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Prologo
Jack
La porta che sbatte dopo l’uscita di scena di Andy sembra risvegliare tutti dal torpore. Tranne me. Il cuore mi batte fortissimo,
mi tremano le mani e ho lo stomaco in subbuglio, ma non mi
muovo.
«Cristo» dice Devon, che con passo svelto mi raggiunge e si
mette al mio fianco: l’unico amico che mi è rimasto, a quanto
pare. «Dobbiamo chiamare Sheila, immediatamente, direi. Per
arginare i danni. Non mi sono mai fidato di quel nanetto malefico.» Fa un cenno con la testa per indicare l’agente che ho
appena licenziato.
Ripasso mentalmente tutta la scena. L’ espressione compiaciuta di Andy mentre si congratula con se stesso per avermi
rimesso in riga con la storia della finta gravidanza della mia
ragazza. Ragazza? Qualsiasi cosa dica il contratto, la mia relazione con Audrey ha esalato l’ultimo respiro.
Non appena sento menzionare il nome di Sheila, la mia addetta stampa, alzo lo sguardo e fisso Audrey negli occhi. Se ne
sta lì, impalata. Immagino non sappia bene cosa fare, visto il
mio scatto d’ira. Ha gli occhioni scuri pieni di lacrime. Quegli
stessi occhi da cui mi sono fatto fregare in passato. «O magari
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Sheila sa già tutto, Audrey? Era coinvolta anche lei in questa
farsa della gravidanza? Lavoravate in squadra per “tenere sotto
scacco” il povero, sprovveduto Jack Eversea?» Ho la voce rauca
come se mi fossi appena sgolato. Cosa che avrei tanto voluto
fare.
Lei scuote la testa con decisione, mentre una lacrima le scorre lungo una guancia.
Digrigno i denti, cercando di combattere l’istinto di consolarla e di proteggerla come ho sempre fatto fin da quando, anni
fa, è iniziata la nostra finta storia d’amore, pianificata a tavolino
da un contratto cinematografico, per dare ai fan una vicenda
romantica a cui appassionarsi. Era un’amica, di tanto in tanto
anche qualcosa in più. Una compagna. O così pensavo.
Devon sta scrivendo sul telefono.
Nonostante tutto quello che è successo, ancora mi riesce
difficile credere che Audrey mi abbia mentito in questo modo,
proprio su una cosa del genere.
«No, Jack. Non sono stata io, ha fatto tutto Andy» prova a
dirmi.
«Ma per favore, Audrey, almeno fammi il cavolo di piacere
di essere onesta.»
«Ti giuro che…»
La zittisco con un cenno.
«Aspetta, Jack» mi supplica. «Io ho fatto la mia parte, lo
ammetto, ma l’idea era sua. Mi sono fidata di lui perché avevo…
un ritardo.»
Accuso il colpo. Mio Dio. Aveva un ritardo. Ma certo. Sono
del tutto colpevole. Ecco perché le ho creduto subito. Ecco perché me ne sono andato da Butler Cove. La consapevolezza di
aver contribuito a quel casino frena la mia rabbia, lasciandosi
dietro una scia incandescente di sensi di colpa, seguita da una
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dose massiccia di panico. «Quindi…» inizio, cercando di controllare il più possibile il tono di voce. «Quindi sei ancora… In
ritardo?» Non riesco più a dire «incinta». Dopo il discorso di
Andy ho dato per scontato che non lo fosse, ma…
Audrey singhiozza e d’istinto faccio un passo verso di lei, ma
mi trattengo giusto in tempo. Mi prendo un attimo per guardarla attentamente e quello che vedo è un sincero rimorso. Sebbene
abbia il viso rosso e gonfio di pianto, è ancora bellissima con
quel vestito bianco e le morbide onde dei lunghi capelli castani
che le ricadono sulle spalle. E se ne approfitta, lo so bene. Si
approfitta del fatto di essere bella e di avere… dei trascorsi con
me. Però è anche dispiaciuta, lo vedo.
Solo in quel momento mi viene in mente che Audrey, oltre
ad adempiere alla clausola di un contratto che ci voleva amici
un po’ speciali, potesse essersi davvero innamorata di me.
