IL LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO E L`AMBITO

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IL LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO E L`AMBITO
IL LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO E L’AMBITO DELLA TUTELA
RISARCITORIA
Giuseppe Santoro-Passarelli
c.c. art. 2118
L. 28-06-2012, n. 92
L. 28-06-2012, n. 92, art. 1
L. 15-07-1966, n. 604
L. 11-05-1990, n. 108
L. 20-05-1970, n. 300, art. 18
FONTE
Argomenti Dir. Lav., 2013, 2, 231
Sommario: 1. La legge 28 giugno 2012, n. 92 reintroduce la sanzione risarcitoria in caso di
licenziamento ingiustificato. – 2. L’ambito della tutela risarcitoria nell’ipotesi di licenziamento per
giustificato motivo soggettivo. – 3. L’ambito della tutela risarcitoria nell’ipotesi di licenziamento
per giustificato motivo oggettivo. – 4. Rilevanza dell’aggettivo “manifesta” insussistenza del fatto
come possibile criterio selettivo per l’applicazione della sanzione della reintegrazione? – 5.
L’interpretazione sistematica e non letterale della formula normativa “può altresì applicare la
medesima disciplina”. – 6. Il sindacato del giudice sulle scelte imprenditoriali e la rilevanza dell’
art. 1, comma 43, legge 28 giugno 2012, n. 92. – 7. Critica della tesi che svaluta l’obbligo di
repêchage come requisito di identificazione della nozione di giustificato motivo oggettivo. – 8. La
possibile applicazione della disciplina del licenziamento discriminatorio.
1. – È noto che il licenziamento è stato regolato in Italia da una serie di interventi legislativi che
hanno seguito un moto, per così dire pendolare. Dall’art. 2118 Cod. Civ., alla legge n. 604 del 1966
sui licenziamenti individuali, all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, riformato anche dalla legge n.
108 del 1990, alla legge Monti n. 92 del 2012.
E tra i due interessi in conflitto – quello del datore di lavoro alla temporaneità del vincolo
contrattuale, e quello del lavoratore alla continuità e alla stabilità del rapporto di lavoro – l’art. 2118
Cod. Civ., e la legge del 1966 sicuramente privilegiano l’interesse del primo perché la norma del
codice regola il recesso ad nutum con il solo obbligo del preavviso, e la legge n. 604 del 1966, pur
richiedendo la motivazione del licenziamento, considera valido il licenziamento ingiustificato
perché idoneo a estinguere il rapporto di lavoro, ancorché illecito e quindi più costoso.
Viceversa, l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori privilegia sicuramente l’interesse del lavoratore alla
continuità del rapporto di lavoro, perché il licenziamento ingiustificato è considerato invalido e
quindi il rapporto continua, e la sanzione è la reintegrazione.
La legge 28 giugno 2012, n. 92 continua a stabilire che il licenziamento privo di giusta causa e di
giustificato motivo è illegittimo, ma a fronte di questa illegittimità non prevede un’unica sanzione e
cioè la reintegrazione, ma la reintegrazione in determinate ipotesi e in altre ipotesi la sanzione
risarcitoria(1).
La difficoltà rilevante sta nello stabilire quando deve essere irrogata la reintegrazione e quando deve
essere irrogata la sanzione del risarcimento, perché la lettera della legge non brilla per chiarezza. Ed
anche nella più grave ipotesi di illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo per
motivi economici – e cioè nell’ipotesi in cui sia manifesta l’insussistenza del fatto posto a base del
licenziamento – il legislatore addirittura prevede che il giudice “può” scegliere discrezionalmente, e
quindi, secondo la lettera della norma, il giudice non ha l’obbligo di applicare la sanzione della
reintegrazione (v. infra, § 5).
Come si può constatare, quindi, la legge Monti inverte il moto del pendolo perché l’obbiettivo
dichiarato di questo legislatore è quello di irrigidire la cd flessibilità in entrata e cioè le varie
tipologie contrattuali di assunzione del personale, e flessibilizzare la disciplina del licenziamento, e
quindi di considerare il risarcimento la sanzione ordinaria e la reintegrazione la sanzione
eccezionale rispetto al licenziamento ingiustificato.
