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Giulia Besa
Il cattivo ragazzo
che voglio
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www.giunti.it
© 2016 Giunti Editore S.p.A.
Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia
Piazza Virgilio 4 – 20123 Milano – Italia
Prima edizione: maggio 2016
Published by arrangement with Loredana Rotundo Literary Agency
Realizzazione editoriale: Studio Editoriale Littera, Rescaldina (MI)
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Ad Andrea,
la mia anima gemella
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Domanda su ask.fm: A che età hai fatto sesso la prima volta?
Risposta: C’è la domanda di riserva?
È ufficiale: il mio ragazzo mi odia.
Da una settimana non mi risponde al telefono e ignora i miei
sms, i miei messaggi su WhatsApp, su Messenger e su Skype.
Ci manca solo che mi banni da Facebook e dia una mano a
costruire il Muro di Berlino qui a Roma, da Monte Mario al
parco della Caffarella, sia mai che mi venga in mente di andare
a trovarlo a casa sua.
Tommaso mi odia.
Mi odia per come mi sono comportata con lui e non vuole
più parlarmi. Comincio a sentirmi a disagio a bombardarlo di
messaggi e di telefonate: sto passando dal livello fidanzata al
livello stalker. Come ho fatto a essere così idiota? L’ ho ferito, lo
so. Anche se in fondo... è solo un mese che stiamo insieme, e
non è normale farlo dopo solo un mese. O sì?
«Magari la prossima volta» gli ho detto. Come se stessi ri­
fiutando la pizza o una serata al cinema. È stata una risposta
davvero cretina. Si è sentito respinto e ora mi odia: la sua faccia
non lasciava dubbi. Eravamo sdraiati, o meglio “accartocciati”,
sui sedili posteriori dell’auto di suo padre, lui era sopra di me,
e io, con le mie parole, l’ho profondamente deluso.
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Sospiro, rigirandomi supina sul letto. Rivedo la scena in ogni
dettaglio, proiettata sul soffitto di camera mia, come se fossi
al cinema: Tommaso che non replica al mio rifiuto, invece fa
leva con il palmo sullo schienale del sedile per tirarsi su e sfila
l’altra mano da sotto la mia maglietta, rinunciando a slacciarmi
il reggiseno. Poi mi guarda con un misto di tristezza e fastidio
e mi dice: «Okay, ti riporto a casa. Meglio così».
È sceso dalla Lancia Delta, si è rimesso la felpa, è salito al
posto del guidatore, si è ravviato i capelli sbarazzini e ha ingra­
nato la prima. Il rombo del motore è stato l’unico suono finché
non mi sono chiusa il portone del mio palazzo alle spalle. Per
la prima volta in vita mia avevo la concreta possibilità di fare
l’amore con un ragazzo, di toccare il paradiso con un dito – be’,
forse! – e invece sono scivolata in un inferno silenzioso e glaciale.
È vero, probabilmente Alessandra ha ragione, sono un’esa­
gerata, ma non riesco a scacciare la sensazione di aver chiuso
per sempre con il sesso, di aver sprecato la mia unica buona
occasione. Rimarrò una zitella vergine fino alla tomba. Mi ren­
do conto anch’io che è un pensiero assurdo, eppure mi si è
appiccicato addosso, come quando incollavo in camera i poster
di Justin Timberlake con il vinavil e mi rimanevano le dita im­
piastricciate di quella sostanza puzzolente e vischiosa.
Tommaso è carino, in effetti somiglia un po’ a Justin Timber­
lake, e sono convinta che si tenga la barba e i capelli in un certo
modo apposta, perché apprezza il paragone. Tommaso mi piace,
mi piace tanto, piace persino alle mie amiche, che lo approvano
senza remore, è di quattro anni più grande di me, esperto...
insomma, è perfetto. Eppure la mia dannata timidezza mi ha
impedito di dirgli di sì. Se non ce la faccio a concedermi a lui,
che speranze ho per il futuro? Non troverò mai qualcuno come
Tommaso.
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Mi rigiro sul fianco e afferro il cellulare abbandonato tra
le pieghe del copriletto della Desigual. Accendo il display, lo
schermo scintilla nella penombra della stanza: ormai sono le
nove, e anche il sole caldo di maggio è tramontato.
Dio, che tristezza!
Non c’è nulla di più deprimente di un cellulare silenzioso,
che da ore e ore non mi dà la soddisfazione di un pigolio. Niente
di niente. Neanche una notifichina piccina piccina. Non solo
Tommaso non mi vuole più parlare, ma pare che anche il resto
del mondo si sia dimenticato di me.
