Kierkegaard, Antigone e la costruzione del dramma moderno

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Kierkegaard, Antigone e la costruzione del dramma moderno
Franco Perrelli
Kierkegaard, Antigone e la costruzione del dramma moderno
Lo scritto che Søren Kierkegaard dedica ad Antigone in Enten-Eller (1843) ha
forma di conferenza1, ma è una conferenza romantica, tenuta di fronte a un
pubblico assai inquietante. L’oratore – indicato con la lettera A – è infatti membro
di una società, i cui accoliti amano denominarsi symparanekrómenoi, cioè quasi
come i paranékroi («individui, che come me sono morti») del Dialogo dei morti
di Luciano; si tratta peraltro di una società che potrebbe ricordare quella specie di
club dei suicidi costituito dai Compagni di Morte, di cui parla Plutarco nella Vita
di Antonio (§ 71), morituri o lemuri, quindi, che inducono alla morte ed
elettivamente vivono nel segno della notte2. Costoro sono una possibile metafora
di una collettività umana moderna3, che parrebbe concepita all’insegna di quella
categoria che Hans Sedlmayr – con le parole di Adalbert Stifter – indicherà come
Der Tod des Lichtes spirituale4: «Venite a me più vicino, cari
symparanekrómenoi» – invita il nostro oratore – «stringetevi a me d’attorno,
mentre getto nel mondo la mia eroina tragica, mentre do per corredo alla figlia
della pena [Sorgen]5 la dote del dolore [Smerten]» (pp. 36; 152*)6.
Sono queste – Sorgen-pena e Smerten-dolore – le categorie fondamentali che
guideranno A nella sua elaborazione drammaturgica e che dovremo tenere sempre
1
È importante ricordare che Enten-Eller (in Italia, tradotto di norma con Aut-Aut) è inteso da
Søren Kierkegaard come opera dello pseudonimo Victor Eremita, il quale però avrebbe giusto
curato l’edizione delle carte che costituiscono il libro, carte nascoste e ritrovate – con effetto
teatrale alquanto scribiano – nel cassetto occulto di un vecchio secrétaire. Queste carte si
compongono di saggi estetici scritti da A, un cultore o insegnante di estetica [Æsthetiker], e di tre
lettere di contenuto etico, indirizzate dal magistrato Wilhelm (B) ad A (ma Forførerens Dagbog
ovvero il Diario del seduttore sarebbe stato copiato da A in casa del seduttore Johannes, che
l’aveva lasciato incustodito in un altro secrétaire, e una predica di B apparterrebbe in realtà a un
pastore di campagna). La conferenza su Antigone, Det antike Tragiskes Reflex i det moderne
Tragiske. Et Forsøg i den fragmentariske Stræben (Il riflesso del tragico antico nel tragico
moderno. Un saggio di ricerca frammentaria), appartiene agli scritti di A. L’elemento unitario di
Enten-Eller appare il possesso da parte di A di tutte le carte casualmente rinvenute da Victor
Eremita in quel sécretaire, che, contenendole, «metonimicamente» diventa «l’animo di A»: «un
animo postumo, sopravvissuto a lui in quel sécretaire e in quelle carte segrete e postume» (cfr. in
merito il saggio di E. ROCCA, L’Antigone di Kierkegaard o della morte del tragico, in AA. VV.,
Antigone e la filosofia, a cura di P. Montani, Roma, Donzelli, 2001, p. 75).
2
Cfr. la nota nel vol. IV (Indledninger og Tekstforklaringer), pp. 27-8, di S. KIERKEGAARD,
Værker i Udvalg, I-IV, a cura di F.J. Billeskov-Jansen, København, Gyldendal, 1950 (edizione
d’ora in poi indicata con la sigla KVIU). Nella seconda delle tre conferenze (Il riflesso è la prima)
indirizzate ai symparanekrómenoi, Skyggerids (Silhouettes), in Enten-Eller, troviamo
un’esaltazione sia della morte come «bene supremo» sia della vittoriosa «notte oscura», che
accorcia «tutto, il giorno, il tempo, la vita, il travaglio del ricordo in un eterno oblio»: «… la notte
vince, il giorno s’accorcia, la speranza cresce» (citeremo i testi di Enten-Eller dall’edizione
italiana, S. KIERKEGAARD, Enten-Eller. Un frammento di vita, I-V, a cura di A. Cortese, Milano,
Adelphi, 19903, pp. 54-5, la cit. è relativa al vol. II, che contiene Il riflesso).
3
I termini che usa Kierkegaard, in vari luoghi, in relazione ai symparanekrómenoi, sono
Selskab e, in riferimento allo «spirito d’associazione» che predomina nella modernità, Association
(pp. 21; 141*), che, incrociati, non ci sembrano escludere del tutto l’accezione più sociale e
collettiva di Samfund.
4
Il riferimento è al libro di H. SEDLMAYR, La morte della luce. L’arte nell’epoca della
secolarizzazione, Milano, Rusconi, 1970, p. 19 ss.
5
Il termine Sorg implica comunque anche un elemento di lutto e di cordoglio; sørgespil
indica in danese la tragedia.
6
Citeremo la conferenza dalla menzionata edizione italiana di Enten-Eller, riscontrata
comunque sul II vol. (Enten-Eller. Første Del) dei monumentali Søren Kierkegaards Skrifter, a
cura di N.J. Cappelørn, Gads Forlag, København, dal 1997 in fieri, i cui riferimenti di pagina
saranno nello specifico sempre marcati con asterisco.
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1
presenti, seguendolo. La conferenza è, del resto, arrivata al momento più
stringente, anche se l’oratore preludia ancora, e in termini, diremmo,
pirandelliani, sul proprio rapporto con il personaggio di cui si accinge a trattare:
Antigone – afferma da Don Giovanni polarizzato su una possessiva pulsione
cerebrale e notturna7 – «è mia creatura, i suoi pensieri sono i miei pensieri…»;
anzi è proprio come se, in una notte d’amore, l’eroina gli abbia confessato il «suo
profondo segreto» [sin dybe Hemmelighed], per poi fantasmaticamente svanire in
quell’amplesso al cui apice e limite si rivela immancabilmente Thanatos (pp. 36;
152*). L’atto drammaturgico qui sorge dalla penetrazione del fantasma del
personaggio e ruota attorno alla centrale pregnanza (e dicibilità) di un segreto che
giace nella sua interiorità e ne costituisce l’essenza8.
