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Christiana Ruggeri
La lista di carbone
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Questa è un’opera di fantasia. Fatta eccezione per i personaggi
e i fatti storici, i protagonisti del libro e le loro vicende
sono frutto dell’immaginazione dell’autrice.
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© 2016 Giunti Editore S.p.A.
Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia
Piazza Virgilio 4 – 20123 Milano – Italia
Prima edizione: aprile 2016
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A mia figlia
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Prologo
«Non ho fatto in tempo a inserire Yoseph nella lista di carbone. Ma se quella lista c’è stata, con tutte le conseguenze che ha
portato con sé, se il dossier è finito nelle mani giuste, è merito
dell’ultimo sguardo che quel bambino mi ha dedicato prima
di morire.
«Era un ebreo tedesco. Non poteva restare nel campo. Non
c’erano bambini lì. Sarà rimasto poco più di una settimana, in
attesa dell’esecuzione. Non parlava più, piccolo e smagrito. Yoseph avrà avuto dieci anni o qualcosa di meno. Nel suo sguardo
opaco vedevo la nostra fine, quella del popolo ebraico. Con
Otto, un mio amico deportato prima a Sachsenhausen poi a
Riga-Kaiserwald con me, cercammo di stargli vicino. Non aveva
più nessuno, neanche un conoscente: tutti morti. Ma come si
fa a ridare luce agli occhi di un bambino solo e malnutrito in
un campo di concentramento? Si poteva almeno regalargli una
speranza, un pensiero positivo che gli facesse compagnia. Con
la sua tuta insozzata e quel cappellino lercio con cui dormiva,
perché aveva le orecchie sempre fredde, sembrava ancora più
fragile. Dalle grate delle baracche, al tramonto, fissava gli uccellini finché sopraggiungeva il buio. Non so cosa fossero, se
passeri o altri uccelli comuni. Così leggeri, cantavano innocenti,
posati sul filo spinato. Ne annullavano l’orrore. Loro erano la
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nostra libertà perduta. Sembrava venissero a trovarci, per poi
volare via lasciando a noi la reclusione e la morte.
«Non so cosa rappresentassero per Yoseph quei passerotti.
Forse la tenerezza lontana. Così, Otto e io gli facemmo un uccellino di terracotta, un piccolo passerotto tondo con cui dormire
e col quale tornare a casa, un giorno. Gli abbiamo regalato un
sorriso, ma non siamo riusciti a salvarlo: il 23 gennaio 1943 Yoseph e il suo passerotto sono stati gassati. Lui si è avvicinato alla
fine sorridendo. Credeva di tornare a casa, bello e pulito sotto
la doccia, con il suo uccellino di terracotta stretto tra le mani.
Quell’ultimo saluto sereno è rimasto dentro di me per sempre.»
Da Memorie di un deportato di Heinrich Vössell,
dedicato alla tenacia di Anna Biren (che poi sarei io).
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L’ inizio dei lavori forzati
Roma, 1° giorno, febbraio 2005
No, non ce l’ho con lei ma Cristina è proprio pesante. Riesce a
stare zitta senza dire una parola per ore, con quella musica leggera in sottofondo. Mozart, Bach o Chopin, ma sempre a basso
volume, come se potessero disturbare i suoi libri e i suoi ricordi.
Peggio di una chiesa all’ora del vespro. Credo che Cristina taccia
per restare in compagnia dei suoi pensieri antichi. Chissà dove
la portano. Lei non vive nel presente, si lascia vivere. Ritrova la
sua dimensione nel passato, di cui è custode gelosa, accompagnata da quella solitudine a cui non può rinunciare.
Cristina fa la libraia. Si occupa di rari testi d’antiquariato, da
sempre. Prima di lei, suo padre. L’ unico contatto con il mondo,
acquirenti a parte, siamo noi, i ragazzi difficili da riabilitare.
Quel giudice, donna acida e segaligna, una di quelle arrabbiate a priori col mondo, durante l’udienza mi guardava dall’alto
in basso. E, come in un carro bestiame, ha verificato che la
pecorella smarrita fosse riportata all’ovile. Centro recupero per
ragazzi quasi tossici. Come me. Trecentosessantacinque giorni
di lavoro gratis per chiedere scusa alla società. No coca ma libri:
quasi uno slogan.
Ecco la mia gogna, una macchia indelebile, e tutto questo
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solo per aver tentato di aiutare Fabio. Vabbe’. Non mi va giù
l’idea di pagare per una storia sbagliata, come se non bastasse
la piena coscienza della cazzata che ho fatto.
Sono due mesi che sto qui e il quartiere di per sé mi soffoca.