Forse dovrei chiamare Alessandra. Potrei raccontarle per
la decima volta in cinque giorni come ho rifiutato Tomma­
so. Quando gliene parlo emergono sempre particolari nuovi:
dall’odore dei sedili posteriori della Lancia al gioco di luci e
ombre sui vetri dei finestrini quando il vento agitava le foglie
dell’albero sotto cui eravamo parcheggiati. E poi parlare con Ale
mi può aiutare, mi potrebbe togliere un peso. Non è successo le
ultime cinque volte, ma la speranza rimane.
Scorro la rubrica fino al suo numero. Sto per selezionarlo,
quando in alto a sinistra mi appare la notifica di un sms in arrivo.
Deve essere la mia amica, capita spesso che quando sto per chia­
marla mi contatti lei, è come se fossimo telepatiche. Magari di­
pende dal fatto che siamo migliori amiche da una vita, dai tempi
dell’asilo. Clicco sull’iconcina dell’sms.
Oddio, non è Ale. È Tommaso.
SE TI VA ANCORA, STASERA SONO AL CIRCO MASSIMO, SARÒ
LÌ VERSO LE UNDICI. TI ASPETTO.
Ho il cuore in gola, mi batte così forte che lo sento tambu­
rellare nelle orecchie. Rileggo altre due volte il messaggio. Sì,
sì, sì! Non posso credere che mi abbia perdonata! Da quando
stiamo insieme, ogni sabato ci siamo visti al Circo Massimo per
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un romantico picnic notturno. Una piccola, dolce tradizione.
Per questo sabato avevo perso le speranze e invece...
Saltello sul letto, come una dodicenne. Poi mi blocco e mi
passo la mano tra i capelli, tirandomeli indietro. No, Chiara,
non sei più una bambina. Hai diciotto anni compiuti, da due
mesi ormai, e devi comportarti da adulta. Devi essere una per­
sona seria e prenderti le tue responsabilità. Se decidi di raggiun­
gere Tommaso al Circo Massimo, devi essere pronta a dirgli di
sì. Dopo i tramezzini confezionati, la birra e la Coca­Cola Light,
su quel telo, tra l’erba, sotto le stelle fulgide, c’è la possibilità
che ti chieda di farlo. La concreta possibilità. E tu ti troverai di
fronte al dilemma della settimana scorsa.
«Cosa faccio?» mormoro, smangiucchiandomi l’unghia del
pollice, gli occhi fissi su quelli grandi e opachi del peluche rosa
a forma di elefantino accoccolato sul mio computer portatile.
«Gli dico di sì stavolta?» domando a Dumbo, che, tanto per
cambiare, non mi risponde.
Scuoto la testa. Chiedere aiuto agli elefantini rosa non mi
sembra proprio un comportamento da persona matura. No, no,
devo piantarla di fare la ragazzina. Meglio sentire Alessandra!
Apro WhatsApp e le invio un messaggio vocale: voglio che
senta il mio tono preoccupato, che percepisca che mi trema
la voce tanto sono emozionata nel prendere la decisione più
importante della mia vita. Ale si deve preparare al lavoro di
supporter più impegnativo da quando ci conosciamo.
La suoneria del telefonino parte un nanosecondo dopo che
ho inviato il messaggio vocale. Avvicino il cellulare al viso. La
voce di Alessandra mi esplode nell’orecchio.
«Cazzo Chiara! Sai quante ragazze pagherebbero per essere
al tuo posto?»
«C’è gente che paga per diventare sorda?»
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Alessandra si schiarisce la voce, in imbarazzo. Forse si è resa
conto che mi ha sfondato il timpano.
«Volevo solo dimostrarti il mio entusiasmo» dice. «E comun­
que, se non si fosse capito, la mia risposta alla tua domanda è:
decisamente sì. Vacci e dagliela.»
«Una risposta meno volgare?» Altrimenti mi ci ritrovo io in
imbarazzo.
«Vai a trascorrere la tua prima notte d’amore, la notte che ti
cambierà la vita, la notte dopo la quale non sarai più la stessa. E
goditela un pochino anche tu, finalmente. A diciotto anni non
averlo ancora fatto è grave.»
«Non so se mi sento pronta.» Arriccio una ciocca di capelli
neri intorno all’indice e mi mordo il labbro. «L’altra volta crede­
vo di esserlo, invece all’ultimo ho avuto un crampo allo stomaco
e ho capito che dovevo dirgli di no. Sentivo che non era giusto
farlo lì, in quel momento.»
«Stasera sarai preparata. Ti aiuterò io.»