In realtà questo obbiettivo non è stato raggiunto perché la sanzione della reintegrazione si applica
non soltanto al licenziamento discriminatorio, ma anche nella maggior parte dei casi, al
licenziamento per giustificato motivo soggettivo e, sia pure in misura minore, al licenziamento per
giustificato motivo oggettivo.
2. – Per comprendere quale possa essere lo spazio della tutela risarcitoria quando il licenziamento
sia privo di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo appare opportuno chiarire
preliminarmente quali sono gli estremi del giustificato motivo soggettivo: e per questo si deve
richiamare la nozione indicata dall’art. 3 della legge n. 604 del 1966 che definisce il giustificato
motivo soggettivo come notevole inadempimento degli obblighi contrattuali.
Se dunque il notevole inadempimento integra gli estremi del giustificato motivo soggettivo, si tratta
di coordinare tale definizione con quella usata dal nuovo legislatore che ha preferito adottare una
terminologia di impronta penalistica: l’art. 18 comma 4 infatti richiama “ipotesi in cui non ricorrono
gli estremi del giustificato motivo per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto
rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei
contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”(2).
Se però si conviene che questa definizione deve essere interpretata alla luce dell’art. 3 della legge n.
604 sembra verosimile ritenere che il giustificato motivo per insussistenza del fatto debba essere
accertato utilizzando i criteri, che secondo il diritto comune, presiedono all’accertamento
dell’inadempimento del lavoratore(3). A mio avviso, pertanto, “giustificato motivo per insussistenza
del fatto contestato” significa che l’inadempimento del lavoratore non sussiste e cioè che il
lavoratore non ha commesso alcun inadempimento o ha commesso un inadempimento punito dai
contratti collettivi con una sanzione conservativa e pertanto, essendo stato illegittimamente
licenziato ha diritto di essere reintegrato.
L’art. 18 comma 4 infatti stabilisce che il giudice nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli
estremi del giustificato motivo soggettivo per insussistenza del fatto contestato, ossia di inesistenza
di un inadempimento, o di inadempimenti punibili con sanzione conservativa prevista dai contratti
collettivi ecc., annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione e al
pagamento di un’indennità risarcitoria non superiore a dodici mensilità(4).
E, d’altra parte, se si ha riguardo al comma 5 dell’art. 18, e cioè alle “altre ipotesi in cui non
ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo” ma il fatto sussisteperché comunque il
lavoratore ha commesso un inadempimento, “ ... il giudice dichiara risolto il rapporto con effetto
dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria
determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione
globale di fatto ”.
Ne consegue che l’ambito di applicazione della sanzione risarcitoria è determinato da un lato dalla
circostanza che il fatto sussista, ossia che l’inadempimento del lavoratore sussista e sia provato e
dall’altro lato, che si tratti di un inadempimento non notevole o che la condotta del lavoratore non
sia prevista dai contratti collettivi tra quelle punibili con una sanzione conservativa. Viceversa se il
licenziamento è conseguente ad inadempimenti punibili con sanzioni conservative, scatta la
reintegrazione. Questa circostanza aiuta a comprendere che per effetto delle nuove disposizioni (art.
18, commi 4 e 5) l’ambito di applicazione della tutela reintegratoria è più esteso di quello coperto
dalla tutela risarcitoria. Infatti, la reintegrazione si applica non solo ai licenziamenti conseguenti ad
inadempimenti inesistenti ma anche a quelli conseguenti ad inadempimenti lievi puniti dai contratti
collettivi con sanzioni conservative.
E, d’altra parte, le ipotesi in cui si applica la sanzione esclusivamente risarcitoria possono apparire
“odiose”, perché il licenziamento finisce per avere un effetto espulsivo rispetto ad inadempimenti
lievi, o non coperti da sanzioni conservative dei contratti collettivi rispetto ai quali, come si è detto
scatta invece la sanzione della reintegrazione, a meno che si accolga la tesi che consente al giudice
di applicare il criterio di proporzionalità di cui all’art. 2106 Cod. Civ.(5) e quindi esclude in ogni
caso la sanzione del risarcimento tra 12 e 24 mensilità.
3. – Se è vero che la legge n. 92 del 2012, in tema di licenziamento per giustificato motivo, non ha
introdotto nuove fattispecie rispetto a quelle delineate dall’art. 3 della legge n. 604 del 1966, essa
ha tuttavia introdotto nuovi dati normativi per giustificare l’applicazione della sanzione della
reintegrazione.