Insomma, proprio come Pirandello per i suoi personaggi, anche A, per
Antigone, adesso potrebbe dichiarare: «E voglio penetrare in fondo al [suo] animo
con lunga e sottile indagine»9, ma, nel nostro caso, d’indagine frammentaria –
nello spirito erratico e di lacerto testamentario di Enten-Eller –10 si tratterà. Si
parte così da una certa vaghezza: di questa Antigone ci si potrà fare l’immagine
che vogliamo; anche se si tratta di una celeberrima figura che deriva dalla
«vecchia tragedia», sarà riscritta e inserita negli schemi sintetici e parziali di un
canovaccio, di un «abbozzo drammatico»11, con il quale s’intende – di fronte alla
spenta inquietante comunità dei moderni symparanekrómenoi – configurare una
dimensione tragica appunto possibile per la modernità. Pertanto, attraverso la
sensibilissima cartina di tornasole del genere tragico – anzi di una tragedia
sofoclea che Hegel aveva definito «l’opera d’arte più eccellente e più
soddisfacente»12 – sarà impostato un discorso mirato sulle categorie spirituali
percepibili nella dimensione moderna, che diverrà implicitamente specchio e
diagnosi dell’epoca.
Quando, al principio, il conferenziere – deliberatamente all’interno della
consapevolezza che «l’epoca [moderna] tutta inclina al comico», un comico
pressoché aristofanesco, caratterizzato dalla tenaglia dello sgretolamento dei
7
Vedi, per esempio, Forførerens Dagbog, dove la conquista di Cordelia viene idealmente
collocata «allorquando il sole chiuderà il suo occhio indagatore» (S. KIERKEGAARD, Enten-Eller.
Un frammento cit., III, p. 219; KVIU, I, p. 150).
8
Sulla base delle considerazioni di Emanuel Hirsch, George Steiner ritiene che, in linea
generale, «il discorso di Kierkegaard sia quello di un drammaturgo che oppone una voce all’altra.
L’Antigone di Aut-aut costituirebbe poi un dramma frammentario all’interno di un mezzo
drammatico-dialettico» (G. STEINER, Le Antigoni, Milano, Garzanti, 20033, p. 63). È anche
evidente che il principio di questa drammaturgia del segreto quasi combacia con quello su cui
poggia l’intero arco speculativo di Enten-Eller: la violazione di un secrétaire (cfr. n. 1), la casuale
rivelazione di ciò che è nascosto e la sua comunicazione. In generale, Kierkegaard dimostra
sovente, su temi cruciali (per esempio, la vicenda di Abramo e Isacco), un’attitudine teatrale e
quasi registica («Ebbene, se avessimo oggi un poeta, egli ci potrebbe esporre l’argomento dei
colloqui fra padre e figlio lungo la strada. Anzitutto immagino che Abramo abbia concentrato nel
suo sguardo tutto il suo amore di padre…»; cfr. S. KIERKEGAARD, Diario, a cura di C. Fabro,
Milano, Rizzoli, 1975, p. 82). Su queste attitudini a una filosofia teatralizzata – in Kierkegaard
come in Nietzsche – cfr. anche G. DELEUZE, Differenza e ripetizione, Milano, Raffaello Cortina,
1997, pp. 12-3; 17 ss.
9
L. PIRANDELLO, Novelle per un anno, I,1, Milano, Mondadori, 1985, p. 816.
10
Va ricordato che lo stesso sottotitolo di Enten-Eller è Et Livs-Fragment ovvero Un
frammento di vita.
11
«Udkast til et Skuespil» è un’espressione di F.J. Billeskow-Jansen (KVIU, IV, p. 27), che
ritiene giustamente che A di più non saprebbe realizzare, considerata l’inclinazione dei
symparanekrómenoi al frammento ovvero alla riluttanza a «produrre opere fornite di nesso o
gigantesche totalità», in un’ottica di composizioni incompiute e postume, nella loro strutturale
fragilità e inorganicità (pp. 34; 150*).
12
G.W.F. HEGEL, Estetica, a cura di N. Merker, Torino, Einaudi, 19722, p. 1361.
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2
valori, anche a causa, da un lato, del dubbio e dell’isolamento e, dall’altro, dello
schiacciamento del singolo sotto la pressione del numerus (ma si direbbe pure
della sistematicità hegeliana) – si ripromette «di mostrare come le caratteristiche
del tragico antico possano venire incorporate nel tragico moderno cosicché il vero
tragico arrivi colà a manifestarsi» (pp. 21; 140-1*), si rifà a temi analoghi
affrontati da Hegel. Nell’Estetica (1836-8), Hegel aveva infatti evidenziato –
muovendosi almeno da un generico spunto individualistico, che aveva di certo
attirato l’attenzione di Kierkegaard –13 che, nell’antichità, il conflitto tragico
verteva sulla sostanzialità (ovvero ciò che, nella sua irriflessiva naturalezza, è
significativo e reale insieme) che trascende l’individuo (nella famiglia, nello
Stato), mentre, nella modernità, tale conflitto appariva tutto inerente alla
soggettività dell’eroe (pp. 28-9; 146-7*)14.
Subito, il conferenziere di Enten-Eller sviluppa questo spunto, ribadendo che
«vera e propria caratteristica» della tragedia greca era che, in essa, «benché si
muovesse liberamente, l’individuo restava nell’ambito delle determinazioni
sostanziali, nello stato, nella famiglia, nel fato», e la sua rovina non derivava
quindi tanto dalla sua «azione» [Handling], ma si configurava come un «patire»
[Liden]. Tale situazione, nella tragedia moderna, quasi si ribalta, attenuandosi il
patire e affermandosi l’«atto» [Gjerning] o, talvolta, anche solo un momento (nel
caso, decontestualizzato da tutto il resto) della vita dell’eroe, che ne provoca la
rovina, mettendo in maggior rilievo gli elementi della situazione e del carattere,
tanto più che ormai «l’eroe tragico è soggettivamente riflesso in sé, e questa
riflessione non soltanto l’ha riflesso fuori da ogni immediato rapporto con lo
stato, la famiglia e il fato, ma spesso l’ha persino riflesso fuori della sua stessa
vita precedente». In tal modo: «L’eroe sta e cade completamente sui suoi propri
atti» (pp. 24; 143*).
Prendendo le mosse da un passo cruciale della Poetica di Aristotele (cfr. §
13), A considera che, se l’individuo non ha una colpa, non può sussistere un
interesse tragico e, di contro, se la sua colpa è assoluta, si verifica la stessa cosa.
Nella modernità – abbiamo visto – si tende a trasfondere in individuale e
soggettivo ciò che è fatale e a considerare la vita dell’eroe come il risultato di
13
Osserva infatti Hegel che «per l’agire veramente tragico è necessario che sia maturato il
principio della libertà e dell’autonomia individuali o per lo meno l’autodeterminazione di essere
liberamente responsabili dei propri atti e delle loro conseguenze» (Ivi, pp. 1347-8).