Per certe faccende mi fido ciecamente di lei: ormai lo fa
regolarmente da quando aveva quindici anni. Un minimo di
esperienza dovrà pur averla. E adesso è giunto il momento che
mi riveli tutti i suoi segreti.
«Sono tutt’orecchi e prendo appunti.»
«Regola numero uno, devi sentirti bellissima. Se hai anche
solo il lontano sospetto che la tua faccia o il tuo fisico abbiano
qualcosa che non va, ti mancherà il coraggio, o peggio, inter­
romperai tutto a metà. Basta un brufolo, una smagliatura o un
pezzetto di insalata tra i denti e ti sentirai una merda. Per le
smagliature possiamo fare poco, a parte mettere un po’ di cor­
rettore, ma per il resto c’è rimedio. Guardati allo specchio e
dimmi cosa non ti piace.»
Mi alzo dal letto e tasto la parete in cerca dell’interruttore
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della luce. Ma ho un brivido di paura e, prima di procedere,
abbranco l’elefantino. Dumbo mi infonderà sicurezza. Faccio
scattare l’interruttore e mi piazzo davanti allo specchio che oc­
cupa l’intera anta dell’armadio aperto.
I capelli lisci mi ricadono in ciocche sfatte sulle spalle, un
ciuffo birichino mi scende davanti al viso e mi carezza gli occhi
color nocciola, dalle ciglia tanto folte che sembro già truccata. Il
nero lucido dei capelli e gli occhi scuri sono in netto contrasto
con la mia carnagione chiara, ed è una caratteristica di me che
mi è sempre piaciuta.
«Direi niente brufoli» dichiaro.
«E una è andata.»
Mi tolgo la maglietta del pigiama, sollevo i seni con le mani
e li avvicino, strizzandoli tra loro. Poi mi alzo in punta di pie­
di, girandomi di profilo, facendo finta che tacchi immaginari
slancino il mio fisico leggero e minuto. Tiro su i pantaloncini
già corti del pigiama fino a scoprire le cosce: ecco come appa­
rirebbero se indossassi la minigonna nuova che ho comprato
prima di Pasqua e che non ho ancora avuto il coraggio di
mettere.
Scollatura, tacchi, minigonna... non sarei affatto male, an­
che se mi sentirei mille volte più a mio agio con indosso il
pigiamino ricamato a fiori e Dumbo sottobraccio. Non è colpa
mia se nel profondo mi sento come Dora l’esploratrice e non
come Belén.
D’altra parte dubito che Tommaso vorrebbe portarsi a letto
Dora.
Rimetto l’elefantino al suo posto, a far da guardia al com­
puter, e torno a concentrarmi sullo specchio. Prendo un lun­
go respiro. «Anche il fisico, tutto sommato, mi sembra okay,
ma, ecco... Cosa posso fare per sentirmi proprio bellissima?»
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Alessandra sospira.
Me la vedo che scuote mestamente la testa: devo suonare co­
me una completa cretina.
«Per prima cosa, assicurati di disboscare la foresta.»
«Eh?»
«Ti devi depilare. Dappertutto.»
«Sono depilata!»
«No, mia cara, ti devi depilare come non hai mai fatto in vita
tua. Io, prima di farlo la prima volta con Daniele, ho messo le
lenti a contatto, mi sono chiusa in bagno e ho esaminato ogni
centimetro del mio corpo alla ricerca del più sfuggente pelo
traditore. E ne è valsa la pena! Mi ero dimenticata di passare la
ceretta dietro il polpaccio e avevo un’intera striscia di peletti.
Ti rendi conto? E se Daniele li avesse toccati?»
«Io credo che sarebbe sopravvissuto.»
«Non darlo per scontato. In fatto di peli i maschietti sono
schizzinosi quanto noi.»
I consigli di Alessandra, però, non si limitano alla mia pel­
le, che oltre a essere liscia come il culetto di un neonato deve
anche essere idratata, profumata e massaggiata con le giuste
creme; la mia amica mi spiega anche qual è l’altezza ideale
dei tacchi che dovrei portare, di che colore devo scegliere la
gonna, quanti bottoni della camicetta devo lasciare slacciati per
mettere in risalto la scollatura e come devo acconciare i capelli
perché, sapientemente raccolti, non mi coprano il collo. Io mi
appunto tutto quanto e poi passo all’azione.
Prima trascorro una mezz’ora buona sotto la doccia a dare
la caccia ai peletti ribelli, poi comincio a provarmi i vari outfit.
