note di regia - Volti dal Kaos

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note di regia - Volti dal Kaos
L'OPERA DI ANTIGONE
PERSONAGGI DEL DRAMMA
I AEDO
II AEDO
III AEDO
IV AEDO
ANTIGONE, figlia di Edipo
ISMENE, figlia di Edipo
CREONTE, re di Tebe
GUARDIA
EMONE, figlio di Creonte
TIRESIA, indovino tebano
MESSAGGERO
EURIDICE, moglie di Creonte
I ANCELLA
II ANCELLA
EDIPO
ETEOCLE, figlio di Edipo
POLINICE, figlio di Edipo
LACHESI, Moira che trae il filo dalla conocchia
CLOTO, Moira che fila
ATROPO, Moira che recide il filo
CORO DI CITTADINI TEBANI
Regia:
Gianpaolo Bellanca
Drammaturgia:
Gianpaolo Bellanca - Myriam Leone
Traduzione dal Greco antico:
Myriam Leone
Disegno di copertina:
Nicoletta Torregrossa
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Antigone di Sofocle: la trama
Prima di morire, il vecchio re Edipo scaglia una maledizione sui suoi due figli, Eteocle e Polinice: i
due fratelli, che avrebbero dovuto governare un anno l'uno su Tebe, si sarebbero uccisi a vicenda
presso una delle sette porte della città. Alla sua morte si compiono queste parole, ma Eteocle
muore in difesa della sua patria, Polinice, invece, combattendole contro, dal momento che il
fratello si era rifiutato di cedergli il regno come avevano concordato. Il nuovo sovrano di Tebe,
Creonte, zio di entrambi, ordina di concedere i più solenni onori funebri ad Eteocle ma di lasciare
insepolto il corpo di Polinice: chiunque avesse tentato di seppellirlo sarebbe stato messo a morte.
Antigone, sorella dei due giovani, non riesce ad accettare questo bando e, dopo aver cercato
invano la complicità della sorella Ismene, da sola va a ricoprire di terra il cadavere del fratello.
Scoperta e portata dinanzi allo zio, la fanciulla difende le sue ragioni affermando che entrambi i
morti erano suoi fratelli e che, seguendo la legge del suo cuore contro quella della città, non poteva
lasciare insepolto il corpo di Polinice. Creonte, pur trovandosi dinanzi alla nipote, nonché
promessa sposa del figlio Emone, deve far rispettare il nomos cittadino e, così, condanna a morte la
fanciulla, chiudendola viva in una grotta. Sopraggiunge a questo punto Tiresia, il cieco indovino di
Tebe, che intima al sovrano di liberare immediatamente Antigone, altrimenti tremende sciagure si
abbatteranno sulla sua casa. Creonte, atterrito dalle parole del profeta, corre dalla nipote, ma ormai
è troppo tardi: la ragazza si è impiccata e il giovane Emone, privato della sua sposa, si uccide
vicino al corpo della fanciulla. Ma per il re i lutti non sono ancora finiti: anche la moglie Euridice,
ricevuta la notizia della morte del figlio, si toglie la vita. Creonte, rimane così drammaticamente
solo sulla scena, piangendo la sua ostinazione e la sua incapacità ad ascoltare le ragioni altrui.
L’opera di Antigone: la messa in scena
L'Antigone di Sofocle, una delle più note opere della drammaturgia greca, venne definita dal
filosofo Hegel "la tragedia sublime per eccellenza e, sotto ogni punto di vista, l'opera più perfetta
che lo spirito umano abbia mai prodotto". Rappresentata per la prima volta ad Atene nelle Grandi
Dionisie del 442 a.C., fu successivamente ripresa e interpretata anche da numerosi autori della
modernità.
L’intuizione fondante della nostra messa in scena è che la storia di Antigone possa essere narrata
come una vicenda dell’opera dei pupi, mantenendo lo statuto drammatico dei personaggi e del
racconto. Pertanto i protagonisti della scena tebana divengono pupi manovrati da quattro pupari,
personaggi la cui identità, così come la lingua che parlano, oscilla fra quella di cuntastorie siciliani e
di aedi greci che, di volta in volta, partecipano alle vicende della casa tebana.