Già si è detto dei presupposti indicati dalla nuova normativa per irrogare la reintegrazione nel caso
di licenziamento privo di giusta causa e di giustificato motivo soggettivo.
Ora si devono esaminare i presupposti indicati dalla nuova disciplina per applicare la sanzione della
reintegrazione nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e per determinare, di
conseguenza, l’ambito della tutela risarcitoria anche rispetto a questo licenziamento.
È però opportuno, prima di procedere all’interpretazione di questi nuovi dati normativi, richiamare
la definizione del giustificato motivo oggettivo contenuta nell’art. 3 della legge n. 604 del 1966,
secondo cui questo è costituito da “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione
del lavoro e al regolare funzionamento di essa”.
Da questa definizione la giurisprudenza consolidata ha individuato tre requisiti di identificazione o,
per usare il linguaggio della recente normativa, gli estremi del giustificato motivo oggettivo e cioè:
1) le ragioni che hanno determinato la soppressione del posto. Ciò significa che bisogna avere
riguardo non alla soppressione del posto sic et simpliciter ma alle ragioni che hanno determinato la
soppressione del posto. E il controllo delle ragioni non implica un sindacato di merito del giudice
delle scelte del datore di lavoro, ma soltanto una verifica delle effettiva sussistenza e della veridicità
delle suddette ragioni che hanno determinato la soppressione del posto. E a questo proposito non è
vero, come pure si è affermato, che la soppressione del posto e il licenziamento rappresentano lo
stesso fenomeno visto rispettivamente dal punto di vista dell’organizzazione aziendale e del
rapporto contrattuale con il lavoratore(6). Infatti a tacer d’altro, il licenziamento interviene solo a
seguito dell’impossibilità di repechage.
D’altra parte, se oggetto di accertamento da parte del giudice fosse solo il fatto materiale della
soppressione del posto, l’intervento giudiziale si risolverebbe in una semplice ratifica della
decisione datoriale. In realtà così non è perché il giudice deve accertare anche:
2) il nesso di causalità tra le suddette ragioni che hanno determinato la soppressione del posto e il
licenziamento del lavoratore addetto a quel posto soppresso e infine:
3) la prova, a carico del datore di lavoro, dell’inevitabilità del licenziamento, ossia di non potere
adibire il lavoratore non solo a mansioni equivalenti, ma neppure a mansioni inferiori(7) anche in
altre sedi dell’azienda(8). Si noti che l’obbligo di repechage è un requisito di derivazione
esclusivamente giurisprudenziale ma, come si suol dire, costituisce diritto vivente.
A questo proposito deve essere ricordato un orientamento giurisprudenziale recente, secondo cui il
datore di lavoro non è tenuto a fornire la prova dell’impossibilità di ricollocazione del lavoratore
che impugni il licenziamento se quest’ultimo non alleghi l’esistenza di altri posti di lavoro nei quali
egli può essere utilmente reimpiegato(9).
Ma non si può negare che, accogliendo questa interpretazione, l’obbligo di repêchage risulta così
“attenuato grazie ad una diversa distribuzione degli oneri probatori”(10).
Secondo questa giurisprudenza, infatti, se il lavoratore non introduce in giudizio la questione del
repêchage, il giudice non sarebbe tenuto ad esaminarla ai fini della sussistenza del giustificato
motivo oggettivo.
In ogni caso, anche se si prescinde dall’esistenza di questa giurisprudenza, il giudice deve accertare
in primo luogo la manifesta insussistenza del fatto (e cioè la inesistenza e non veridicità) delle
ragioni che hanno determinato la soppressione del posto e la insussistenza (e cioè l’inesistenza e la
non veridicità) del nesso di causalità tra le ragioni addotte dal datore di lavoro e il licenziamento del
lavoratore addetto al posto di lavoro soppresso.
E il datore di lavoro ha l’onere della prova.
Se invece il datore di lavoro dimostra l’esistenza del fatto e cioè la veridicità delle ragioni e del
nesso di causalità, il giudice potrà escludere la sanzione reintegratoria ma dovrà accertare, prima di
dichiarare la legittimità del licenziamento, se il datore di lavoro ha provato l’impossibilità di
collocare altrove il lavoratore nell’ambito della sua azienda.