Le sue parole riaffiorano a frammenti, assumendo un nuovo
significato. Su quanto eravamo adatti l’uno all’altra, su come
sarebbe stato buffo se un giorno ci fossimo davvero sposati e
avessimo costruito una famiglia, sul fatto che avremmo formato
una bella coppia basata sul rispetto e sull’amicizia.
Al pensiero che potrebbe essere incinta sul serio, nonostante
Andy abbia usato la notizia a suo vantaggio, mi viene un nodo
in gola. No, non lo è. Non sarebbe finita com’è finita, se lo
fosse. Ho la sensazione di trovarmi in uno strano sogno in cui
annego e la zattera di salvataggio è proprio lì, vicino a me, ma
non riesco a raggiungerla.
Espiro profondamente, stringo il pugno della mano buona
e quando provo a fare lo stesso con quella malconcia avverto
una scarica di dolore.
Audrey china la testa. «L’ ho perso. Ho perso il bambino»
mormora con voce rotta.
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Sento una stretta violenta allo stomaco, diviso tra un sollievo
disgustosamente piacevole e la fortissima pressione del senso
di colpa. Stringo il labbro tra i denti e mordo forte, cercando di
ricompormi. «Quando? E stai… stai bene?» riesco a dire alla fine. Sono vagamente consapevole che nella stanza siamo rimasti
solo noi, gli altri grazie al cielo devono essere usciti di soppiatto.
Abbassa gli occhi, esita un momento. «Quando eravamo a
Londra.»
Il mio primo istinto è di non crederle, poi ricordo di quando era scoppiata a piangere nel bagno del Lanesborough Hotel.
Quel giorno mi stavo comportando come uno stronzo con lei
e con chiunque altro. Ero arrabbiato con me stesso perché non
avevo chiamato mia madre, anche se viveva a meno di due ore
di distanza e sapeva che mi trovavo lì. Fuori c’era un inferno
di giornalisti e mi sentivo una tigre in gabbia. Fortunatamente
dovevamo fermarci solo due notti, per poi proseguire verso
Parigi.
«Mi dispiace. Avrei dovuto capirlo.» Mi passo la mano buona
tra i capelli e lascio cadere la testa in avanti per un attimo. Due
o tre gocce di sangue macchiano la mia camicia bianca.
Audrey ha un altro singulto e muove un paio di passi verso
di me.
Non la fermo e non mi scosto, lei continua ad avanzare,
allora io apro le braccia e accolgo il suo corpo alto e snello. Ma
anche dopo tutti questi mesi, anche in mezzo a tutto questo
schifo, mi ritrovo a desiderare di abbracciare una ragazza più
minuta, una ragazza la cui semplice vista mi manda fuori di
testa e che forse non terrò mai più tra le braccia in questo modo.
Strizzo gli occhi.
Le spalle di Audrey sussultano per il pianto, la sento tirare
su con il naso. «Ti amo, Jack.»
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Mi irrigidisco e la scosto appena dal mio petto per guardarla
in faccia. Sono allarmato: anche se in questo momento sta soffrendo, con Audrey bisogna sempre essere cauti. L’ ho già vista
far fronte a possibili minacce alla sua carriera e in questo caso
la minaccia sono io. Devo riuscire a risolvere tutto in maniera
amichevole, eppure da come mi guarda mi rendo conto che lei
non è dello stesso avviso.
«Dacci solo un po’ di tempo, Jack. Torneremo com’eravamo
prima, quando anche tu mi amavi e io non ti avevo ancora
ferito.»
Il cuore mi batte all’impazzata. Dio mio, non mi conosce per
niente. «Audrey» mormoro con più delicatezza possibile, anche
se so che non esiste un modo indolore per dire questa cosa. «Ci
tenevo a te, ci tengo ancora, e ti voglio bene, davvero. Ma non
sono mai stato innamorato di te.»
I suoi occhi si fanno enormi.
So bene che sto peggiorando le cose, ma a quanto pare non
riesco a fermarmi. È come una fuga verso il traguardo. «Era il
mio orgoglio, più che altro, a sentirsi ferito.»