14
Nell’Estetica, Hegel ritiene che «in generale nella tragedia moderna gli individui non
agiscono in vista del lato sostanziale dei loro fini né questo è ciò che si afferma come impulso
nella loro passione, bensì è la soggettività del loro cuore ed animo o la particolarità del loro
carattere quella che preme per essere soddisfatta», mentre, in Eschilo e soprattutto in Sofocle,
«l’opposizione principale […] è quella dello Stato, della vita etica nella sua universalità spirituale,
con la famiglia come eticità naturale. Queste sono le potenze più pure della manifestazione tragica,
in quanto l’armonia di queste sfere e l’agire armonico entro la loro realtà costituiscono la completa
realtà dell’esistenza etica» (Ivi, pp. 1368; 1356 e 1348-9). Kierkegaard, nel saggio sul tragico,
sembra prendere meno direttamente in considerazione le notazioni su Antigone riscontrabili nella
Fenomenologia dello spirito (1807). In quest’opera, Hegel aveva toccato il tema di Antigone, ma
nella cornice di un più ampio discorso sul «mondo etico», per cui «la sostanza etica, secondo il
suo contenuto, si [viene a scindere] mediante il suo concetto nelle due potenze […] determinate
come il diritto divino e l’umano o come il diritto infero e il supero, – quello la famiglia, questo il
potere statale, – dei quali il primo [è] il carattere femminile, l’altro il maschile», con la
manifestazione di un paritario dissidio spirituale fra l’individualità femminile, coincidente con
l’universale e latrice del diritto del sangue e della famiglia, e la manifestazione virile e legittima
dello Stato, ovvero fra amore e legge (cfr. G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, I-II,
Firenze, La Nuova Italia, 19762, pp. 6 ss.; 243 del II vol.). Sull’interpretazione hegeliana di
Antigone, vedi anche P. VINCI, L’Antigone di Hegel, in AA. VV., Antigone e la filosofia cit., p. 31
ss.; P. SZONDI, Saggio sul tragico, Torino, Einaudi, 1996, p. 19 ss.
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3
azioni di cui è responsabile15; quella che dovrebbe essere la sua colpa estetica (e il
tragico antico è autentico «amore materno», in quanto dolcezza estetica, fondata
sulla circostanza che l’eroe greco è insieme colpevole e non colpevole, patendo
soggettivamente per colpe della stirpe), a questo punto, si trasforma in colpa
etica, sicché «il male diventa il vero e proprio oggetto tragico; ma il male non ha
alcun interesse estetico e il peccato non è un elemento estetico».
Per di più, a causa della caratterizzante e generalizzata prevalenza del comico
nel moderno, si smarrisce «il vero e proprio crimine tragico nella sua equivoca
innocenza», e considerando che l’individuo è responsabile della sua vita, qualora
costui si perda, «la cosa non è tragica, ma è male». Da qui un inevitabile
smarrimento del contatto con il senso del tragico e le radici metafisiche e, in
parallelo, un incremento di «disperazione» [Fortvivlelse]16, ben diversa dalla
«melanconia» [Veemod] terapeutica di quel tragico antico che riesce addirittura a
rendere felice l’individuo capace di considerarsi relativo e non assoluto (pp. 25-7;
143-5*)17.
Se la diagnosi sulle tendenze della modernità è tale, bisognerà inventare uno
spazio di mediazione dialettica fra estetica ed etica ai fini di una reindividuazione
del tragico, che però non potrà essere lo stadio terzo o religioso, perché la
comparsa dell’individualità di Cristo appare «in un certo senso […] la tragedia più
profonda», ma è poi «infinitamente di più», in quanto manifestazione della Grazia
(pp. 23: 142*). Nonostante la vicenda del Cristo indubbiamente incapsuli un
grumo tragico, nel suo sviluppo prospettico essa fa sì – come noterà pure Karl
Jaspers – che «l’essenziale, per il cristiano, non [possa] manifestarsi nella
tragedia», giacché, per lui, il peccato si muta «in felix culpa, che ha reso possibile
la redenzione»18; e – per Kierkegaard – Cristo, che si assume la colpa in quanto
innocente, marca anzi una rottura sia rispetto all’irriflessa sofferenza di cui
s’ignora l’origine della pena sia rispetto a quella riflessione soggettiva sulla
sofferenza che è il dolore. Cristo spazzerebbe via ogni discorso sul tragico, che in
tal senso, concettualmente, si qualifica come pre-cristico19, sennonché il tragico
15
Commenta Bettina Faber che, nella sua adesione ad Aristotele, A ne coglie l’essenza
ovvero la centralità nella tragedia dell’azione poiché «in essa si manifesta all’uomo in un’inattesa
irruzione, la finitezza del proprio essere», sicché il tragico viene ad attenere alla «relatività
insormontabile dell’essere umano» (B. FABER, La contraddizione sofferente. La teoria del tragico
in Søren Kierkegaard, Padova, Il Poligrafo, 1998, pp. 76; 81).
16
In Sygdommen til Døden (La malattia mortale, 1849), Kierkegaard indica la disperazione
(Fortvivlelse) come un vivere la morte dell’io in una negazione di Dio: «Se si volesse parlare di
una malattia mortale nel senso più stretto, questa dovrebbe essere una malattia in cui la fine
sarebbe la morte e la morte sarebbe la fine. E questa è precisamente la disperazione» (cfr. S.
KIERKEGAARD, Opere, a cura di C. Fabro, Firenze, Sansoni, 1972, p. 628; KVIU, II, p. 245). Va
ricordato che altri studiosi preferiscono per questo fondamentale testo kierkegaardiano una
traduzione più propria del titolo, cfr. S. KIERKEGAARD, La malattia per la morte, a cura di E.
Rocca, Roma, Donzelli, 1999.
17
Diversa invece la dura eticità delle maledizioni del Dio dell’Antico Testamento, che castiga
comunque giustamente i peccati. Infatti, «la collera degli dèi [greci] non ha alcun carattere etico,
ma equivocità estetica» (cfr. pp. 33; 149-150*).
18
K. JASPERS, Del tragico, Milano, SE, 1987, p. 25.
19
Su questa linea, implicitamente, anche P. SZONDI, Saggio sul tragico cit., p. 46, che
sottolinea come il tragico scompaia negli scritti kierkegaardiani successivi al 1846, ma in assoluto
sia dal filosofo considerato «sempre in contrasto, rispetto al suo opposto, a partire dallo stadio
religioso». Tanto che, in Frygt og Bæven (Timore e tremore, 1843), il Singolo [den Enkelte],
attraverso «la sofferenza, le pene e il paradosso» [«Nøden og Qvalen og Paradoxet»] diventerà il
«cavaliere della fede» [Troens Ridder] nella figura di Abramo, che non è «in nessun momento un
eroe tragico», ma, «in contrasto al generale», fronteggia solitario Dio, implicando una parallela
sminuizione dell’imponente «eroe tragico» Agamennone, il quale «rimane ancora dentro la sfera
etica», sacrificando la figlia quantomeno per il bene del popolo. Abramo di contro «ha cancellato
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4
può porsi ancora, storicamente, come problema residuale e in qualche modo
sussistere come spettrale «riflesso» [Reflex] anche post Cristo, sia nella diffusa
estetizzazione religiosa peculiare della modernità20, sia nel suo parallelo definirsi
all’insegna di quella «morte della luce» di stifteriana memoria (o riluttanza alla
Grazia), che abbiamo sfiorato al principio del nostro discorso, e la cui ombra si
proietta sui symparanekrómenoi che popolano la modernità.