Mi cambio e mando le foto via WhatsApp ad Alessandra, che
si riserva l’ultima parola. Sperimento varie camicette, jeans più
o meno aderenti, reggiseni push up, gonne di ogni lunghezza,
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calze a rete con le maglie più o meno larghe, ballerine rasoterra
e scarpe con tacchi vertiginosi.
Alla fine, dopo una serie interminabile di accostamenti e
abbinamenti, e di battute sarcastiche di Alessandra, decido per
leggings neri e una felpa con un’ampia scollatura, che lasci in­
travedere il pizzo del reggiseno. I capelli come al solito sciolti,
e per il trucco appena un filo di matita. Ah, le scarpe quelle da
ginnastica. Alessandra può insistere finché vuole, ma il Circo
Massimo è un giardino, e se ci vado con i tacchi l’unico risul­
tato che otterrò sarà di trascorrere la nottata non a letto con
Tommaso, ma su una barella d’ospedale con una caviglia rotta.
«Sei una strafiga. Divertiti!» mi congeda Alessandra. «E quando
rientri, chiamami subito, non importa che ore sono, io rimarrò
sveglia. Sarà la nostra prima conversazione da donna adulta a
donna adulta. E poi voglio conoscere tutti i dettagli!»
Mi specchio un’ultima volta, spengo la luce ed esco dalla ca­
mera in punta di piedi. Percorro il corridoio, diretta all’ingres­
so. Passando davanti alla porta del soggiorno trattengo il fiato.
Non sento la televisione, forse mia madre non è ancora tornata
a casa... magari potrei fare un salto in cucina, per sgraffignare
qualcosa dal frigo. Nello zaino che ho in spalla non c’è niente a
parte un asciugamano da stendere sull’erba. Se Tommaso non
ha pensato ai viveri, sarà il picnic più veloce della storia. Ma la
faccenda potrebbe anche non dispiacermi...
«Non è un po’ tardi per andare a scuola?»
Mamma è sulla soglia della cucina, dietro di lei il frigo aper­
to, in mano un bicchiere pieno di cubetti di ghiaccio a mollo
in un liquido color ambra. Dall’odore direi che è brandy. Beve
un sorso. È ancora vestita di tutto punto nel suo tailleur chiaro
all’ultima moda, i capelli acconciati alla perfezione e il trucco
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senza la minima sbavatura. Come sempre ha le labbra luccicanti
di rossetto, un colore intenso che potrebbe stare bene solo a lei.
Accidenti alle ferrovie: quando la aspetto in stazione il treno è
sempre in ritardo, invece oggi il Frecciarossa da Milano deve
essere arrivato addirittura in anticipo. Così mamma è puntuale
a casa per rompere.
«Dove vai con quello zaino?» mi chiede.
«A studiare da Alessandra.»
Lei inarca un sopracciglio, e io mi sento come un topolino
stretto in un angolo dal gatto. Mi sono inventata una scusa trop­
po banale, che evidentemente non regge. Meglio correggersi
subito.
«No, okay, esco con un amico.»
Mamma sorseggia il brandy e posa il bicchiere sull’isola di
marmo al centro della cucina. «A che ora avresti intenzione di
tornare?»
Mia madre è incredibile. Con la media che ho – dell’otto, vo­
glio sottolinearlo –, dovrebbe concedermi il permesso di uscire
anche alle tre di notte senza fiatare, e invece ogni volta deve
sottopormi al terzo grado: ho fatto tutti i compiti? Tornerò in
tempo per dormire abbastanza? Mi sono preparata all’inter­
rogazione di turno? E che palle! Dio santo, è sabato sera! Ma
quando entra in modalità mammina rompina, la tattica miglio­
re è quella della dolcezza.
Mi avvicino a lei e le schiocco un bacio sulla guancia, ma
porta i tacchi e devo alzarmi in punta di piedi.
«Non farò più tardi di mezzanotte, promesso.» Indietreggio.
«Esco con Tommy!»
Ora che ho citato il mio fidanzato, l’espressione di mia ma­
dre non sembra più rilassata di prima. E sì che anche a lei sta
simpatico. «Ce l’hai il cellulare dietro?»
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«Certo, ciao!» Raggiungo l’ingresso a passo svelto e sfreccio
giù dalle scale prima che a mamma venga in mente che non
merito di spassarmela.
Ma non posso farmi fermare, non stasera. Questo appun­
tamento è troppo importante, il più importante della mia vita.
Stanotte dirò addio alla mia verginità.
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Domanda su ask.fm: Qual è la città più bella, di notte?
Risposta: Le amiche che ci sono state giurano New York, o Parigi. Ma io sono sicura che a Roma, di notte, ci sono più stelle
di qualunque altro posto al mondo.