Lo schiaffo che atterra sulla mia guancia sinistra è rapido e
doloroso.
Sembra che sia un mio talento naturale provocare questo
tipo di reazioni nelle donne. Non mi muovo, ma lei non ha
ancora finito. Il suo viso si contrae in una maschera di rabbia
e senza rendermene conto mi ritrovo a bloccare il suo pugno a
mezz’aria, afferrandolo con la mano sana e stringendolo forte.
«Bastardo» mi ringhia in faccia, poi ci prova con l’altra
mano.
Oscillo all’indietro. «Datti una calmata, Audrey.»
«No, non mi do una calmata» strilla. I suoi occhioni da
cerbiatta di ordinanza, progettati per ispirare empatia, si
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sono trasformati in strette fessure cariche di risentimento. Si
divincola dalla mia presa. «Non ti permetterò di farmi questo!»
«Farti cosa, Audrey? Riprendermi la mia vita? Ignorare uno
stupido contratto? I film sono finiti ormai.» Stringo i denti e
termino la frase. «Noi siamo finiti. Siamo finiti da secoli. Non
so esattamente quale sia la definizione di relazione sana, ma
credimi, noi non ce l’abbiamo.»
«No. Non puoi farmi questo! Non con lei.»
«Non azzardarti a metterla in mezzo.» La mia voce rimbomba come un tuono, facendola sobbalzare.
Incrocia le braccia sul petto, ha le guance gonfie e arrossate.
Si sta riprendendo in fretta. «Io faccio quello che accidenti mi
pare. Ma tu no. Credi che Andy se ne starà buono buono, ora
che l’hai licenziato? Credi che io ti lascerò andare così? Siamo
una squadra, Jack. E siamo molto più potenti insieme di quando
siamo separati. Tu hai bisogno di me. Magari non te ne accorgi,
ma credimi, è così. E sai perché? Perché se te ne vai farò in modo
che tu non abbia più una carriera. Hai pensato a come sarà per
la tua dolce, povera ragazza di campagna avere i paparazzi alle
costole ventiquattr’ore su ventiquattro? Finora non ho voluto
fare soffiate per non attirare l’attenzione su di lei, ma magari,
raccontata nel modo giusto…» La sua voce si spegne, mentre
tamburella un dito sul mento con aria pensosa.
La ascolto ammutolito, mentre il suo viso diventa sempre
più sgradevole a ogni parola che pronuncia. Serro la mandibola
con tutta la forza che ho, per evitare di dare in escandescenze
anch’io. Scuoto la testa.
Audrey si volta verso una persona immaginaria accanto a
lei. «Jack Eversea è stato così freddo e senza cuore che mi ha
letteralmente spinta tra le braccia di un altro uomo.» Simula
un tono lamentoso e dolente. «Mi sono sentita emotivamente
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violata.» Tira su con il naso in maniera plateale e guarda altrove
per un momento. Poi ritorna a fissare il suo interlocutore con gli
occhi umidi, mentre una lacrima le scende lungo la guancia. «E
la cosa più orribile è che mi ha messo incinta e poi, quando ho
perso il bambino, è stato così crudele, era talmente sollevato…
Si è messo a ridere e mi ha detto che non è mai stato innamorato
di me. Si è messo a ridere, capite?»
Si lancia in un ennesimo sospiro. «Per tutto il tempo, mentre credevo che stessimo insieme, lui si portava a letto le sue
sgualdrine, cameriere che rimediava in ogni dove. Ce n’è stata
una in particolare…» Si ferma e mi guarda. «Be’, ho reso l’idea
di dove posso arrivare.»
Si asciuga accuratamente gli occhi e poi, di colpo, scoppia
in una risata stridula. «La tua espressione è impagabile, Jack.»
Faccio un passo indietro e inciampo in una sedia, cadendoci sopra con sollievo. Ho bisogno di qualche secondo per
recuperare la lucidità. La mano mi fa un male terribile, ma ora
come ora è questa versione di Audrey, una mina vagante, a terrorizzarmi di più.
Non so come possano fare lei e Andy a mandare all’aria la
mia carriera, ma quello di cui mi sta minacciando è davvero
terribile, e sono abbastanza sicuro che Audrey ci abbia riflettuto
a lungo e che abbia altri assi nella manica.