Nella prima parte della conferenza, si era quantitativamente e qualitativamente
determinato – rielaborando ancora Aristotele e Hegel – che, essendo la pena «più
sostanziale» del dolore, «nella tragedia antica la pena è più profonda»
(possedendo la colpa «l’ambiguità estetica»), ma «minore il dolore», mentre
«nella tragedia moderna il dolore è più grande» («perché l’eroe patisce tutta la sua
colpa, è a se stesso trasparente nella sofferenza della sua colpa») e, di
conseguenza, è «minore la pena» (pp. 29-30; 147*)21. Introducendo Antigone, il
conferenziere viene quindi a sostenere che un personaggio femminile sembra
ideale come esempio del «riflesso» del tragico antico sul moderno, poiché può sia
fare emergere, con la sua sostanzialità, la pena, sia, con la sua riflessione,
evidenziare il dolore e, a questo punto, A si dedica a mettere mano alla tragedia
sofoclea, concedendo «alla figlia della pena antica irriflessa […] la (velenosa)
moderna dote di un dolore riflessivo» (W. Rehm)22, tanto che questa nuova
Antigone andrà ben oltre l’orizzonte sofocleo o un’interpretazione di tipo
hegeliano e sarà vera e propria reinvenzione come pure apertura d’inusitate
prospettive drammatiche.
Dunque, Edipo ha ucciso la Sfinge e liberato Tebe; ha assassinato il padre e
sposato la madre, da cui ha avuto Antigone. A parte questi minimi presupposti,
con la sua azione tutta l’etica» ed è «grande per una virtù puramente personale», non «morale»
come quella di Agamennone che, di fatto, «non si presenta con un rapporto privato alla divinità».
Per Kiekergaard, «l’eroe tragico lascia il certo per ciò ch’è ancor più certo e l’occhio
dell’osservatore riposa tranquillo su di lui», ma Abramo lascia «il generale per afferrare qualcosa
di ancor più alto del generale» e su di lui «non si può piangere», presi come si è da «horror
religiosus» di fronte alla «sospensione teleologica dell’etica» (cfr. S. KIERKEGAARD, Opere cit., p.
65 ss.; KVIU, II, p. 58 ss.). In seguito, in Kierkegaard, il tragico si collocherà al confine fra l’etico
e il religioso, risolvendosi nello humour (cfr. P. SZONDI, Saggio sul tragico cit., p. 47). Il carattere
antitragico del pensiero kierkegaardiano o quantomeno di una tragicità altra è evidenziato anche
da E. FRANZINI, Kierkegaard e il senso del tragico, in AA. VV., Tragico e modernità. Studi sulla
teoria del tragico da Kleist ad Adorno, a cura di F. Carmagnola, Milano, Franco Angeli, 1985, che
spiega come «la necessità della scelta» – che, nel pensatore danese, si coglie «soltanto nell’atto,
nel possibile esistenzialmente attuato» – chiami in causa per l’appunto un atto «saturo di una
tragicità nuova», ignota al mondo antico perché frutto del cristianesimo (p. 71). Franzini si rifà
peraltro largamente alle tesi di H.G. GADAMER, Verità e metodo, a cura di G. Vattimo, Milano,
Bompiani, 1983, ma andrebbe pure ricordata la divergente interpretazione di Virgilio Melchiorre,
che, puntando sulla categoria del pregnante silenzio che caratterizza e nell’essenza accomuna i due
personaggi, tende invece a considerare «Abramo come la nuova Antigone» (V. MELCHIORRE,
Saggi su Kierkegaard, Genova, Marietti, 19982, p. 78 ss.).
20
Sul carattere oltre-estetico della vita di Cristo cfr. anche p. 32; 149*. Andrebbe altresì
rilevato che la modernità è, per Kierkegaard, in preda a tale confusione da tendere a estetizzare e
quindi a tragicizzare lo stesso cristianesimo, che è appunto ben altro. Se la colpa [Skyld], però, si
fa peccato [Synd] e il dolore pentimento [Anger], il tragico ineluttabilmente sfuma e lo spettatore
perde l’essenziale esperienza della «compassione» [Medlidenhed], che è «vera e propria
espressione del tragico» (cfr. pp. 31; 148*).
21
Più oltre, Kierkegaard puntualizza: «La vera pena [Sorg] tragica esige dunque un momento
di colpa [Skyld], il vero dolore [Smerte] tragico un momento d’innocenza [Uskyldighed]; la vera
pena tragica esige un momento di trasparenza [Gjennemsigtighed], il vero dolore tragico un
momento d’oscurità [Dunkelhed]» (pp. 34; 150*].
22
W. Rehm, Begegnungen und Probleme, Bern, Francke, 1957, p. 288.
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5
però, il conferenziere cassa d’emblée nientemeno che l’intero Edipo re e ci
racconta del monarca di Tebe onorato da tutti, mentre i suoi vergognosi delitti
risulterebbero noti solo ad Antigone. Come? Essendo «al di fuori dell’interesse
tragico» – suggerisce, sempre aleatorio e frammentario, A – ognuno può
inventarsi un modo, ma è possibile che, attraverso allusioni, già in tenera età,
Antigone fosse colta dalla certezza dei misfatti paterni e precipitata
nell’«angoscia» [Angst], che, per quanto tragica possa intendersi, è però diversa
dalla pena, dato che «l’angoscia guarda alla pena per bramarla»23. Del resto, se
l’angoscia è «una determinazione della riflessione» ha un oggetto e si è angosciati
(come Amleto che ha il presentimento del delitto materno) per qualcosa, nel
passato o nel futuro, mentre la pena esprime presentemente ciò per cui peniamo
quanto il penare medesimo (pp. 38; 153-4*).
Nello specifico, la pena greca (come la vita greca), oltre a contenere meno
dolore, appare tutta risolta nel presente. Per questo, in Sofocle, Antigone non si
cura del destino del padre; esso irrimediabilmente grava come pena sulla stirpe.
Se la colpa tragica di Antigone viene a concentrarsi sul fatto che seppellisce il
fratello contro l’ordine di Creonte, la sua non è tanto una «libera azione», ma, nel
suo agire, si proietta il destino di Edipo e solo questo induce nello spettatore greco
una pena profonda: «il triste destino di Antigone è come l’eco di quello del padre,
una pena potenziata». Di contro, se si vedesse il gesto dell’eroina «come un fatto
isolato, come una collisione tra l’amore, la pietà di una sorella e un arbitrario
divieto umano, Antigone cesserebbe d’essere una tragedia greca, sarebbe un
soggetto tragico del tutto moderno» (pp. 39-40; 154-5*), come in effetti accade
nello spettacolo del Living Theatre e in tutte le interpretazioni in chiave più o
meno politica del suo mito.