Il ghetto ebraico nel cuore di Roma non aiuta gli avviliti. Non
ce l’ho certo con gli ebrei, provo orrore per tutto quello che
hanno subito. Rifuggo qualsiasi forma di violenza, ma rifiuto
con altrettanta determinazione quel senso di colpa che alcuni
di loro ti mettono addosso. Che c’entriamo noi con l’Olocausto?
A volte il solo fatto di non essere ebreo appare come una colpa.
Sono cotta, cottissima dalla noia: parlo da sola. Mi sento
bruciacchiata come un pollo. La mia punizione merita un discorso a parte: oltre a venire qui in libreria sei giorni su sette,
devo tenere un diario. Lo comincio oggi, con due mesi di ritardo
sulla tabella di marcia. Mi presento, signor Strizzacervelli: sono
la ragazza più depressa e apatica del circondario. Con l’obbligo di riportare per iscritto anche le mie sensazioni. Un inutile
resoconto della giornata, di com’è stata e di come avrei voluto
che fosse, come richiesto dallo psicologo che mi controlla. Ma
che posso scrivergli?… La ricostruzione dettagliata della noia
mortale. Cronaca di una rottura di palle lunga un anno.
Ogni giorno la vecchia mi scruta con attenzione. Cristina
ha un’età indefinita tra i settanta e gli ottant’anni. Mi guarda
con quel sorrisetto di circostanza che le farei inghiottire, quasi
a compatirmi: «Poverina, sei una bella ragazza. Certo, se avessi
un cervello sarebbe meglio».
Ecco la mia vita in questo periodo: di giorno vivisezionata
dalla vecchia, di sera passata sotto il metal detector degli sguardi
dei miei. Il cane, vivaddio, si mostra neutrale. Se potessi, userei
il teletrasporto del capitano Kirk. Essendone priva, mi prendo
delle pause zen. Preparo il caffè con la moka in una minicuci-
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na che Cristina ha ricavato nel retro, poi mi siedo sul secondo
gradino dell’uscita di sicurezza. Freudiano. L’ argomento “caffè”
potrebbe essere molto utile allo psicologo che leggerà queste
memorie. Ogni giorno gli stessi gesti: metto lo zucchero, prendo
il cucchiaino e il mio sguardo si fissa sul mulinello che gira e
rigira come un derviscio infaticabile che al posto della gonna ha
un mix di polisaccaridi nocivi per la salute. E quando il caffè mi
fa sua, ancora prima di berlo, capisco che il mio stato mentale,
ormai catatonico, ha davvero bisogno di una sana svegliata.
Non ce la faccio proprio a scuotermi da questa insoddisfazione
cronica. Da quando sto qui in libreria, mi sento svuotata. Svilita.
Vegeto silenziosa e la mia ribellione, che non so più dove sia
finita, lascia il posto all’autocommiserazione.
L’ impatto con Cristina non è stato dei migliori, ma non è
colpa nostra. A presentarci è stata una specie di assistente sociale che mi accompagnava. La sua affabilità era pari a quella
della signorina Rottermeier, l’istitutrice di Heidi. Stretta in un
tailleur taglia 40, rigorosamente Scottish style, senza traccia di
forme femminili. Trucco cereo e un rossetto rosso Chanel che
stride su quella sua bocca filiforme.
«Vediamo se la nostra ragazza riesce a farla spazientire, Cristina.» Questo il felice esordio. L’ ho incenerita con lo sguardo.
E la vecchia: «Sono abituata, dottoressa. Non si dia pena».
Davvero, grazie per la considerazione: sembrava non ci fossi.
Ero trasparente, muta.
Comunque, la Rottermeier non l’ho più vista e con la vecchia
libraia ci scambiamo trenta parole al giorno. Niente di più.
Cristina è ebrea di origine tedesca, ma è nata a Roma. I suoi
libri vengono da tutto il mondo. Sono magnifici. Solo guardarli
scatena la mia mente, la curiosità, le domande. Lei li restaura, li
vende, ma soprattutto li studia: la provenienza, i tempi, i luoghi
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di passaggio. Ho capito quasi subito che Cristina Hauffmann è
un’autorità nel suo settore. Se non dovessi sorbirla per forza, la
vecchietta quasi quasi mi piacerebbe.
Credo che i primi giorni mi abbia studiato a puntino. Mi
stava sfogliando l’anima. Forse il suo unico timore era che non
avessi sufficiente riguardo per le sue creature di carta. Ha cominciato a farmi spolverare i libri. Ci vuole sapienza: quella
pezzetta sì, quella no; piano lì, energica là. Una colf perfetta.