Ripenso ai miei inizi, a tutti quegli stupidi festini, alle droghe. Se la Peak Entertainment dovesse avere anche il minimo
sospetto che ci sono ancora dentro, mi scaricherebbe in quattro
e quattr’otto. Di certo l’assicurazione non copre queste cose, e
comunque era una conditio sine qua non del ciclo di Erath, e
anche dei prossimi film in contratto.
Se la Peak mi caccia, neanche i produttori più piccoli mi
vorranno più. In questa città il pettegolezzo regna sovrano. Ma
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la cosa peggiore è che potrebbero farmi causa per riavere quello
che mi hanno dato finora, e Audrey lo sa.
È in questo momento che capisco che direbbe qualsiasi cosa,
inventerebbe qualsiasi storia, pur di farmi stare alle sue regole.
Sono sempre stato consapevole del rischio che la situazione
potesse precipitare, ma sinceramente non ho mai pensato davvero che il nemico potesse essere proprio lei, che sarebbe stata
lei a darmi il colpo di grazia. Credevo che un giorno entrambi
avremmo desiderato di essere più liberi, e che avremmo trovato
insieme un modo per rompere l’accordo.
Come ho potuto essere ingenuo su così tante cose? E se conosco bene Audrey le minacce a Keri Ann non sono solo parole
e non sarà una cosa da poco. La annienterà.
Chino la testa e faccio un bel respiro, cercando di calmarmi.
Direi che per stasera un pugno alla parete può bastare. Non
so come persuadere Audrey a non farmi questo. Non vorrei
arrivare a tanto, ma so che manderò tutto all’aria se necessario.
Ci ero già quasi riuscito, finché non è arrivato il bambino. Il
bambino che non è mai esistito.
Ci vorrà un po’ prima che la gente superi tutta questa storia
e smetta di crocifiggermi sulla pubblica piazza. Se mai lo farà.
Dove me ne andrò questa volta? E quanto ci vorrà perché le
acque si calmino? A quel punto avrò perso sia la carriera che la
ragazza. Anzi, lei probabilmente l’ho già persa.
«Ti prego, Audrey…»
«Di cosa mi staresti pregando esattamente, Jack?» Nel suo
tono sprezzante non c’è alcuna traccia dei sentimenti feriti di
cui aveva fatto mostra qualche minuto prima.
Sollevo la testa di scatto e la guardo dritta negli occhi. «Ti
prego di lasciarmi il resto della mia vita.»
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Keri Ann
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Sette mesi dopo…
Tirai su i finestrini del pick-up, scrutando nervosamente le pance gonfie delle nuvole grigie sopra di me. Appena in tempo. La
prima enorme goccia si schiantò sul parabrezza, seguita da un
violentissimo diluvio: alle nuvole si erano rotte le acque.
Azionai i tergicristalli e scuotendo la testa diedi un’occhiata
al sole che risplendeva indisturbato in fondo alla strada. La
nonna diceva sempre «piove e c’è il sole, le vecchie fan l’amore». Io non avevo idea di cosa significasse e non ce l’ho tutt’ora,
ma sapevo che nel giro di pochi minuti sarebbe spuntato un
fantastico arcobaleno. Dovevo cercarlo. Quest’anno le piogge
di aprile non ci davano tregua.
Un suono squillante coprì il frastuono delle pesanti gocce
che cadevano sul tetto del furgoncino; mi misi a tastare alla cieca
sul sedile accanto a me cercando di non distogliere lo sguardo
dalla strada bagnata.
«Pronto.»
«Ehi, bellezza. Sei arrivata?» La voce profonda di Colton mi
rassicurò.
Incastrai il telefono tra il mento e la spalla per poter tenere
entrambe le mani sul volante, mentre l’asfalto diventava sempre
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più insidioso. «Sì, quasi. Odio guidare con la pioggia. Tu l’hai
scampata?»
«Per un pelo. Non capisco perché non hai voluto che ti
accompagnassi.»