La nuova Antigone, secondo il conferenziere, a questo punto, non può essere
rivolta all’esterno come la figura della tragedia greca, ma deve ripiegarsi su una
scena interiore, anzi «una scena spirituale» [en Aandescene]. Forse, A forza qui
proprio lo Hegel della Fenomenologia dello Spirito, che riconduce la sfera degli
affetti familiari alla donna (cfr. n. 14)24, per dischiudere lo spazio di un dramma,
che, persa l’antitetica dimensione della legge, risulta sostanzialmente intimo,
affettivo e psicologico (a prescindere dal fatto che il suo presupposto sarebbe un
indefinito trauma infantile), ma – più che in relazione al gioco di altri personaggi,
che scopriremo presto pressoché irrilevanti – assolutamente interiorizzato. Anzi,
dominato da un elemento che, poco sotto, viene indicato con l’espressione et
forborgent ovvero: un che di occulto, misterioso, enigmatico, indecifrabile,
recondito, ma perfino losco. Si tratta, insomma, di una «scena spirituale»,
caratterizzata da un principio di morte e di perdizione, che appare non scevro di
sostanzialità e consapevolezza, ma, nella sua oscurità profonda, anche alimentato
da un’incontrollabile pulsione.
23
Questa di Antigone è un’angoscia precristiana e in fondo quindi non formativa (come
peraltro la disperazione) in vista del rapporto di fede del Singolo nei confronti di Dio. Per Steiner,
sarebbe comunque «l’elemento tragico moderno par excellence» (G. STEINER, Le Antigoni cit., p.
69). Steiner (ivi, pp. 62; 72) evidenzia ancora l’ovvio carattere personale e psicologico di questa
situazione nella biografia di Kierkegaard, segnatamente nella sua drammatica relazione con il
padre e una sua oscura colpa (vedi, tra l’altro, S. KIERKEGAARD, Diario cit., p. 93); una cosa che
era stata immediatamente sollevata, agli albori della fortuna di Kierkegaard, nel saggio di Georg
Brandes del 1877 (cfr. G. BRANDES, Søren Kierkegaard, nel vol. III di Udvalgte skrifter, a cura di
S. Møller Kristensen, I-IX, København, Tiderne Skifter, 1985, pp. 24; 62) e che pure Szondi
sintetizza nell’inciso: «la […] tragicità [di Kierkegaard] era quella della sua Antigone» (P.
SZONDI, Saggio sul tragico cit., p. 48).
24
G.W.F. HEGEL, Fenomenologia cit., II, pp. 77 ss.; 21 e passim.
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6
Dacché ci viene presentata, la vita di questa Antigone «è essenzialmente
conclusa» (p. 40; 155*)25; il personaggio contaminato dal moderno – come il
pubblico moderno dei symparanekrómenoi – «non appartiene al mondo in cui
vive, seppur fiorente e sana la sua vera vita è», per l’appunto, «un che di occulto
[et forborgent]; anch’ella, benché viva, da un altro punto di vista è morta», perché
incapsulata, si direbbe, nell’indicibile «segreto della sua anima» [in hendes Sjæles
Løndom].
Antigone, allora, è fiera di celare il segreto dell’atrocità del padre, sentendosi
«designata in uno strano modo a salvare la gloria e l’onore della stirpe di Edipo»,
e ciò le conferisce una dimensione tragica. Così, diventa «sposa, eppure in tutta
castità e purezza» (p. 41; 156*); anzi diventa «virgo mater», recando in grembo il
suo terribile segreto, di cui è grata di poter piangere. In una catena: è «sposa della
pena» [Sorgens brud] e del segreto e naturalmente del padre. A differenza del
sentire greco (si veda, per esempio, Filottete), nel suo «dolore riflessivo»,
Antigone non vorrebbe mai che altri di questo fosse a conoscenza perché,
modernamente, di esso avverte la giustizia nell’afflizione (pp. 42-3; 156-7*), ma è
pure intrappolata in un evidente rapporto incestuoso, che si perpetua per fatalità
della stirpe. Qui, Kierkegaard ci sembra sfiorare una terza dimensione (oltre la
pena e il dolore) e l’eroina appare intrappolata anche su un livello pulsionale
soggettivo: et forborgent è infatti qualcosa che si tace con consapevolezza in
rapporto al mondo, ma di cui, nelle implicazioni estreme, nei filamenti più sottili
del desiderio e delle pulsioni, non si è del tutto consapevoli, appartenendo pure,
rispetto a se stessi, all’inconfessabile criptato nell’inconscio.
Non a caso, il conferenziere, antihegelianamente, sente di rivendicare una più
sciolta e originale dialettica della vita e delle passioni per il singolo, ma A – ben
consapevole che l’individuo isolato è sommamente antitragico – si rivolge ora
soprattutto, alla maniera dei greci, a sottolineare la responsabilità della stirpe,
ponendo al dramma dell’individuo la necessità di «riprendere l’elemento antico
della pietà [Pietet], attraverso il quale per l’appunto il carattere si rapporta alla
società e alla stirpe» (G. Brandes)26. Sia l’Antigone greca sia la moderna
partecipano della colpa del padre, tuttavia, per l’eroina sofoclea, «la colpa e la
sofferenza del padre sono fatti esterni, fatti inalterabili che la sua pena non tocca»,
mentre il personaggio kierkegaardiano si trova di fronte a circostanze differenti.
La drammaturgia di A adesso fa terra bruciata attorno all’eroina, ne desertifica
il paesaggio delle relazioni immediate, supponendo per di più che Edipo sia
morto. Quand’era vivo, Antigone non aveva avuto il coraggio di confrontarsi con
lui in merito al suo segreto; ora che non c’è più le è impossibile sbloccarlo,
liberarsene, poiché qualsiasi confidenza comporterebbe il disonore del padre.
Antigone, inoltre, non è sicura se Edipo, a sua volta, condividesse o meno il suo
segreto e qui affiora appieno la modernità: «l’inquietudine della sua pena» e
«l’anfibolia del suo dolore» (p. 45; 159*). L’amore che prova per il padre «la trae
fuori da se stessa per immetterla nella colpa del padre» e le fa condividere la sua
colpevolezza, estraniandosi dal resto dell’umanità. Nel sapere tutto di Antigone
25
Più in là si osserverà che è già sepolta viva, mentre l’Antigone greca deve attendere la
condanna di Creonte (p. 43; 157*). Inevitabile l’eco d’un rimando alla figura di Amleto, sul quale
Hegel dice che «nel fondo del [suo] animo […] vi è fin dall’inizio la morte» (G.W.F. HEGEL,
Estetica cit., p. 1375), anche se, sulle in fondo relative «assonanze» tra il filosofo danese e quello
tedesco, è accettabile quanto scrive, insieme indicandole e un po’ ridimensionandole, B. FABER,
La contraddizione cit., p. 90 ss.