E a questo proposito bisogna escludere che la mancata prova fornita dal datore di lavoro
dell’inutilizzabilità del lavoratore licenziato, anche alla luce dell’ultima giurisprudenza che
distribuisce diversamente gli oneri probatori tra datore di lavoro e lavoratore, possa avere tratto
all’insussistenza del fatto e quindi giustificare la sanzione della reintegrazione.
In altri termini la mancata prova dell’impossibilità di ricollocare utilmente il lavoratore (cd.
repêchage), gravante sul datore di lavoro, determina l’illegittimità del licenziamento e quindi fa
venir meno uno degli estremi del giustificato motivo oggettivo ma esula dal fatto posto a base del
licenziamento con la conseguenza che a questo licenziamento illegittimo si applica il regime
risarcitorio di cui all’art. 18 comma 7 st. lav., terzo periodo, come novellato dalla legge n. 92
del 2012(11).
In conclusione, ad un primo accertamento da parte del giudice, che ha come oggetto l’accertamento
dell’insussistenza delle ragioni che hanno determinato la soppressione del posto e della
insussistenza del nesso di causalità tra le ragioni e il licenziamento con onere della prova a carico
del datore di lavoro e che produce come sanzione la reintegrazione, segue, quando invece il fatto
posto a base del licenziamento sia sussistente, un ulteriore accertamento che ha come oggetto
l’adempimento dell’obbligo di repêchage. E nel caso in cui il datore di lavoro non dia la prova di
avere adempiuto a questo obbligo, anche nei limiti dell’ultima giurisprudenza richiamata, il
licenziamento è illegittimo, e il giudice dichiara risolto il rapporto con effetto dalla data del
licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria
omnicomprensiva tra un minimo di dodici ed un massimo di ventiquattro mensilità, tenuto conto dei
criteri di cui all’art. 8, legge n. 604 del 1966, nonché “ delle iniziative assunte dal lavoratore per la
ricerca di una nuova occupazione e del comportamento delle parti nell’ambito della procedura di
conciliazione obbligatoria di cui all’art. 7 della legge n. 604 del 1966 ” (art. 18, comma 7, St. lav.).
4. – Si tratta a questo punto di stabilire quale rilevanza possa avere nell’economia del dettato
normativo l’aggettivo “manifesta” insussistenza.
Secondo un’opinione il “manifesta” non aggiunge nulla al sostantivo insussistenza perché rispetto a
ciò che non esiste non ha senso alcuno distinguere tra inesistenza e manifesta inesistenza e di
conseguenza, tale aggettivo non può essere considerato un criterio selettivo per applicare la
sanzione della reintegrazione quando il fatto sia manifestamente insussistente ed escluderla quando
la insussistenza del fatto non sia manifesta.
Secondo un’altra opinione invece l’aggettivo manifesta riferito all’insussistenza delle ragioni può
esprimere un elevato grado di evidenza della prova sulla mancanza del giustificato motivo
oggettivo. Si vuole dire in altri termini che il datore di lavoro può addurre ragioni talmente fasulle o
non veritiere che non richiedono alcuna indagine o approfondimento.
E così la cessazione dell’appalto, la chiusura di un reparto, l’introduzione di una macchina che
elimina un posto di lavoro sono fatti la cui sussistenza e di conseguenza insussistenza è agevole
accertare da parte del giudice.
Ma altri fatti, come per esempio la necessità di ridurre i costi per evitare il fallimento, o una diversa
organizzazione del lavoro, o una riduzione temporanea del fatturato richiedono indagini e
approfondimenti talvolta laboriosi, di talché possono essere considerati alla fine di un processo di
valutazione insussistenti ma non manifestamente insussistenti.
E allora la domanda che sorge spontanea è la seguente: nel caso di insussistenza non manifesta la
sanzione rimane la reintegrazione o invece è il risarcimento?
E a questo interrogativo si può rispondere, secondo alcuni interpreti, considerando l’aggettivo
manifesta la scriminante per applicare la sanzione della reintegrazione(12), nel senso che se la
insussistenza del fatto è manifesta, la sanzione è la reintegrazione: se la insussistenza non è
manifesta la sanzione dovrebbe essere risarcitoria. A me sembra preferibile questa tesi anche se
riconosce che non è sempre agevole distinguere in concreto tra insussistenza manifesta e non
manifesta.