Il vento mi scuote i capelli, li fa fremere sotto il casco mentre
sfreccio velocissima in groppa al mio scooter; nelle orecchie
mi rimbomba Shake It Off di Taylor Swift che le cuffie spara­
no a tutto volume. Non c’è traffico lungo la strada che cinge
il Colosseo, così non rallento, esibendomi in uno slalom tra
gruppetti sparuti di turisti diretti a via San Giovanni, in cerca
di una buona pizzeria.
Non dovrei avere fretta: nonostante l’accurata opera di “di­
sboscamento” e le infinite prove allo specchio, sono uscita in
anticipo. Ma ho voglia lo stesso di correre nella notte, più rapida
che posso, fino a farmi arrossare le guance dal vento. Ovvia­
mente il mio scooter Scarabeo – usato, mamma attraversava
la sua fase anticapitalista – la pensa diversamente e, quando la
strada che circumnaviga il Colosseo prende a salire, il motorino
arranca pietosamente.
Non importa! Respiro a pieni polmoni l’aria fresca della
sera, ed è deliziosa. Mi sembra di sentire il profumo dei pini
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marittimi mescolato a quello delle piante sul Colle Oppio, che
a maggio sono in piena fioritura. È un’aria calda, che già prean­
nuncia l’estate.
Sono diretta al Circo Massimo, una conca ovale scavata nel
cemento della città e larga quanto un campo da calcio. Il ter­
reno è sconnesso, un’alternanza di sprazzi d’erba e di chiazze
incolte, senza una logica se non quella della mancanza di ma­
nutenzione. Solo la striscia di ghiaia che percorre la conca da
una sponda all’altra testimonia un tentativo di dare un senso a
questo antico luogo. Un tempo era un vero e proprio circo, con
tanto di gradinate di legno dalle quali i Romani assistevano alle
corse delle bighe. In certe occasioni addirittura lo riempivano
d’acqua, creando un’enorme piscina al centro della città, e vi si
svolgevano combattimenti navali simulati.
Adesso di solito ci organizzano i concerti. Qualche tempo
fa è venuta Lady Gaga, e mi ricordo ancora quando papà mi ha
tenuta sulle spalle durante lo spettacolo del concerto di Capo­
danno che a lui è piaciuto moltissimo. Sono sicura che anche
questa sera entrerà a far parte dell’album dei ricordi indelebili:
sotto una trapunta di stelle, farò l’amore per la prima volta.
Con Tommaso.
Sarà bellissimo. Il firmamento sopra di noi, il vento a cul­
larci, l’erba morbida a carezzarci, il brusio delle automobili per
una volta soffocato dal frinire dei grilli. Sarà come se lo stessimo
facendo su un’isola deserta, o in mezzo alla campagna. Sarà
come se i tre milioni di romani fossero spariti per concederci
un momento magico, solo per noi. Per me e per Tommaso.
Ho rischiato, ma sì, ho fatto bene ad aspettare: dentro la
Lancia sarebbe stato un tantino squallido. A chi andrebbe di
farlo la prima volta con il freno a mano piantato nella coscia?
Mentre fissavo il volto di Tommaso sopra di me, facevo fatica
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a eccitarmi, piuttosto mi immaginavo la faccia di Alessandra
quando le avessi raccontato la vicenda: Sì, Ale, ti assicuro, è stato
romanticissimo! Mi ha presa sui sedili posteriori della macchina
e poi siamo andati a mangiarci un kebab ad Arco di Travertino.
Ho offerto io.
Ma per piacere!
Invece questa volta sarà tutto diverso. L’ atmosfera è perfetta
e io sono pronta. Preparata, determinata e depilata: se alla fine
anche oggi mi tiro indietro, giuro che domattina mi presento a
Santa Maria Maggiore e mi faccio suora!
Sobbalzo sui sampietrini, di nuovo lanciata a tutta velocità.
Ormai il Colosseo è alle mie spalle, con la coda dell’occhio ne
scorgo il profilo sopra le fronde degli alberi. Così illumina­
to dai fasci di luce gialla dei faretti, sembra un disco volante
proveniente da un altro mondo, il relitto di una nave spaziale
aliena atterrata secoli fa. Katy Perry è sulla mia stessa lunghezza
d’onda e attacca a cantare E.T.
Arrivata al Circo Massimo, svolto a destra e sfilo davanti ai
rari pub che si affacciano sulle antiche rovine romane. Dalle
porte aperte, l’alone dei neon si spande sulla strada che circon­
da la conca, e da dentro i locali giunge un chiacchiericcio forte,
risate di ragazzi e il tintinnare dei bicchieri. Mi tolgo le cuffiette
e rallento. Cazzo, mi è sembrato proprio di vedere Tommy in
uno dei pub, sono quasi sicura di aver persino riconosciuto la
sua voce. Ma è impossibile che sia andato a bere con gli amici.