Igienizzare gli scaffali era proprio una delle mie grandi ambizioni. Poi, dopo qualche settimana, sono stata promossa: mi sta
facendo spostare una sezione intera dedicata alla storia greca
e romana. Miracolo.
Tutte le sere, alle 17, Cristina prepara il tè e me lo offre. La
cucina è un microcosmo di femminilità, due metri per due,
nascosto a occhi indiscreti. Oltre a un fornellino elettrico a due
fuochi, c’è un piccolo lavello quadrato con un’unica cannella di
ottone. Sembra far parte anche lui dei cimeli. Sopra, in una bacheca di legno sul muro, una gran varietà di tè, in barattolini trasparenti con le etichette: tipo di miscela e provenienza. E quattro
tazzine bianche. Un festival di aromi ordinato e composto. Lei
adora il tè nero cinese, forte e sicuro. Lo prende semplice: senza
zucchero, limone o latte. C’è anche una piccola zuccheriera di
porcellana gialla, stranamente sbeccata sul coperchio. Contiene
zollette grezze, per eventuali ospiti. Cristina è come il suo tè:
forte e decisa, a dispetto del fisico esile e aggraziato. Sembra un
uccellino. Le pieghe degli anni non sono riuscite a nascondere
la sua bellezza. Una femminilità gentile, l’incedere elegante.Un
fisico stanco, ancora affusolato. Si veste con degli abitini rétro.
Li metterei io, effetto vintage, se solo avessero dei colori più
vivaci. E poi gli inseparabili golfini: corti, tinta unita, sempre
coordinati con nuance pastello rispetto alla fantasia dei vestiti.
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Cristina tiene raccolti i folti capelli ingrigiti: oggi in una treccia, domani in uno chignon. Non porta occhiali: vista perfetta,
nonostante sia china sui libri da mezzo secolo almeno. E non
la si vede mai senza il suo filo di perle bianche intorno al collo.
Dopo il tè, scompare. Non va via, si rintana nell’altro lato
del negozio. «Vado in biblioteca» dice. Il suo regno, la sua dimensione. Ogni giorno per due ore fino alle 19, poco prima
della chiusura. È una strana libreria quella di Cristina. Grande.
Saranno 200 metri quadri di esposizione oltre al magazzino, al
piano di sotto. Mai entrata. Quella che lei chiama biblioteca è
una nicchia, uno spazio separato da una parete di legno e vetro.
Una sorta di sala lettura con due sedie, un tavolo di castagno
scuro e spartano pieno di tomi aperti e due fioche lampade da
tavolo. Quando Cristina è lì dentro, non c’è per nessuno. Gli
acquirenti abituali lo sanno e non vengono in negozio in quelle
due ore. Per il resto devo cavarmela da sola. Guai a disturbarla.
Non mi ha mai detto cosa faccia nel suo silenzio sacro e a me
non va di chiederglielo. Mi piacerebbe saperlo, però.
Punizione a parte, tutto sommato questo obbligo non mi
dispiace. Mi intrigano, Cristina e i suoi libri. In fondo poteva capitarmi di peggio, visto com’è cominciata. Non posso pensarci,
dovrei far causa alla compagnia telefonica. O ancora meglio a
quell’idiota che ha inventato il telefonino e gli SMS. Già, è stato
proprio un messaggio a fregarmi. Lasci il cellulare incustodito
e sei fottuta per congiunzione astrale.
Un tradimento ma il sesso non c’entra. Quel fenomeno che
ha scritto l’SMS si chiama Fabio. È il mio ex. Era una storia
così, me la trascinavo da un po’. Poi, fine. L’ ho cancellato dalla
memoria, oltre che dalla vita. Ho sempre odiato i vili, quelli che
non si mettono mai in discussione, né si prendono le proprie
responsabilità. Flaccidi e incapaci come dei molluschi. Ma io
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stavo con lui, perciò, per proprietà transitiva, ero ancora più
idiota. Il mio ex è la causa indiretta del mio stato attuale, il
motivo per cui mi fisso sul mulinello del caffè.
Si sa come succede: all’università, i tipi interessanti sono in
via di estinzione, i pochi superstiti sono fidanzati. Ciò che resta
nasconde l’inevitabile errore. Fregatura cum laude. Entrambi
viziati e fuoricorso, le uniche cose che avevamo in comune.
Ho conosciuto Fabio in biblioteca. Forse mi ha colpito proprio per questo: il luogo l’ha avvantaggiato. Il Dipartimento di
Storia medievale dell’Università La Sapienza di Roma. Location
di gran fascino. Odore di libri, di fatti, di straordinarie figure, di
coraggio e intelligenza: con un sottofondo aromatico di spinelli
e ascelle poco lavate. Un mix irriverente ma autentico.