5. – Bisogna comunque rilevare che il discorso sulla rilevanza dell’aggettivo manifesta ai fini
dell’applicazione della sanzione della reintegrazione può essere drasticamente ridimensionato se si
ha presente che il comma 7 dell’art. 18 usa improvvidamente la formula normativa “ può altresì
applicare la medesima disciplina nell’ipotesi in cui accerta la manifesta insussistenza del fatto ”.
Come dire che la sanzione potrebbe essere risarcitoria anche in caso di manifesta insussistenza del
fatto, perché il giudice può e di conseguenza non è obbligato, anche in questa ipotesi, ad applicare
la reintegrazione(13).
E tuttavia, a dispetto dell’interpretazione letterale di questo ultimo dato normativo ed in ossequio ad
un’interpretazione sistematica che riduce il già ampio grado di discrezionalità riconosciuto al
giudice, dannoso per la certezza del diritto, ritengo che lo stesso giudice, quando accerti
l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento, debbaapplicare la sanzione della
reintegrazione(14).
6. – D’altra parte bisogna essere consapevoli che la valorizzazione dell’aggettivo “manifesta”
accentua l’intensità del sindacato giudiziale sulle scelte imprenditoriali(15) e rafforza
quell’orientamento giurisprudenziale che dal 1970, pur escludendo un sindacato di merito del
giudice, tuttavia continua ad effettuare, sia pure indirettamente, un controllo delle scelte del datore
di lavoro quando verifica la congruità o l’effettiva economicità, l’adeguatezza o la necessità delle
scelte organizzative del datore di lavoro(16).
Si tratta a questo punto di vedere quale impatto potrebbero avere sull’interpretazione della nozione
di giustificato motivo oggettivo e sul suo controllo da parte del giudice, disposizioni come l’art. 30,
comma 1, legge 4 novembre 2010, n. 183 (c.d. “collegato lavoro”). Come è noto questa disposizione
esclude che il controllo giudiziale possa essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni
tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro.
È vero che questa disposizione, in sé e per sé considerata, non aggiunge nulla di nuovo e può
apparire pleonastica, ma potrebbe acquisire un rilievo diverso se collegata all’art. 1, comma 43,
legge n. 92 del 2012. Questa disposizione ribadisce che un eventuale sconfinamento da parte del
giudice oltre i limiti del controllo giudiziale costituisce una violazione di norme di diritto,
legittimante ricorso per Cassazione.
Se quindi si dovesse ritenere che, per effetto della disposizione da ultimo citata, la valutazione della
prova del licenziamento come extrema ratio implica uno sconfinamento dei poteri del giudice dai
limiti posti dalla legge al controllo giudiziale perché effettua pur sempre un controllo delle scelte
dell’imprenditore e perciò costituisce motivo di ricorso in Cassazione, ne dovrebbe conseguire che
l’obbligo di repêchage non potrebbe essere più considerato un dato di integrazione della fattispecie
del giustificato motivo oggettivo di licenziamento.
E questa conclusione potrebbe risultare rafforzata da quell’orientamento giurisprudenziale prima
richiamato (supra, § 3), secondo cui il datore di lavoro non è tenuto a fornire la prova
dell’impossibilità di ricollocazione del lavoratore che impugni il licenziamento se quest’ultimo non
alleghi l’esistenza di altri posti di lavoro nei quali egli poteva essere utilmente reimpiegato.
In quest’ottica il licenziamento di un lavoratore, ove risultino accertati sia il fatto (cessazione
dell’appalto) sia il nesso di causalità (e cioè che il lavoratore era impiegato in quell’appalto) e non
risulta che il lavoratore abbia indicato altri posti di lavoro dove poteva essere collocato, dovrebbe
ritenersi legittimo.
7. – Francamente una soluzione del genere appare assai poco persuasiva e perciò non condivisibile,
in primo luogo perché l’onere di dimostrare l’impossibilità di una diversa collocazione del
lavoratore nell’ambito aziendale non implica necessariamente un sindacato del giudice sulle scelte
del datore di lavoro atteso che il suddetto onere non si traduce in un obbligo di modificare la
struttura organizzativa(17). In secondo luogo perché, a tutto concedere, non credo che le disposizioni
appena richiamate siano da sole sufficienti, nell’attuale contesto socio-economico e culturale, a
determinare una svolta nell’interpretazione fin qui prevalente del controllo da parte del giudice delle
scelte del datore di lavoro.
