi migliori docenti, ma la
sua insegnante più importante è Emma. Il loro rapporto così completo e stimolante, negli aspetti intellettuali
come in quelli fisici, è il cuore del racconto ampio e vibrante di Kechiche, che s'incolla alla sua eroina senza
lasciarla un secondo, tanto che non abbiamo alcun bisogno di leggere le pagine del suo diario segreto: di rado
abbiamo visto un personaggio sviscerato tanto profondamente, indagato senza tregua, con esiti tanto avvincenti.
Kechiche chiede molto alle sue interpreti, a Léa Seydoux che modula la sua incontenibile femminilità sulle
frequenze insolite del suo personaggio, una donna ancora molto giovane ma con una matura coscienza di sé, del
mondo e della sua sessualità, ma soprattutto ad Adèle Exarchopoulos, diciannove anni, che dimentica l'estraneo
che la spia, dimentica di stare recitando; scompare nella sua omonima, assorbe, va in estasi, soffre, singhiozza,
cambia e cresce di fronte a noi ben oltre i suoi anni. Il risultato è la vita, o meglio, i primi due capitoli della vita,
raccontati in tre ore. Da un autentico maestro.
Roy Menarini. Mymovies
Per il momento, le uniche voci di dissenso su La vita di Adèle di Abdellatif Kechiche provengono da ambiti (…):
l'autrice del fumetto da cui La vita di Adèle è tratto, la quale (...) critica le scene erotiche bollandole come il frutto
di uno sguardo maschile, un po' da voyeur, lontano dallo spirito dei suoi disegni. Chi ha apprezzato il film, invece,
a cominciare dalla giuria di Cannes che lo ha premiato con la Palma d'Oro, ha preferito (...) plaudire al lavoro di
Kechiche senza se e senza ma.
In queste righe, invece, vorremmo provare a discutere questo consenso. Su che cosa poggia il coro di lodi per La
vita di Adèle? Se facessimo un regesto delle recensioni positive, scopriremmo che si elogia primariamente la
naturalezza espressiva, la verità dei corpi, la genuinità del mondo narrato, il realismo dell'interpretazione (ed è
paradossalmente a questa ricerca che Kechiche sembra aver sacrificato diritti e tempo libero dei suoi
collaboratori, per superare la dimensione professionale del cinema e giungere al nocciolo del vero, prima di tutto
con le generose attrici). Tutto chiaro? Ma il cinema è sempre e comunque un costrutto, e in La vita di Adèle più
che mai: sebbene le tre ore di durata suggeriscano che la narrazione segua il corso puro della vita, con pasti,
dialoghi e momenti erotici lunghissimi per rispettarne l'autenticità, Kechiche opera continuamente cesure di
luogo, spazio, racconto: decide in maniera imperativa di sottrarci informazioni su Adèle nella seconda parte del
film (dove sono finiti i genitori? che ne è delle amiche? che cosa succede al suo amante collega scolastico?), di
tagliare a piacimento il tempo del racconto (quanto tempo passa tra i due capitoli? E quanto dopo la crisi tra le
due ragazze?), di segmentare in sottosequenze le tanto chiacchierate scene di sesso, di illuminare i corpi e di
riprendere le gesta erotiche secondo precise scelte estetiche (quelle che hanno fatto parlare, non del tutto a
torto, di dubbia messa in scena softcore), e così via. Si dirà che l'autentico nel cinema proviene dall'effetto
psicologico della regia e della recitazione, non dai dispositivi. È vero, ma in questo caso a ciascun spettatore è
lasciato il diritto di sentirsi coinvolto oppure no. Che ne è dello spettatore che non viene toccato dalla vicenda di
Adèle? Il film di Kechiche è bello solo se ci si "entra" ed è meno epocale per chi non riesce a trovare una
sintonia? Non ci sono altri valori, per così dire più oggettivi, in gioco?
La sensazione è proprio questa. Se il cinema, e film come questo, puntano ossessivamente su una promessa di
verità, su un procedimento di realismo psicologico e di messa in gioco dei corpi, allora la posta si alza, e lodi o
critiche proverranno esclusivamente dal grado di assorbimento del singolo spettatore.
Un'ultima annotazione: La vita di Adèle è punteggiato dal tema dell'apprendimento. Il liceo, prima; l'asilo e la
scuola, poi; e citazioni da Marivaux, Sartre, De Laclos. Forse Kechiche ci suggerisce che nulla può sopperire
all'esperienza umana, e che dobbiamo affrontare lezioni di vero prima di poterci dire maturi? Il cinema, ancora
oggi, ci propone di reimparare la vita da capo, dall'ABC e dunque si può permettere di raccontare sempre la
stessa storia? Ipotesi suggestiva, anche per i meno entusiasti del suo film.