26
G. BRANDES, Søren Kierkegaard cit., p. 62 (cfr. anche pp. 44-5; 158-9*). Così, per F.J.
Billeskow-Jansen, «Antigone, diventerà, in Kierkegaard, l’essere umano tragico, poiché il segreto
della stirpe la consacra alla rovina» (KVIU, IV, p. 26).
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7
sul padre, resta pur sempre un’ignoranza se il padre stesso sapesse e tale
ignoranza «può sempre tenere in movimento la pena, […] sempre trasformarla in
dolore» (p. 46; 159*).
A questo punto della conferenza, comprendiamo che quando, fra mille
scrupoli retorici, l’oratore aveva annunciato: «Le metto» (ad Antigone) «la parola
in bocca…» [«Jeg lægger hende Ordet i Munden…»] (pp. 36; 152*), non pensava
tanto alla parola del dialogo, quanto a quella del monologo. Il conferenziere
riconosce apertamente che la sua Antigone è solo «en episk figur»; noi diremmo
un personaggio imbozzolato in se stesso, che può esprimere la propria essenza, in
termini di teatro, largamente tramite un racconto (e un monologo), visto che non
interagisce di fatto con alcun personaggio, tranne lo spettro interiorizzato o
pulsionale del padre. Volendole cercare un contesto a partire dalla tragedia
d’origine (esclusi del tutto i fratelli fratricidi che qui non giocano alcun ruolo), A
le concederà una sorella che sarà maggiore e sposata e una madre vivente, ma si
tratta pur sempre di personaggi giusto annunciati, che – nel programmatico
progetto frammentario del conferenziere – restano evanescenti e senza sviluppi.
Insomma A, vista la chiusura spirituale e solo interiormente conflittuale della
protagonista, erige quel gigantesco «io epico» che – come vorrà Peter Szondi –
costituisce un «concetto antitetico» al dramma caratterizzato da esteso «dialogo
drammatico», poiché «è dalla possibilità del dialogo che dipende la possibilità del
dramma»27. A, insomma, ha messo, in grande anticipo sulla fine dell’Ottocento,
un piede nella crisi del dramma moderno, che smette di essere «forma letteraria
dell’accadere (1) presente (2) e intersoggettivo (3)»28, e, per la sua Antigone
(peraltro da lui narrata), deve chiedersi: come ottenere «l’interesse drammatico»?
Den dramatiske Interesse starà nella circostanza che Antigone è innamorata,
anzi «mortalmente innamorata» [dødelig forelsket]: qui infatti «giace la collisione
tragica» [den tragiske Collision] perché l’oggetto del suo amore conosce i suoi
sentimenti (pp. 47; 160-1*). La dote di Antigone è, com’è noto, il suo dolore:
«Oserà confidar[lo] a qualcuno, magari a un uomo da lei amato?». Sorge
immediatamente un conflitto nei confronti del padre: «Ella lotta con se stessa, ha
voluto sacrificare la sua vita al suo segreto, ma ora s’esige il suo amore in
olocausto». Alla prima collisione (l’amore per il padre, per se stessa e se il suo
amore non sia un olocausto troppo grande) ne subentra una più omogenea
(l’amore simpatetico verso l’amato) (p. 48; 161*). L’innamorato, che, con tecnica
preespressionistica, non viene neppure indicato con un nome, cerca tutti i modi
per vincere la prima naturale ritrosia di Antigone; sa quanto amasse il genitore e
la ritrova presso la sua tomba, ancora serrata fra nostalgia del padre (Længsel efter
Faderen; ma Længsel implica anche anelito, brama e desiderio) e dolore [Smerte],
e la scongiura di concedersi (p. 49; 162*). Proprio nell’incrocio tra Længsel e
Smerte (e Sorg), Kierkegaard fa intravedere un’ulteriore orizzonte di tragedia che,
al di là del dualismo pena-dolore, sfiora l’elemento pulsionale.
Nonostante il subentrare di un inevitabile tono romantico-patetico (come
aveva fatto Regine con Kierkegaard, anche l’innamorato s’appella a lei in
memoria del padre defunto)29, qui il largo spazio monologico della protagonista,
che dobbiamo ipotizzare nella prima parte del dramma, potrebbe cedere più che a
un serrato dialogo, all’implorazione, ancora una volta largamente monologica
dell’innamorato, poiché dobbiamo supporre una particolare ritrosia o evasiva
27
P. SZONDI, Teoria del dramma moderno 1880-1950, Torino, Einaudi, 1962, pp. 7; 13.
Ivi, p. 60.
29
S. KIERKEGAARD, Diario cit., p. 128. Per la similarità della situazione di Antigone con
quella autobiografica di Kierkegaard, cfr. in particolare ivi, p. 115.
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argomentazione da parte della resistente discrezione nella quale Antigone si
trincera. Dobbiamo anche immaginare come corredo di tanta reticenza del
personaggio drammaturgico, una cospicua componente mimica, che spinge Ettore
Rocca, non senza ragione, a sostenere che la tragedia moderna qui si configura
«mimica, dramma senza parole, dramma ammutolito, dramma come
comunicazione negata»30 e che tale mimica, secondo il Kierkegaard di Begrebet
Angest (Il concetto dell’angoscia, 1844), va collegata a quel Dæmoniske, la cui
«essenza […] è di essere taciturno e di rendersi manifesto contro volontà»31.
Potrebbe rivelarsi allora questo il filo rosso che sotterraneamente attraversa la
conferenza e che concernerebbe in fondo la «morte della luce» e anche la
problematicità della Grazia nella modernità.
In tale caratterizzante gioco di riflessi di pena, di dolore e di pulsioni, come si
configura in conclusione, secondo Kierkegaard, la tragedia moderna?
Formalmente (cioè nelle forme della scrittura), presenterà dialogo e relazioni
interpersonali estremamente rarefatti, sarà mirata sull’interiorità profonda di un
segreto e soprattutto sull’incomunicabilità: sarà quindi monologica, mimica e
nell’essenza demonica. La morte non vi apparirà per eclatanti eventi sanguinosi,
ma per chiusura esistenziale, estinzione della comunicazione, ancora una volta:
«morte della luce»32.
Del resto, se torniamo alla conclusione del canovaccio di A, «ciò intorno a cui
[…] gravita l’interesse [drammatico ora] è il riuscire a strappare [ad Antigone] il
segreto», ma il suo dolore s’è vieppiù «accresciuto accanto al suo amore, accanto
al suo simpatetico patire con colui che ama», e, essendo quest’amore in tutti i
sensi mortale, «solo nella morte potrà trovar pace […]. È solo all’istante della sua
morte che [Antigone] potrà confessare ciò che è intimo del suo amore, è solo
all’istante in cui all’amato non appartiene più che potrà confessare
d’appartenergli» (p. 49; 162*)33.