«Lo so, Colt. Ma avrai di sicuro di meglio da fare che badare
alla sorellina del tuo migliore amico perché lui è troppo occupato
per tornare a casa. Così potrai tornare alle tue cose dopo avermi
aiutato a scaricare questa roba.»
All’altro capo del telefono solo silenzio.
«Colt?»
«Sì.» Si schiarì la voce. «Sono qui. Ho parcheggiato vicino
all’entrata di servizio. Quando arrivi di fronte al Westin, devi
fare il giro l’edificio, sulla sinistra» La linea si interruppe.
Mi lasciai scivolare il telefono sulle gambe e strizzai gli occhi sforzandomi di distinguere qualcosa attraverso la visuale
distorta dall’acqua. Ero stata una cretina a ritirar fuori la storia della sorellina, ma in teoria era Joey che doveva venire ad
aiutarmi a consegnare quelle opere per la mostra. Ed era stato
lui a chiamare Colt quando si era reso conto che non poteva,
incastrandomi per l’ennesima volta.
«Merda» borbottai. Non avrei dovuto accettare l’invito di
Colt a uscire, visto che per lui non sentivo niente. Era così
gentile. Oddio, di sicuro a Savannah c’erano diverse ragazze
che avrebbero avuto da ridire in proposito, ma con me era
gentile. Troppo gentile. Gli stavo dando false illusioni, e lo
sapevo. Eppure gliel’avevo detto più volte: non ero pronta per
una relazione seria.
Un mese prima, però, avevo capitolato. Be’, avevo accettato un suo invito a cena, un appuntamento, insomma.
Una cena. Che si era trasformata in un paio di altre cene,
e poi in un pranzo quando ero andata all’ufficio matricole
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del SAVANNAH COLLEGE OF ART AND DESIGN a consegnare dei
documenti, e poi in qualche film al cinema, gite in kayak di
sabato mattina, e che dire… in pratica ci stavamo frequentando. O almeno eravamo amichetti, come diceva la signora
Weaton, la mia anziana inquilina. Sbuffai alzando gli occhi al
cielo: mi sentivo in colpa. Ed era proprio per questa ragione che
non gli avevo chiesto di aiutarmi quel giorno.
Quando imboccai la William Hilton Parkway verso la Port
Royal Plantation la pioggia finalmente si fece meno intensa.
Cominciai a percorrere il viale alberato protetto dalle fronde
dei lecci incurvati.
«Abbiamo finito?» chiese Colt mentre scaricavo dal furgone
l’ultimo pezzo, la base di una mia scultura. Si era tagliato i capelli neri cortissimi, e sembrava un po’ un marine.
Annuii. «Devo solo assemblarne qualcuna. Questa, per
esempio» dissi sollevando appena la base. «Grazie mille per
l’aiuto, immagino che dovrai andare.»
Lui s’inclinò all’indietro e ficcò le dita nelle tasche anteriori dei jeans beige sdruciti. «Se per te non è un problema,
mi piacerebbe restare a guardarti.» Mi fissò con espressione
interrogativa.
«Ah, certo, perché no.»
«E dopo potrei offrirti una cena al View 32.» Si fermò un
attimo, sforzandosi di mantenere un tono innocente. «Visto
che siamo qui, dico.»
Scossi la testa appoggiando a terra la base che avevo in mano, ma in realtà stavo sorridendo. Non si dava mai per vinto.
«Non c’è bisogno che mi offri la cena, ma mangiare non sarebbe
male.»
Fece un sorrisetto soddisfatto e si avvicinò, mi accarezzò
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lievemente dietro la nuca e mi stampò un bacio in fronte. E
giuro, giuro, lo sentii inspirare appena il mio odore.
Mi scostai e gli diedi un’amichevole gomitata nelle costole.
Lavorai in fretta, e prima di tornare da Colt feci una visita
alla coordinatrice degli eventi, Allison, che avevo conosciuto a
dicembre all’inaugurazione della mia mostra alla Picture This
Gallery. In quell’occasione mi aveva invitato a partecipare alla
collettiva e tra pochissimo tempo sarei dovuta tornare a Hilton
Head Island per l’elegante cocktail party di cui ero uno degli
ospiti d’onore. Mi sembrava tutto assolutamente surreale. Per
non parlare del fatto che i miei meravigliosi amici di Butler
Cove avevano già saccheggiato tutti i negozi che affittavano
abiti da cerimonia. Chissà cosa avrei indossato io. Ogni volta
che ci pensavo entravo nel panico più totale, quindi cercavo
di evitare. E adesso che la festa era dietro l’angolo, ero ancora
senza un vestito.