Pur studiando al piano di sopra, preferivo la biblioteca di
Storia. Nel passato mi sento a casa, quasi al sicuro. Non ci sono
imprevisti.
Sono andata fuori tema; tanto peggio per lo psicologo.
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Le varie facce della punizione
Roma, 8° giorno
Il vis-à-vis con mio padre non lo scorderò mai. I disastri, poi,
non arrivano mai da soli: provocano una slavina. E così è stato.
Tardo pomeriggio, uno di quei giorni inutili che scorrono via
senza tracce. Esco dalla camera. Mia madre non c’è, partecipa
a un convegno come relatrice: donna impegnata, tra letteratura
e club del giardinaggio; in casa, solo io e lui.
Mi dirigo verso la cucina – ho voglia di una bibita – e mi
ritrovo davanti lui, fisso come un palo. In mano, il mio telefono.
La faccia scura, mi guarda serio.
«Dammi una spiegazione plausibile» dice facendo oscillare
il cellulare.
Cado dal pero. «A che proposito, scusa?»
«Ho detto credibile. E subito» ribatte stizzito.
Segue un silenzio imbarazzato, di quelli brevi che sembrano
infiniti, sordi. Non ho idea di cosa parli. Mio padre seleziona
l’SMS incriminato e me lo sbatte davanti agli occhi. Non l’avevo ancora letto. Non sapevo nemmeno della sua esistenza. Lo
scorro e capisco il casino in cui sono piombata. Il deficiente l’ha
fatta grossa, anche se l’invasione della privacy del genitore l’ho
proprio mal digerita.
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«Papà, credimi, è meno grave di quello che pensi» provo a
spiegare.
«Mia figlia cocainomane: è assurdo» aggiunge, scuotendo
la testa nervoso. «Ormai mi aspetto tutto da te, ma la droga…
Credevo fossi intelligente. Mi hai deluso. Preparati una spiegazione logica, ne parliamo domattina.»
Mi dà le spalle ed esce di casa. Mi fa sentire colpevole, tremendamente imbecille. Tutto meno che tossica, questo no. Stupida, forse.
Non mi va di raccontare quanto sia stata lunga quella notte.
Densa, afosa. Era inverno, ma sentivo in gola l’umidità dell’agosto romano. Il peggio, comunque, doveva ancora venire. Vi
risparmio le tragedie greche di mia madre. D’altronde, amante com’è dei classici, doveva pur interpretare al meglio questo
nostro dramma familiare. Il silenzio ostentato e quel sottile
disgusto che accompagnava gli sguardi di mio padre, quello sì
mi infastidiva. Ma dovevo tacere: la colpevole, presunta, ero io.
La parte divertente di questa tragicommedia l’ha orchestrata
Fabio, il cretino dell’SMS. Comincio a chiamarlo sul cellulare,
dalla sera fino all’alba. Voglio mangiarlo vivo. La mia insistenza
nelle telefonate, tutte senza risposta, lascia presagire un fitto
elenco di insulti. Ma niente, di lui nessuna traccia per un giorno
intero. Quando scoppia il vero caos. Arriva la polizia a casa nostra di primo mattino. Mi sembra esagerato per un SMS. Cocaparty a casa dell’idiota: la sera del messaggino, ovvero il giorno
prima, l’imbecille aveva chiamato rinforzi. Un po’ di musica e di
allegria in eccesso e i vicini, ignari e ignorati dalla combriccola,
hanno chiamato la polizia. Sorpresa: dagli schiamazzi alla neve.
Questo si sono ritrovati davanti gli agenti: tanta neve da imbiancare l’Himalaya. Tutti coinvolti, buoni e cattivi. Me compresa,
a causa di quel cavolo di SMS. Che ironia, risucchiata tra quei
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cretini mentre me ne stavo nella mia stanza! Grazie al cielo me
la sono cavata: punizione e un buffetto. Mi hanno creduta, ma
non potevano risparmiarmi una sonora lezione. Una specie di
contrappasso culturale. Pare vada per la maggiore tra i togati d’avanguardia, i giudici moralisti che costringono i ragazzi
cattivi come me a un percorso obbligato. «Hai sbagliato, l’hai
capito, ma devi redimerti. E zitta.»
La mia punizione si chiama Cristina. Non so se il racconto
fila, Doc, ma così è cominciato tutto il casino. Ora mi bevo il
caffè. Pausa.
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