Non stasera. Non prima di vedermi. No, sarebbe davvero troppo
strano.
Parcheggio contro il muro esterno di un bar e scendo a piedi
nella conca del Circo Massimo. L’ oscurità mi avvolge: non ci
sono lampioni a rischiarare questa piscina di erba e terriccio,
sotto un cielo senza luna. Solo le stelle mi guidano, quelle po­
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che abbastanza fulgide da superare la cappa di aria sporca che
incombe sulla città. Una folata gelida si infiltra nella scollatura
della felpa e mi fa rabbrividire. Ho un crampo allo stomaco e
mi stringo le braccia al petto. In pochi istanti, l’atmosfera pare
aver perso ogni traccia di romanticismo, e ho un bruttissimo
presentimento.
Il rumore del traffico si affievolisce mentre cammino sull’erba,
le scarpe affondano tra gli steli molli e cedevoli. L’ albero che
sorge al centro del circo mi sembra la testa di un serpente gi­
gantesco che spunta dalle acque putride e fangose di una palu­
de. Un ammonimento che, se mi avvicinerò troppo, il serpente
emergerà famelico a divorarmi. Che razza di pensieri balordi.
E ho anche i brividi. Colpa della scollatura, c’era proprio bi­
sogno che fosse così ampia? Ma qualcuno ha preteso che mi
vestissi in modo da congelare! Mannaggia ad Alessandra e ai
suoi consigli!
Giungo all’albero che per fortuna è sul serio una pianta e non
un serpente. Mi appoggio di schiena al tronco che si staglia nero
contro il cielo punteggiato di stelle fievoli. Respiro lentamen­
te, osservando i palazzi che circondano il lato corto del Circo
Massimo. Le finestre illuminate mi rassicurano, anche se sono
troppo distanti.
Non devo farmi prendere dal panico, non c’è niente di cui
aver paura. Io e Tommaso siamo già venuti qui di notte. Abbia­
mo bevuto nei pub e allestito i nostri picnic, prima di sdraiarci
sull’erba a coccolarci. Però non siamo mai andati più in là di
toglierci le magliette e baciarci. Tommy una volta ha provato a
infilarmi la mano nelle mutandine, ma l’ho fermato succhian­
dogli il collo fino a farlo ridere. Purtroppo sono una ragazza
insicura. Almeno per quanto riguarda quello.
Spio l’ora sul cellulare. Le undici e un quarto. Strano che
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Tommaso non sia ancora arrivato, normalmente agli appunta­
menti si presenta in anticipo, ogni volta lo trovo lì ad aspettarmi.
Gli scrivo un sms: DOVE SEI?
Aggiro l’albero e mi guardo intorno, ma non si vede un acci­
denti. Potrebbe essere a dieci passi da me e non me ne accorge­
rei. Poso lo zaino per terra e mi ci siedo sopra. Alzo gli occhi al
cielo: i puntini delle stelle appaiono sempre più fiochi, sempre
più lontani e freddi. Di solito il buio non mi infastidisce, anzi,
quando scendevo nella conca mano nella mano con Tommaso
mi sentivo tranquilla, come se stessi per entrare in casa di un
vecchio amico fidato. Stasera invece le tenebre mi assediano,
protendono i loro tentacoli e mi fanno pizzicare la pelle, la stessa
sensazione di quando ti sfili il maglione e l’elettricità statica ti
fa formicolare i peletti sulla nuca. Sarà l’agitazione. O la pasta
surgelata riscaldata al microonde che ho mangiato a cena. Op­
pure... Non so neanch’io perché mi sento così, e non saperlo
mi fa stare peggio.
Il cellulare pigola.
L’ sms di Tommaso dice: PER UNA VOLTA SEI IN ORARIO.
COMUNQUE STO ARRIVANDO.
Rimango a fissare il display. Che cavolo di messaggio è? È
questo il modo di iniziare una serata romantica? Dove sono la
gentilezza, la dolcezza, la sensualità? Se è così, freddo come un
ghiacciolo, poteva anche fare a meno di invitarmi.
