Art.18 e lavoro pubblico - Articolo di Carmine Russo

Transcript

Art.18 e lavoro pubblico - Articolo di Carmine Russo
Art.18 e lavoro pubblico - Articolo di Carmine Russo
La polemica sull’eventuale applicazione delle modifiche all’art. 18 St. al lavoro pubblico vive della
stessa poca serenità di giudizio che in alcuni momenti ha caratterizzato la discussione generale.
E’ chiaro che il primo parametro di valutazione debba essere l’unificazione delle regole che ormai
dal 1993 è quello che guida l’armonizzazione tra i due mondi del lavoro; ed è altrettanto evidente
che bisogna liberare il campo da ogni preconcetta intenzione di salvaguardare una norma solo
perché più favorevole per il settore. Si auspica che almeno per la durata di queste pagine si creda
nell’assoluta volontà di impostare un confronto che sia solo di merito e non di parte. Da parte di
tutti.
Si può cominciare col dire che le modifiche all’art. 18 non comporterebbero un ampliamento delle
ipotesi di licenziamento ma un restringimento dei casi in cui a fronte di un licenziamento non
giustificato il lavoratore possa godere della reintegrazione: a seconda dei casi, nella proposta del
governo il lavoratore verrebbe indennizzato per effetto della sentenza (giustificato motivo
oggettivo, licenziamento economico o organizzativo) oppure a discrezione del giudice indennizzato
o reintegrato (licenziamento disciplinare).
Presupposto anche se non condivisibile del modello è quindi quello che il datore di lavoro come è
libero di assumere chi vuole, deve essere anche abbastanza libero di licenziare chi vuole
sottoponendosi solo ad una procedura di accertamento che in caso negativo non necessariamente lo
vincola. Corollario di questo presupposto è che il datore di lavoro abbia piena consapevolezza e
responsabilità della sua condotta in termini di valutazione dei rischi e dei vantaggi che la sua
decisione può comportare.
La situazione nel pubblico impiego è molto diversa. Soprattutto per vincoli costituzionali, ma anche
per scelta di opportunità del legislatore (come vedremo, anche legittimata dalla Corte costituzionale
e dalla Corte di giustizia europea), il perimetro dei poteri datoriali è più ristretto, nel senso che una
quota di esercizio è svolta direttamente dalla legge o da questa vietata. Vediamo i casi più rilevanti:
- Il dirigente pubblico non può liberamente assumere: ogni pubblica amministrazione deve ricorrere
ad una procedura concorsuale (vincolo costituzionale) nella scelta delle persone: procedura che
pone un problema più delicato che nel privato nell’assunzione di responsabilità di privarsi del
lavoratore considerato vincitore. Questo non significa che il lavoratore pubblico non possa essere
licenziato, ma risponde ad una logica anche di ragionevolezza finanziaria che se non dimostrata la
causa del licenziamento, questo venga reintegrato non fosse altro che per non dover ricorrere ad un
nuovo concorso per sostituirlo o a una complessa procedura di mobilità;
- Il dirigente pubblico non può liberamente adibire il lavoratore a mansioni superiori e se lo fa fuori
dai limiti previsti dalla legge, al lavoratore non spetta mai la qualifica superiore; tanto che per la
stessa mobilità verticale è necessario un concorso sulla cui legittimità (come nel caso
dell’assunzione) si esprime peraltro il giudice amministrativo. E inoltre è inibito al dirigente di
adibire il lavoratore a mansioni superiori tranne che nei casi fissati dalla legge. Questo significa che
il dirigente pubblico non ha la piena gestione del rapporto di lavoro, così come non ha la titolarità
per costituirlo.
Nei due casi appena visti, ragioni di opportunità, trasparenza e imparzialità hanno consigliato di
stabilizzare un modello a responsabilità affievolita non necessariamente per sfiducia nei confronti
dei dirigenti (ma chi può dire quanto siano simili o dissimili i dirigenti dei due settori?) quanto per
evitare che valutazioni che non sono state né nella fase di assunzione né in quella della gestione del
rapporto di lavoro del tutto in capo al dirigente si ricompongano poi proprio e solo nella fase del
licenziamento.
Nei casi appena visti il dirigente è suscettibile di sanzione amministrativa senza che il lavoratore
abbia vantaggio per una decisione i cui effetti sull’uno e sull’altro non sono affatto comparabili.
Corte costituzionale e Corte di giustizia europea hanno più volte ritenuto conforme sia
all’ordinamento nazionale che comunitario questa soluzione legislativa.
E qui veniamo all’ipotesi di licenziamento economico. In questo caso comunque non si
applicherebbe il nuovo art. 18 perché il d.lgs. 165/2001 contiene una norma specifica (art. 33) che
ne esclude l’applicazione (art, 2, comma 2) e che anzi andrebbe rivisitata perché contrariamente al
modello europeo non prevede forme di informazione e consultazione nemmeno per il licenziamento
collettivo.
Possiamo concludere dicendo che ciò che impedisce l’estensione delle modifiche che dovrebbero
essere apportate all’art. 18 St. anche al settore pubblico sono gli stessi motivi di ragionevolezza che
derivano dal fatto che le parti del rapporto di lavoro pubblico non si pongono in una posizione
reciproca analoga a quella del settore privato in termini di consapevolezza e di rischio, né lo sono di
fronte alla legge.
Il datore privato organizza la propria impresa e può chiedere più libertà organizzativa e anche di
mancata reintegrazione se non dimostra il motivo del licenziamento: è in questo caso un problema
di cultura giuridica e sociale decidere se e fino a che punto contemperare gli interessi economici con
quelli del lavoro.
Il dirigente pubblico gestisce un’organizzazione non sua con un rischio non suo. Ha una sua logica
quindi un equilibrio si situazione per cui, come sia limitato il suo potere organizzativo in fase di
assunzione e gestione lo sia anche in quella di licenziamento e che la mancanza giustificazione del
motivo determini attraverso la reintegrazione l’azzeramento della decisione presa.
Prof. Carmine Russo - 20 marzo 2012