La trama è stata contaminata con alcuni episodi tratti dai Sette contro Tebe di Eschilo, dramma che,
in qualche modo, rappresenta l'antefatto alle vicende di Antigone: così i due fratelli, Eteocle e
Polinice, che nella tragedia di Sofocle non figurano in quanto già morti, ricompaiono qui per
narrare la loro storia e le motivazioni che li hanno condotti all'uccisione reciproca.
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 Le Moire danzanti
Nella nostra messa in scena compaiono tre personaggi femminili che simboleggiano le Moire (o
Parche), Lachesi, Cloto e Atropo. Si tratta di divinità a servizio dell'Ade che, anche in scena, filano
il destino degli uomini scandendone i momenti essenziali con la loro danza fatale: nessuna di esse
apre bocca, ma attraverso i gesti e i movimenti del proprio corpo ciascuna tesse i fili
dell'ineluttabile che incombe su ogni individuo, svolgendoli fino a reciderli così da determinarne la
morte. In particolare Lachesi trae il filo dalla conocchia, Cloto lo tesse e Atropo lo recide. Il destino
della casa dei Labdacidi, dal capostipite fino ai disgraziati figli di Edipo, è infatti oscuramente
gravato dal fato alla cui tremenda potenza nulla può sfuggire, come afferma amaramente il coro
nel quarto stasimo.
 L'ambigua presenza di Tiresia
Tiresia, il cieco indovino di Tebe, secondo la mitologia greca era uno dei pochi esseri umani ad
avere provato personalmente la bisessualità. Infatti un giorno, passeggiando sul monte Cillene,
vide due serpenti nell'atto di accoppiarsi e, infastidito da quella scena, colpì con un bastone la
femmina uccidendola: da quel momento, egli venne trasformato in donna diventando una celebre
prostituta. Visse in questa condizione per sette anni, al termine dei quali, ritrovandosi nello stesso
luogo dinanzi alla medesima scena dei serpenti, colpì il maschio, recuperando così la sua
precedente virilità. Egli, dunque, da uomo diventò donna per poi ritornare ad essere uomo, come
se i due generi, maschile e femminile, si generassero a partire da un'identità unitaria. Pertanto il
vecchio indovino, sia per la sua esperienza personale sia in quanto esponente del mondo della
profezia, è individuato da un'intrinseca ambiguità.
Nella nostra messa in scena, il suo personaggio è stato sdoppiato nelle due metà che lo
caratterizzano, ma quella maschile, come kofon prosopon (maschera muta della tragedia greca), tace
per tutto il tempo, costituendo un presagio di morte con il suo silenzio e la sua inquietante
presenza. La parte femminile, al contrario, in preda all’estasi divinatoria parlerà, ma soltanto in
lingua greca, riproducendo, così, l'incomprensibilità dell'antico linguaggio profetico, e
accompagnerà le sue funeste rivelazioni con dei movimenti del corpo convulsi, scanditi dal delirio.
Il Greco in cui si esprimerà Tiresia è il dialetto attico, recitato con una forma metrica particolare: si
tratta, infatti, di un trimetro giambico in cui non vengono accentate tutte le sillabe lunghe, come
propongono alcuni metricologi. Vengono posti tre accenti primari sui tre "piedi dispari", secondo
l'ipotesi di alcuni noti filologi fra i quali Giusto Monaco. La voce femminile del profeta, in questo
modo, mira a riprodurre le sonorità del verso sofocleo. Nell'ultima parte della sua scena, tuttavia,
in preda all'estasi divinatoria Tiresia infrange il ritmo della metrica e comincia a pronunciare
soltanto alcune parole enfatizzandole in maniera particolare, fino a raggiungere il culmine della
profezia in cui, gradatamente, riacquisirà la padronanza dei trimetri.
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 L'alternanza degli stasimi corali
I cinque stasimi della tragedia, ossia gli intermezzi del coro (costituito da cittadini tebani), nella
nostra messa in scena, oltre ad essere recitati, vengono contestualmente danzati e cantati, così da
sottolineare, attraverso i movimenti e le parole dei corifei, una precisa idea di fondo, diversa di
volta in volta.