Trascorrono lenti altri minuti, e io sono sempre seduta sul
mio zaino. Sola. Scrivo un messaggio su WhatsApp per Ale. Le
spiego la situazione e lei mi risponde che se Tommaso non si
fa vivo subito devo andarmene immediatamente: non bisogna
mai farsi trattare come zerbini. Mai. Lei ci è cascata con un
suo ex ed è stata un’agonia. Bisogna far valere le proprie ra­
gioni e persino incazzarsi, se necessario. Per esempio quando
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hai l’appuntamento più importante della tua vita e il tizio ti fa
aspettare nel bel mezzo del nulla, di notte.
Comincio a provare una sensazione di crescente fastidio nei
confronti di Tommaso, ma decido di ignorarla e di conceder­
gli altri dieci minuti. Dopotutto la volta scorsa sono stata io a
comportarmi male, e mi sentirei in colpa a levare le tende senza
prima avergli almeno parlato. Magari è capitato qualche impre­
visto. Gli è successo qualcosa. Ma alle undici e quarantacinque
supero il limite: mi sono proprio rotta le palle di starmene qui
a gelarmi il sedere.
«Vai al diavolo.»
Mi alzo e spazzolo i leggings. Un frusciare nell’erba, alla mia
destra. Rumore di passi. Mi volto in quella direzione. Dal buio
spuntano dei ragazzi, sagome scure in controluce sullo sfondo
luminoso dei pub. Sollevo il cellulare e accendo il flash della
fotocamera, puntandolo sul gruppetto.
«Tommy? Sei tu?»
La luce gli danza sul viso, mette in risalto i lineamenti delica­
ti, la barba curata alla Justin Timberlake e i suoi occhi, con quel
profilo all’ingiù che ho adorato dalla prima volta che i nostri
sguardi si sono incrociati.
«Ciao» dice in tono piatto, senza calore.
Non mi sorride. Chi sono i tizi alle sue spalle? I suoi amici
dell’università?
Mi avvicino a lui e mi sporgo per baciarlo, ma Tommaso
scosta il viso di lato. Le mie labbra non incontrano le sue, ma
solo la barba ruvida sulla guancia. Il cuore perde un battito, il
sangue mi si raggela nelle vene. Indietreggio di un passo.
«Si può sapere che ti prende?» gli chiedo. «È quasi un’ora che
ti aspetto.» Accenno al gruppetto di ragazzi che lo affiancano.
«E loro chi sono?»
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«Amici» risponde. «Eravamo a bere qui vicino. Ci abbiamo
messo un po’, ma non c’è bisogno di fare l’isterica.»
Isterica? Io? Rimango esterrefatta, mentre i suoi amici ridac­
chiano e commentano tra loro. Apro e chiudo la bocca un paio
di volte, senza riuscire a dire niente. Sono sbigottita. Eravamo
a bere... Intanto io ero qui ad arrovellarmi nel dubbio, a preoc­
cuparmi per lui, al freddo, al buio e con i grilli che facevano a
gara a saltarmi nella scollatura nel tentativo di farmi venire un
infarto per lo spavento!
Un’ondata calda mi risale il volto, un’ondata di rabbia.
«Sei ubriaco? O ti sei rincoglionito e non ricordi più gli ap­
puntamenti? Sei stato tu a chiedermi di venire.» Stringo il cel­
lulare nel pugno e la luce del flash abbandona la sua faccia. «Se
volevi uscire a bere con i tuoi amici potevamo organizzare per
un’altra volta.»
Pensavo che anche tu volessi trascorrere una serata speciale,
vorrei aggiungere, ma il pubblico – li ho contati, gli amici, cin­
que teste di cazzo che puzzano di sudore e di birra – mi im­
pedisce di scadere nel romantico o, peggio, nel malinconico.
Se credono che si godranno lo spettacolino della fidanzata di
Tommy che scoppia a piangere mentre lui si atteggia da duro,
si sbagliano di grosso.
«Oltre che frigida, è pure nervosetta» dice uno dei tizi. Il
che significa che Tommaso è andato a raccontare in giro del
mio rifiuto. Ha sparlato del nostro momento più intimo. E non
si sarà fatto scrupoli nello scendere in dettagli: come avevo la
pelle d’oca lungo le braccia quando mi baciava, quanto mi ver­
gognavo che mi vedesse anche solo in reggiseno, l’odore della
mia eccitazione... Mi sento sprofondare. Affogo nella palude, e
il serpente mi attende con le fauci spalancate.
«Senti Chiara...» Tommaso, ormai una sagoma nera, beve
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un sorso dalla bottiglia di birra che regge in mano. «Ci ho
pensato, e non credo che stiamo bene insieme. Penso che do­
vremmo prenderci una pausa.»