Colt non era rimasto dove l’avevo lasciato, così percorsi la
passerella che costeggiava la piscina e proseguii verso il ristorante. Lo trovai appoggiato con il mento sulle mani, che guardava
la spiaggia e l’oceano.
«Ehi» dissi fermandomi accanto a lui e appoggiando le
braccia vicino alle sue.
«Ehi, tu» mi fece eco dolcemente, urtandomi piano la spalla.
Restammo entrambi in silenzio a guardare la piscina ormai
all’ombra, mentre da qualche parte dietro di noi calava il sole.
Nell’aria piena di salsedine ondeggiavano scomposti dei nastri
bianchi: gli addobbi di un matrimonio ancora attaccati ad alcune sedie vicino al bagnasciuga.
Non mi era mai capitato di andare a un matrimonio da adulta, ma ne ricordavo uno con i miei genitori, a nove anni, in West
Virginia. Si sposava la migliore amica del liceo di mia mam20
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ma. I miei avevano litigato durante tutto il viaggio in macchina
su qualcosa che la mia giovane mente non aveva trovato utile
immagazzinare. Al ritorno, erano rimasti muti come statue di
cera. Pregustavo già il momento in cui qualcuno dei miei amici
sarebbe andato all’altare: occasioni di certo più liete rispetto a
quel mio ricordo lontano.
Colt fece un bel respiro, riportandomi al presente. «Questa
è una gran cosa, Keri Ann. Non vorrei sembrare tuo padre, ma
sono davvero fiero di te e del traguardo che hai raggiunto.» Girò
la testa verso di me.
Sorrisi imbarazzata. «Grazie. È proprio una figata, vero?
Non me ne rendo ancora conto per bene. Voglio dire, so che
questo è solo un albergo e non una galleria di New York, ma su
quest’isola sbarcano più di due milioni di visitatori l’anno, e a
quanto ho capito gli organizzatori continueranno a promuovere
la mostra per tutta l’estate.» Alzai le spalle e sentii il calore che
mi saliva alle guance.
Colt sorrise. «Vieni, andiamo a mettere qualcosa sotto i
denti.»
Lo guardai mentre si girava e si avviava verso l’ingresso del
ristorante. «Colt?»
Si voltò, inarcando le sopracciglia sopra gli occhi azzurrissimi. «Sì?»
«Grazie.» Mi sfregai nervosamente le mani e guardai da
un’altra parte. «È bello avere un amico con me. Avere te ad
aiutarmi» specificai subito mentre posavo gli occhi su di lui.
«Oggi era una giornata importante.»
Colt fece un passo verso di me, ma poi si fermò, come se si
stesse trattenendo di proposito. Scosse la testa e sospirò. «Figurati.»
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Ricominciò a diluviare appena ci mettemmo in macchina per
tornare a casa, stavolta con forti raffiche di vento. Rallentai perché la visibilità da scarsa diventò quasi nulla, e diedi un’occhiata
allo specchietto retrovisore.
La BMW scura di Colt era subito dietro di me, seguita da
un gruppetto di altre macchine. A quanto pareva aveva deciso
di seguirmi. Lo apprezzavo molto, ma mi chiedevo anche se
avrei dovuto invitarlo a casa o se mi stava solo scortando. Argh.
Tutta questa storia degli amichetti mi stava mandando fuori di
testa. Non sapevo cosa ci si aspettasse da me, o meglio… cosa
lui si aspettasse da me. Dovevo baciarlo e fargli credere che c’era
qualcosa in più oltre a una specie di distorto senso del dovere?