Allora, «Antigone regge il suo segreto nel suo cuore, come un dardo che la
vita ha costantemente spinto sempre più a fondo senza privarla della vita, perché
fino a quando esso resta nel suo cuore può vivere, ma all’istante in cui le sarà
levato dovrà morire. Quella di rapirle il suo segreto è la lotta che deve ingaggiare
l’amante, eppure ciò costituisce anche la morte certa di lei». Infine, Antigone è
annientata dallo slancio dell’amante vivo o dall’impulso dell’amato padre morto?
La risposta è: per impulso del defunto, soffocata dall’incesto, essendo «il ricordo
del padre […] la ragione della sua morte»; per slancio del vivo, «nel momento in
cui il suo amore infelice è l’occasione affinché il ricordo» – noi aggiungeremmo
congiunto alla pulsione – «la uccida» (p. 50; 162*).
Il libro di Georg Brandes su Kierkegaard del 1877 può piacere o no, esser
ritenuto più o meno superficiale, ma (come tanti saggi di Brandes) è storicamente
30
E più giù dramma come «comunicazione muta e incomprensibile per i vivi» (E. ROCCA, Tra
estetica e teologia. Studi kierkegaardiani, Pisa, ETS, 2004, pp. 44-5).
31
Ivi, pp. 36; 41. Per Il concetto dell’angoscia, cfr. S. KIERKEGAARD, Opere cit., pp. 175; 180
(come pure KVIU, II, p. 106).
32
Nell’insieme, l’Antigone di A non pare lontana dallo schema che Szondi offre della
moderna forma monodrammatica (in specie quella strindberghiana, per intenderci), che ha «il
compito di rappresentare accadimenti psichici segreti»; funzione che essa risolve «ritirandosi nel
suo personaggio centrale e limitandosi esclusivamente ad esso […], o considerando tutto il resto
dal suo punto di vista» (P. SZONDI, Teoria cit., p. 35).
33
Kierkegaard anticipa la dinamica di Gjentagelsen (La ripresa, 1843), nella quale ripropone
l’idea di Enten-eller che «il solo amore felice sia l’amore-ricordo», per giungere alla
considerazione che «soltanto nell’eternità possiamo attenderci la sola vera ripresa» (KVIU, II, pp.
7; 47).
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9
fondamentale e uno strumento straordinario di divulgazione di un fenomeno
filosofico poco conosciuto. Dopo aver riassunto in pochi righi – come solo
Brandes sa fare – la nostra ponderosa esegesi del saggio su Antigone, il critico
danese aggiunge: «… l’intera concezione scientifica dell’individuo dell’epoca
moderna da lungo tempo ci ha indotto ad attribuire a tutto ciò che è ereditario quel
significato, che l’autore attribuirebbe soltanto a ciò che si assume come eredità
spirituale. Noi non dividiamo più l’individuo dalla stirpe o dalla società, che
l’hanno generato, noi non concepiamo mai la stirpe come del tutto priva di rimorsi
di fronte al crimine dell’individuo, ma le diamo di conseguenza la sua parte di
colpa [Skylden]; noi non consideriamo mai l’individuo assoluto responsabile del
suo atto [Handling], ma consideriamo la sua responsabilità sempre come
relativa»34.
Questo bollo positivistico assai poco c’impressionerebbe, se non fosse, a
valle, uno dei due confini teorici – l’altro ovviamente, a monte, è lo stesso saggio
di Kierkegaard di cui ci stiamo occupando – in mezzo ai quali va a costruirsi la
drammaturgia di Ibsen e di Strindberg e, quindi, cospicua parte del dramma
moderno. Quando Brandes recensirà Gengangere (Spettri) di Ibsen, riconoscerà
nel testo la «tragedia moderna» («den moderne Tragedie») e, polemizzando con
coloro che concepivano razionalisticamente il dramma moderno come dramma
della libertà, rileverà «una sintonia tra la fede dell’autore nel destino e quella degli
antichi», e – accennando a un parallelismo con l’Edipo di Sofocle – in qualche
modo ripeterà che, in quanto positivista e quindi «libero da ipoteche
mitologiche», il XIX secolo condivideva un certo «determinismo» con l’antichità
classica35.
Il modello drammaturgico configurato da Kierkegaard, riscrivendo Antigone,
dovette così passare attraverso la strettoia teorica del determinismo positivista del
secondo Ottocento per giungere a Ibsen e a Strindberg inevitabilmente
destrutturato, ma non privo di pregnanza nei suoi elementi isolati o parzialmente
aggregati, tanto che questi autori sono stati riconosciuti da Peter Szondi tra i più
emblematici protagonisti della crisi del dramma moderno in una chiave
sostanzialmente epica.
L’idea del segreto e dell’incomunicabile come cellula germinante del dramma
appare peraltro una struttura radicata nella costruzione drammaturgica di Ibsen e
Strindberg. Nel suo saggio su Amleto, Strindberg è esplicito: «Noi drammaturghi
moderni dobbiamo lavorare con l’esposizione, l’allusione, il dosaggio di ciò che è
segreto…» ovvero «hemlighetens utminuterande»36, e, in una lettera del 27 marzo
1907 a Emil Schering, relativa al dramma da camera Spöksonaten (Sonata di
spettri), «schauderhaft come la vita», l’autore svedese spiega che è basato sul
principio che «in ogni casa si trovino molti segreti» e che ogni uomo viva in un
mondo d’illusioni37. Del resto, se leggiamo il terzo e ultimo movimento di questo
prodigioso dramma-sonata, ambientato in una bizzarra camera dei giacinti e
sviluppato come sontuoso colloquio fra lo Studente e la Fanciulla, che ripiega
però significativamente nel dilagante monologo del ragazzo, rinveniamo quasi la
medesima dinamica dell’incontro-confronto fra Antigone e il suo innamorato alla
tomba di Edipo. Qui però c’è una specie di sottile inversione: è l’innamorato a
34
G. BRANDES, Søren Kierkegaard cit., p. 62.
G. BRANDES, Henrik Ibsen: Gjengangere, in «Morgenbladet», 28 dicembre 1881.
36
A. STRINDBERG, Samlade verk, a cura di L. Dahlbäck, Almqvist & Wiksell-Norstedts,
Stockholm, in fieri dal 1981, p. 46 del LXIV vol. (edizione d’ora in poi indicata con la sigla
ASSV).
37
A. STRINDBERG, Brev, I-XXII, a cura di T. Eklund-B. Meidal, Bonniers, Stockholm, 19472001, p. 354 del XV vol.
35
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uccidere Antigone; la Fanciulla cioè, «ammalata nella fonte della vita» stessa,
muore sia a causa dei vampiri che spadroneggiano nella sua apparentemente
prospera dimora sia a causa delle incalzanti demistificazioni degli scandalosi
segreti familiari e dell’illusione esistenziale avanzate dallo Studente, che usa
impietosamente il pericoloso strumento della rivelazione in un disperato impulso
di redenzione dell’umanità dalla miseria e dalle menzogne della vita38.