Lo dice così, con il tono indifferente di chi sta recitando il
codice fiscale all’impiegato delle poste. Questo non è il ragazzo
gentile che un mese fa si è offerto di accompagnarmi in giro
per la facoltà di Economia alla Sapienza, il ragazzo che vedendo
una liceale in difficoltà si è proposto di farle da cicerone. Non
è il ragazzo che mi scosta teneramente i capelli dal collo per
coprirlo di baci o che mi viene a prendere all’uscita da scuola e
mi consola con un mazzo di rose se un compito in classe mi è
andato male, e sempre con un mazzo di rose viene a festeggiare
se invece ho preso un bel voto. Non è il mio Tommy, o quello
che pensavo fosse Tommy.
Questo qui è uno stronzo che mi sta mollando solo perché
non gliel’ho data. E che si porta al traino altri cinque imbecilli
per sentirsi più figo, per far vedere che lui le ragazze le lascia
quando gli pare, ché tanto non ci mette niente a rimorchiarsene
una nuova al pub.
Gli amici di Tommaso rimangono in silenzio, gli occhi luc­
cicanti nella notte. Un branco di lupi intorno alla preda ago­
nizzante.
Vorrei essere forte. Vorrei non piangere. Vorrei che non mi
tremasse la voce, vorrei mandare a fanculo Tommaso e i suoi
amici e andarmene a testa alta. Vorrei lasciarmi questa storia
alle spalle sapendo di aver mantenuto intatta la mia dignità. Ma
se penso a come ero eccitata e felice appena un’ora fa, mentre
passavo la piastra sui capelli immaginando Tommaso che me li
carezzava sussurrandomi all’orecchio che mi voleva...
Se penso a quanto lo desideravo mi sento morire.
Una lacrima traditrice mi scivola lungo la guancia. Singhioz­
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zo. Posso solo sperare che al buio non si noti che ho cominciato
a frignare.
«Dai, non fare così.» Tommaso mi si avvicina, allunga la
mano libera, come per asciugarmi il viso. Sarebbe un gesto te­
nerissimo, se non fosse che mi ha spezzato il cuore.
Mi ritraggo.
«Ora capisco perché ti sei portato gli amichetti» dico, la voce
ferma nonostante sia sul punto di piangere a dirotto. «Ti man­
cavano le palle di lasciarmi da solo.»
«Guarda, Chiara, che se sono venuto a dirtelo a voce è solo
perché ti rispetto. Avrei potuto mandarti un messaggio.»
«Sarebbe stato più nel tuo stile.» Ridacchio. Vorrei che suo­
nasse come una risata sprezzante, ma è difficile quando le la­
crime ti rigano le guance.
Alzo il viso per guardarlo bene in faccia. I tratti dolci del suo
volto, così familiari, emergono dal buio. Il ricordo di quando
gli carezzavo il mento e strofinavo il naso sulla sua barba prima
di baciarlo mi lascia in bocca un sapore agrodolce, come sco­
prire che il frutto che dall’esterno sembra così gustoso in realtà
all’interno è marcio.
«Ero venuta a riprendere il discorso dell’altra sera» continuo.
«Ma ripensandoci ho fatto bene a non dartela, i ragazzi senza
palle a letto non sono un granché.»
Un amico di Tommaso fa un breve fischio, un altro mi spiega
con termini volgari quanto saprebbe soddisfarmi lui. Io sono
sull’orlo dell’abisso, sul baratro della disperazione. Vorrei sca­
gliare il cellulare in faccia a Tommaso e andarmene. Ma il tele­
fono mi servirà per chiamare Alessandra, perciò non mi resta
altro da fare che levarmi di torno.
Raccolgo lo zainetto e mentre Tommaso scherza con gli ami­
ci, ed è distratto dai loro discorsi idioti, mi incammino a passo
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spedito in direzione della strada, verso il bar accanto al quale
ho lasciato lo scooter. Non mi volto indietro neppure per un
istante, ma mi accorgo dolorosamente che dentro di me ho an­
cora una scintilla di speranza: forse Tommaso si è già pentito di
quello che mi ha fatto, magari scaccerà via i suoi amici del cazzo
e mi rincorrerà. Mi implorerà di perdonarlo, e io gli concederò
l’onore del picnic sul prato, prima di stenderci sull’asciugamano
per proseguire la nostra notte d’amore.
Proseguire. Non è neanche iniziata.
Tiro su con il naso e mi pulisco il viso bagnato di lacrime
con la manica della felpa. Ormai sono lontana e per fortuna
Tommaso non mi ha seguita, perché adesso sto piangendo come
una fontana, e la soddisfazione di vedermi distrutta per merito
suo non voglio concedergliela.
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