Non mi sembrava il caso. Non l’avrei mai fatto. Ma passare del
tempo insieme a Colt aveva dato un senso tutto nuovo all’idea
che avevo di uscire con qualcuno: era un oceano di aspettative
inespresse e di malintesi oltre che di pressioni. Qualcosa era
reale, qualcosa me la immaginavo e basta. Inoltre sapevo benissimo che prima di trovare il principe bisognava baciare diversi
rospi. Non che Colt fosse un rospo…
No, no, questo era Colton Graves, il migliore amico di mio
fratello e anche amico mio. Però io ero stata decisamente chiara,
sia quando avevo dichiarato esplicitamente che non ero pronta
per una storia seria, sia con le mie innumerevoli osservazioni
sull’amicizia. D’altro canto, avevo comunque accettato i suoi
inviti. Varie volte.
Lanciai un altro sguardo ansioso allo specchietto retrovisore,
giusto in tempo per vedere che la cerata blu che prima avevo
fissato con delle cinghie per proteggere le mie opere si era strappata da un lato e stava svolazzando oltre il bordo del cassone.
Accidenti!
Rallentai e misi la freccia per accostare. Sostare in autostrada
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era una cosa che detestavo, ma se la cerata si fosse impigliata nelle ruote avrei sicuramente fatto un incidente. E proprio
mentre mi fermavo, mi sembrò che fosse successo quello che
temevo. Da dietro arrivò il rumore come di uno strappo e il
furgone sussultò.
Spalancai lo sportello, uscii e la pioggia calda e battente mi
inzuppò in un nanosecondo. Mi chinai a esaminare la ruota,
ma poi sentii la portiera di Colton che sbatteva e alzai gli occhi:
stava arrivando ad aiutarmi con una giacca a vento scura sopra
la testa.
«È incastrata, maledizione» gli urlai cercando di sovrastare il
rumore delle raffiche di vento e delle macchine che passavano,
poi diedi un calcio allo pneumatico con la sneaker bagnata.
«Mi sa che dobbiamo togliere la ruota, come per cambiarla.»
Annuii alle parole che mi stava gridando: lo pensavo anch’io.
«Ho un cric nel retro.»
Mi girai per andare a prenderlo mentre Colt provava a tirar via quello che poteva della cerata dalla ruota, e vidi una
Jeep Wrangler grigia metallizzata che rallentava e accostava più
avanti nella corsia d’emergenza. Fece marcia indietro per avvicinarsi a noi. Ero felice di non essere da sola. Sulle prime non
uscì nessuno. Incrociai lo sguardo di Colt ed entrambi facemmo
spallucce.
Ero zuppa, e il vento era sempre più gelido. Presi cric e manovella, ma mentre giravo intorno alla macchina vidi la portiera
della Jeep che si apriva. Una lunga gamba, avvolta in un paio di
jeans e in stivali da biker neri uguali a quelli che avevo marchiati
a fuoco nella memoria, spuntò dall’auto e atterrò sull’asfalto più
o meno nello stesso momento in cui il mio cuore si schiantò a
terra. E forse, visto il suono metallico, insieme al cric.
Non stava succedendo davvero.
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I miei occhi risalirono fino alla camicia verde oliva che, non
solo stava diventando marrone per la pioggia, ma si stava anche attaccando al corpo che rivestiva. Proseguii con lo sguardo
lungo la mascella ricoperta da una barba incolta che sapevo di
conoscere, fino alla visiera di un berretto da baseball sotto cui
potevo solo intuire i due occhi che non riuscivo a scorgere.
«Dimmi che non sto vedendo quello che sto vedendo» disse
Colt accanto a me, improvvisamente arrabbiato.
I miei occhi scivolarono di nuovo lungo quella figura fino
agli stivali che si stavano avvicinando. Cercai di ricominciare
a ragionare. Non mi ero immaginata quella scena un migliaio
di volte? Certo, magari non in una piazzola dell’autostrada, ma
non avevo già provato le mie battute davanti allo specchio come
una povera scema?
E invece niente.
Mentre gli stivali avanzavano, io avevo la testa completamente vuota. Quegli stivali li ricordavo bene, di fronte al mio caminetto dopo un diluvio proprio come quello. E mentre l’acqua
continuava a scendere a fiumi su di me, non riuscivo ad alzare
lo sguardo. Me ne stavo lì, e basta.
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