Antigone, o dell`uomo

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Antigone, o dell`uomo
Antigone, o dell’uomo
Piccola introduzione ad un grande classico
di Francesco Morosi
‘H δύναμή σου πέλαγο κι’ ἡ θέλησή μου βράχος.
La tua forza un oceano, e scoglio il mio volere.
D. Salomòs, Abbozzo B, fr. 51 (trad. F. Pontani)
E’ l’alba a Tebe, un’alba di vittoria: l’assedio argivo è stato sventato, e i raggi del sole annunciano il
ritorno della pace. Ma un nuovo dramma ha colpito il genos di Edipo: i suoi due figli, Eteocle e Polinice, si sono appena uccisi «con reciproca mano», davanti alla settima porta della città, come racconta anche Eschilo nei Sette. Creonte, nuovo stratego della città, ha decretato la sepoltura per
Eteocle, assurto ad eroe cittadino, e, invece, la pena più grave per il traditore Polinice: la condanna
a restare insepolto. Una condanna inappellabile per tutti, tranne che per Antigone. Ella decide, sola,
anche contro il parere della sorella Ismene, di dare, con un gesto di disobbedienza civile, sepoltura
al fratello condannato dalla città ad essere «pasto per cani e uccelli». Il suo atto di pietà familiare
diventa però inevitabilmente una sfida al potere di Creonte, che la condanna ad una sorta di contrappasso dantesco - morire sepolta viva. A tale decisione si opporrà anche il figlio Emone, promesso sposo di Antigone; ma invano. Creonte, sordo persino alla voce del dio, ancora una volta incarnata dall’indovino Tiresia, va incontro alla peggiore delle pene: scoperto il suicidio dell’amata, Emone
si toglierà anch’egli la vita, seguito dalla madre, e lascerà il padre solo al suo dolore.
Andata in scena nell’Atene periclea del 442 a.C., Antigone è uno dei più grandi testi della letteratura
di tutti i tempi. Sofocle rappresenta, con vertiginosa profondità, tutti i più laceranti conflitti della
natura umana: lo scontro fra morale e nomos, fra giovani e vecchi, fra vivi e morti, fra pietas e rispetto delle regole. Concentrato in un unico, grandissimo, personaggio, e nel suo caparbio scontro
con gli altri, emerge il senso stesso dell’esistenza umana, una misteriosa linea d’ombra tra libertà e
necessità, tra legge degli uomini e legge degli dei, un problematico intervallo che costituisce l’orizzonte prediletto della tragedia sofoclea. Ossessionata dal miasma che incombe sulla sua stirpe, oppressa dal dubbio esistenziale, Antigone si sforza di ascoltare gli ultrasuoni morali del divino e del
Giusto, e, nel suo scontro con Creonte, ci obbliga a interrogarci sui fondamentali del nostro essere
uomini, in rapporto ai nostri cari e alla nostra comunità, o, come sintetizzava Hegel, al nostro Essere e al nostro Agire. Antigone parla, anzitutto, ai nostri universali: ecco perché, nei secoli, è stata
letta come tragedia della necessità, tragedia della libertà, manifesto proto-femminista, invito alla
ribellione politica, riflessione sui morti, riflessione sui vivi... La sua grandezza forse sta proprio nell’essere tutto ciò nello stesso tempo.
Pollà tà deinà: tante sono le cose tremende - ma anche eccezionali - dell’uomo, riflette Sofocle nel
celeberrimo stasimo. E in effetti l’abisso che si apre alla riflessione è spaventoso, più che in molte
altre tragedie: si può commettere un «santo delitto» (ὅσια πανουργήσασα)? Quali sono i limiti
della nostra morale? Che fare quando princìpi opposti ma equipollenti confliggono? Lo scontro è
vertiginoso, arriva al parossismo, ci travolge completamente. E in tutto ciò, l’esempio di Antigone
ci guida: anziché chiudersi nell’ἀμηχανία, in un silenzio impotente, prende posizione, combatte,
difende la sua decisione con coerenza estrema, fatale. In un’epoca che ci obbliga alle scelte, Antigone ci chiama, con sempre maggiore urgenza, proprio a questo: ad essere radicali nei nostri interrogativi, nei nostri dubbi, per preparare un tempo più giusto, migliore: pollà tà deinà, per l’appunto.