In terzo luogo perché la stessa nozione di giustificato motivo oggettivo riferita, come recita l’art. 3
della legge n. 604, alle “ ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al
regolare funzionamento di essa ”, implica inevitabilmente un obbligo di motivazione da parte del
datore di lavoro delle sue scelte e, conseguentemente, un controllo sulle medesime da parte del
giudice. È vero che, in omaggio all’art. 41 Cost., il sindacato del giudice dovrebbe fermarsi al
controllo del nesso di causalità ma, come si è detto, il sindacato giudiziale spesso supera e trascende
il nesso di causalità e si estende al merito delle scelte del datore di lavoro come per esempio quelle
sentenze che non considerano giustificato il licenziamento irrogato per ragioni speculative.
8. – Infine un’ultima osservazione sull’applicazione della disciplina del licenziamento
discriminatorio prevista dall’art. 18 comma 7.
Nell’ipotesi in cui il lavoratore agisca in giudizio, ai sensi dell’art. 18 comma 1 St. lav., chiedendo
di essere reintegrato in virtù del fatto che il recesso deve ritenersi nullo per la sussistenza di un
motivo illecito determinante (ritorsione della società per il rifiuto del lavoratore di sottoscrivere una
lettera di dimissioni) si deve chiarire, per evitare che la disciplina del licenziamento per giustificato
motivo oggettivo sia sempre ed in ogni caso assorbita da quella per licenziamento discriminatorio,
che è vero che il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta, rientra nell’ampia fattispecie del
licenziamento discriminatorio, ma è altrettanto vero che tale licenziamento può considerarsi nullo “
soltanto quando il motivo discriminatorio o ritorsivo, come tale illecito, sia stato l’unico
determinante dello stesso ai sensi del combinato disposto degli artt.1418 comma 2, 1345 e 1324
c.c.”.
Ed è altresì indubbio che l’onere della prova della esistenza di un motivo discriminatorio o di
ritorsione del licenziamento e del suo carattere determinante la volontà negoziale ricade sul
lavoratore.
Si può quindi concludere che in assenza di entrambi questi dati, si deve escludere l’applicazione
della disciplina prevista per il licenziamento discriminatorio.
----------------------(1)
Per un primo commento v. P. Ichino, La riforma dei licenziamenti e i diritti fondamentali dei
lavoratori, intervento, in Il dibattito sulla riforma del mercato del lavoro, in csdlee.unict. 7 maggio
2012, 12-17; A. Maresca, Il nuovo regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo: le modifiche
dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, in Riv. It. Dir. Lav., 2012, I, pag. 415 e segg.; F. Carinci, M.
Miscione (a cura di), Commentario alla riforma Fornero, in Arg. Dir. Lav., 2012, I, pag. 803 e
segg.; M. Magnani, M. Tiraboschi (a cura di) La nuova riforma del lavoro, Milano, 2012.
(2)
Sulla nozione di fatto v. M. Persiani, Il fatto rilevante per la reintegrazione del lavoratore
illegittimamente licenziato, in Arg. Dir. Lav., 2013, I, pag. 1 e segg.
(3)
V. in argomento le persuasive osservazioni di F. Carinci, Il nodo gordiano del licenziamento
disciplinare, in Arg. Dir. Lav., 2012, pagg. 1118, 1122; v. pure M.T. Carinci, Il licenziamento non
sorretto da giusta causa o da giustificato motivo soggettivo: i presupposti applicativi delle tutele
previste dall’art. 18 st. lav., alla luce dei vincoli imposti dal sistema, in Riv. It. Dir. Lav., 2012, II,
pag. 1058 e segg. e di recente E. Ghera, Diritto del lavoro (appendice a febbraio 2013), 2013, pag.
477, che sottolinea come “ la condotta del lavoratore deve essere valutata non solo sul piano della
materialità del fatto (azione od omissione) ma anche sul piano della sua idoneità a ledere in
concreto l’interesse del datore alla prestazione diligente e fedele (artt. 2104-2105 Cod. Civ.) ”. In
senso fortemente critico M. Persiani, Il fatto ecc., op. cit., pag. 8.