Così il primo stasimo evidenzia il prodigio della condizione umana sulla terra che tuttavia è
destinata a soccombere: l'uomo, infatti, per quanti rimedi abbia sempre trovato dinanzi ad
inguaribili mali, non riuscirà a sfuggire alla morte. I corifei sottolineano tale idea attraverso la
concitazione delle loro parole e dei loro movimenti.
Nel secondo stasimo, invece, si avverte l'approssimarsi della sciagura, che giunge ora a tormentare
gli ultimi discendenti di Edipo: per delineare meglio il peso della minaccia incombente è stato
inserito un brano in cuntu siciliano, tecnica narrativa che, col suo ritmo serrato, trasmette un senso
di ansia e disperazione.
Il terzo stasimo inneggia alla potenza di Eros e alla sua capacità di possedere e sconvolgere le
menti dei mortali: per questa ragione i movimenti del coro simboleggiano una danza sensuale.
Il quarto intermezzo sottolinea l'idea dell'ineluttabilità del fato, la cui tremenda presenza incombe
su ogni essere vivente, mortale o immortale, senza che nessuno possa sfuggirle: la danza dei
corifei, qui, accompagna quella delle Moire, divinità spietate e immortali sacerdotesse del destino.
Infine il quinto stasimo celebra l'entusiasmo dionisiaco: il coro, con una vivace e frenetica danza,
appare preda dell'invasamento del dio, e con la sua letizia sembra contrastare la sciagura che sta
per abbattersi, ancora una volta, sulla casa tebana.
Nella nostra messa in scena, per la maggior parte del dramma i corifei volgeranno le spalle ad
Antigone, così da sottolineare una presa di distanza dal suo gesto e dalle sue parole: tuttavia,
l'emarginazione della fanciulla non è sentita da tutti allo stesso modo, e la drammaturgia di Sofocle
ammette anche atteggiamenti diversi da parte di qualcuno dei cittadini, consapevole della
profondità della scelta di Antigone. Allora, forse sono solo la paura e la viltà a provocare
l'isolamento di quest'ultima.
 "Molte sono le cose tremende, ma nessuna lo è più dell'uomo"
Nel messaggio finale dell'opera, anch'esso affidato alle parole degli aedi, prevale la condanna
rivolta all'ostinazione e all'incapacità di cambiare idea confrontandosi e ascoltando le ragioni
altrui: tale forma di rigidità conduce l'uomo alla solitudine e alla disperazione, come accade a
Creonte che, inizialmente potente e rispettato da tutti, rimane, alla fine del dramma, vittima della
sua stessa stoltezza. Il coro assiste sgomento a tale declino, traendo da questo una dura lezione:
guardando alla fine del re di Tebe, su cui si è abbattuta la peggiore delle sorti, per essere felici
occorre essere saggi, dal momento che stolto è chi non ascolta e non si confronta col pensiero altrui.
Nel dramma l'essere umano si configura come una creatura ambigua, dotato di grandi risorse ma
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anche in grado di provocare gravissimi mali e, per quanto abile e potente, sempre soggetto
all'oscura forza del destino. È questa l'idea centrale del primo stasimo: l'aggettivo greco deinòs,
riferito all'uomo, indica qualcosa di prodigioso e, contestualmente, di terribile, tale da incutere
timore e inquietudine. Così, mentre i personaggi della casa tebana, come pupi manovrati, uno alla
volta, tornano al proprio posto sulla scena, i pupari si avviano a concludere lo spettacolo
riprendendo alcune delle espressioni più incisive della tragedia. Attraverso una serie di frasi
convulse, gli aedi ripercorrono i momenti più gravi della vicenda di Antigone, e la loro
rivisitazione della storia giunge ad una tale mescolanza di immagini da assumere nuovamente la
forma di un cuntu. Ma questa volta, la frenesia del ritmo si mescola, in maniera più pacata, ai
contenuti della morale sofoclea: "Molte sono le cose tremende, ma nessuna lo è più dell'uomo!". E
con l'ambiguità di tale giudizio, lasciandosi alle spalle i pupi ormai inanimati, i quattro aedi /pupari
si ritirano concludendo loro racconto.
Gianpaolo Bellanca - Myriam Leone
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