Come nell’Antigone kierkegaardiana, ricorrenti in Ibsen e in Strindberg sono i
personaggi la cui esistenza, proprio nel momento in cui s’affacciano sulla scena,
«è essenzialmente conclusa» («Quando noi morti ci destiamo, ci accorgiamo di
non aver mai vissuto»)39 e appare demonicamente incarcerata in et forborgent,
spesso dal riflesso incestuoso. Come non ricordare la Signorina Julie
strindberghiana o Rebekka di Rosmersholm e Hedda Gabler di Ibsen?
Anzi, è soprattutto Hedda Gabler, che, a nostro avviso, deve più di un
elemento all’Antigone secondo Kierkegaard40. Ibsen ha indicato apertamente,
nelle sue lettere, il «fondamento demonico» [det dæmoniske underlag] che
caratterizza il suo personaggio, che, fin dal titolo del dramma, si presenta «più
come figlia di suo padre che moglie di suo marito»41. Hedda è infatti
morbosamente legata all’imperiosa figura del generale Gabler e, quasi
feticisticamente, al suo ritratto e alle sue pistole; messa incinta dal coniuge, un
modesto accademico con il quale ha un rapporto di disgustata freddezza (e in
questo senso, come l’eroina di Kierkegaard, apparirebbe una frigida virgo mater),
il bambino di Hedda, come la potenzialità affettiva di Antigone, non vedrà mai la
luce, perché la donna si suiciderà con le pistole del padre, soprattutto a causa del
«ridicolo e della bassezza» [det latterlige og det lave] che la imprigionano42,
nell’angusto orizzonte piccolo-borghese e tanto più dopo la volgare disillusione
che ha dovuto subire a causa dei comportamenti indegni e dell’indecorosa rovina
del suo vero segreto amore, il geniale studioso Ejlert Løvborg, ricongiungendosi
al quale la donna aveva sognato di riscattare e proiettare la propria esistenza su un
piano sublime.
La critica ha spesso giudicato il personaggio ibseniano criptico e inspiegabile
nei suoi comportamenti, ma se consideriamo Hedda come un’esponente dei
moderni symparanekrómenoi e, come Antigone, toccata dall’Angst e dall’ombra
dell’incesto, che la precipitano nell’incomunicabilità, molto si chiarisce. Come
pure quel sublivello, nella sua demonia di fondo, tragicomico (che Ibsen conserva
dichiaratamente in tutti i suoi drammi, che – come è noto – trattano «la tragedia e
la commedia dell’essere umano e dell’individuo insieme»)43, per l’appunto
38
ASSV, LVIII, p. 211.
È la proverbiale battuta che risuona nel titolo stesso dell’ultimo e riassuntivo dramma di
Ibsen, Når vi døde vågner (cfr. il vol. XIII di H. IBSEN, Samlede verker (Hundreårsutgave), I-XXI,
a cura di F. Bull, H. Koht e D. A. Seip, Gyldendal, Oslo, 1928-1958, p. 271; edizione d’ora in poi
indicata con la sigla HISV).
40
Mentre è dichiarato l’influsso di Kierkegaard su Strindberg, che, nella sua fase
novecentesca, tenterà addirittura di coincidere con il filosofo, problematicamente presentandosi
come «scrittore religioso», è noto che Ibsen tendeva a negarlo. Questa influenza comunque ci fu,
senz’altro a livello ambientale, sebbene in termini non cogentemente speculativi, e si può
concordare con chi sostiene che lo stesso realismo ibseniano, ovvero il concetto di una «poesia
ancorata alla realtà», passi necessariamente attraverso Kierkegaard e, in particolare, la sua
polemica contro la «realtà ideale» del drammaturgo e filosofo hegeliano Johan Ludvig Heiberg
(cfr. K. NEIIENDAM, Kierkegaard og teatret, in «Den Danske Tilskueren», I, 1990, p. 84-5).
41
Cfr. le lettere del 27 e del 4 dicembre 1890, rispettivamente a M. Prozor e H. Schrøder
(HISV, XVIII, pp. 270; 265).
42
HISV, XI, p. 388.
43
«… menneskehedens og individets tragedie og komedie på engang» (HISV, I, p. 123).
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marcato dal «ridicolo e dalla bassezza», che si giustifica perfettamente proprio
con un’osservazione di Kierkegaard nel saggio antigoneo: «Ogni personalità
isolata diventa sempre comica con il fatto che vuol far valere la sua accidentalità
di fronte alla necessità del processo. E sarebbe senza dubbio della massima
comicità [den dybeste Comik] ammettere che un individuo contingente abbia
l’ideale universale di voler essere il salvatore del mondo intiero» (pp. 23; 142*).
Ibsen non procede strettamente sulle orme di Kierkegaard, ma nel ricostruire
la sua tragedia moderna, in relazione al modello antico, è come se tenesse
presenti, in Hedda Gabler, le principali articolazioni della dissertazione su
Antigone per rimontarle in un dramma personale e inquietante44.
Per concludere, al di là di tutti i motivi per cui Szondi ha visto nei massimi
autori nordici dei protagonisti della crisi del dramma moderno, formalmente,
Strindberg, in termini diretti (fino alla costituzione di una «drammaturgia dell’io»
ovvero d’individualità espressionistiche, meramente proiettive d’una recondita
realtà interiore) e Ibsen, più obliquamente (nell’apparare situazioni di relazione
interumana d’una desolazione e solitudine infinite, nelle quali – a differenza della
tecnica analitica sofoclea – spesso il presente «si limita ad essere un pretesto per
l’evocazione del passato»)45, appaiono vicini a Kierkegaard, ma molto
relativamente almeno su un punto. Questo punto è l’esplosione dell’indicibile, la
rivelazione progressiva del segreto – lo strindberghiano «dosaggio di ciò che è
segreto» – che, nei loro drammi, è tecnicamente cruciale; in Kierkegaard, per
contro, è cruciale l’implosione, tanto che la sua utopia drammaturgica si rivela in
ciò di una radicalità estrema, tale da farsi quasi concepire come profezia di quanto
sarà sviluppato da Samuel Beckett.
44
G.L. Luzzatto ha ritenuto comunque «feconda» la dissertazione di Kierkegaard per larga
parte della drammaturgia ibseniana e, in particolare, «per la genesi di Spettri, in quanto pone il
problema del passaggio dalla colpa tragica (che rimane in Oswald) [sic!] alla colpa soggettiva, che
passa nella nuova vera protagonista consapevole e colpita, sua madre», la donna che ha taciuto e
mantenuto il segreto, propiziando in tal modo l’incesto e portando alla rovina la sua famiglia (G.L.
LUZZATTO, Sofocle e Kierkegaard. L’Antigone moderna, in «Dioniso», 1-2, gennaio-aprile 1957,
p. 101).
45
P. SZONDI, Teoria cit., pp. 31; 21.
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