(4)
In giurisprudenza v. l’ord. Trib. Bologna 15 ottobre 2012, in Arg. Dir. Lav., 2012, II, pag. 907 e
segg.: secondo il giudice “ l’espressione “insussistenza del fatto contestato” fa riferimento al fatto
giuridico “inteso come il fatto globalmente accertato, nell’unicum della sua componente oggettiva e
nella sua componente inerente l’elemento soggettivo” ” e in senso adesivo F. Carinci, Il legislatore
e il giudice: l’imprevidente innovatore ed il prudente conservatore, ivi, I, pag. 773 in commento
alla citata sentenza.
Nel caso di specie, utilizzando la categoria dell’inadempimento, esso sussiste perché è stato
riconosciuto dall’interessato e però è stato considerato dal giudice di modestissimo peso
disciplinare. Il suddetto inadempimento rientrando nella fattispecie della cd. lieve insubordinazione
nei confronti dei superiori prevista dal contratto collettivo dei metalmeccanici del 2008 applicabile
al rapporto di lavoro in questione, non consente di considerare legittimo il licenziamento in
questione e conseguentemente di sanzionarlo con la reintegrazione.
(5)
Già in riferimento alla proposta di legge iniziale vedi F. Carinci, Complimenti, dottor
Frankenstein: Il disegno di legge governativo in materia di riforma del mercato del lavoro, in Lav.
Giur., 2012, pag. 529 e segg.; cfr. poi la ricostruzione, alla luce della nuova normativa, operata da
V. Speziale, La riforma del licenziamento individuale tra diritto ed economia, in Riv. It. Dir. Lav.,
2012, 3, pag. 556 e segg.
(6)
C. Ponterio, Il licenziamento per motivo economico, in Arg. Dir. Lav., 2013, pag. 78.
(7)
Cass. 18 marzo 2009, n. 6552, in Riv. Crit. Dir. Lav., 2009, pag. 507.
(8)
Addirittura anche all’estero secondo Cass. 15 luglio 2010, n. 16579, in Riv. Giur. Lav., 2011, I,
pag. 182.
(9)
Cfr. Cass. 8 febbraio 2011, n. 3040, in Rep. Foro It., Voce Lavoro (Rapporto), 2011, n. 1245; più
di recente Cass. 15 maggio 2012, n. 7512.
(10)
Così M. Magnani, Genesi e portata di una riforma del lavoro, in La nuova riforma del lavoro –
Commentario alla legge 28 giugno 2012, n. 92, a cura di M. Magnani - M. Tiraboschi, Milano,
2012, pag. 11.
(11)
V. in questo senso Trib. Milano ord. 28 nov. 2012, in Boll Adapt, 2013, n. 1 e in Dir. Rel. Ind.,
2013.
(12)
A. Vallebona, La riforma ecc., op. cit., pag. 59; C. Cester, Il progetto di riforma della disciplina
dei licenziamenti: prime riflessioni, in Arg. Dir. Lav., 2012, pagg. 576-577.
(13)
A. Vallebona, La riforma ecc., op. cit., pag. 58 e segg.; C. Pisani, L’ingiustificatezza qualificata
del licenziamento: convincimento del giudice e onere della prova, in Mass. Giur. Lav., 2012, 10,
pag. 745 e segg.; M. Marazza, L’art. 18, nuovo testo dello Statuto dei lavoraotori, in Arg. Dir. Lav.,
2012, pag. 625.
(14)
Cfr. in questo senso già A. Maresca, Il nuovo regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo,
op. cit, pagg. 442-443.
(15)
Sempre in riferimento alla proposta di legge iniziale vedi F. Carinci, Complimenti, dottor
Frankenstein, op. cit., pag. 529 e segg.; S. Magrini, Quel pasticciaccio brutto (dell’art. 18), in Arg.
Dir. Lav., 2012, pagg. 537-538.
(16)
G. Santoro-Passarelli, Diritto dei lavori, Torino, 2013, pag. 368 e segg. Sui limiti del sindacato
giudiziale, da ultimo, Cass. 21 maggio 2012, n. 7989.
(17)
Cass. 23 aprile 2010, n. 9700, in Arg. Dir. Lav., 2011, pag. 146 con nota di Corso.