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MEDIORIENTE
tello della madre, dove il cuoco gridava: «Cosa vuoi per
colazione?». Al che io urlavo: «Pollo e patatine!». Non
c’era altro. E, senza indugio, ecco che la povera, vecchia
porzione di pollo stopposo con contorno di patate fritte
bisunte faceva la sua comparsa sul banco di formica altrettanto malconcio.
Il celebre corrispondente dal Medio Oriente dell’Independent ripercorre gli alti e bassi culina-
Il treno stesso sembrava correre su quelle vivande. Nei
tratti in discesa i vagoni sferragliavano felici sulle rotaie: chicken-and-chips, chicken-and-chips, chicken-andchips, come il folle Postale della Notte nel filmato-poesia di Auden che si ferma a Beattock (“una salita ripida,
la pendenza da affrontare, ma arriva puntuale”).
Tè da Bin Laden
e altri racconti
.
Dai banchetti con i reali di Giordania ai pasti consumati tra i
fischi dei proiettili in Afghanistan.
.
“Una volta a Teheran” scrive Fisk “la mancanza di pollo
e patatine era così insopportabile da spingermi a cercare i locali più desolati per sfuggire alle
A FRONTE Un venditore di strada ad Amman, in Giordania.
meraviglie del kebab bahrg e delle Persian salad, il primo un miscuglio di agnello, zafferano,
pomodori, olive, burro e pepe nero, le secon-
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Date le porcherie che in-
geriamo noi reporter, a volte penso che meri-
.
di Robert Fisk
Corbis / S. Baldwin
tiamo una vita più breve”.
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uando nel 1979 le Guardie rivoluzionarie iraniane chiusero le strade ai giornalisti dopo il ritorno
dell’ayatollah Khomeini dall’esilio, presi la decisione di muovermi per il Paese in treno. La polizia segreta e i militari non pensano mai ai treni. Quello che a loro piace sono i blocchi stradali, e il giornalista che vuole eluderli deve ricordare il vecchio motto di Michael
Collins, ovvero che nessuno vede mai un uomo in bicicletta. Quindi nessuno vede mai un giornalista in treno.
È così che le ferrovie statali iraniane – e le carrozze ristorante dei loro treni – sono diventate la mia casa per settimane.
Paul Julius Freiherr von Reuter – sì, il fondatore dell’agenzia stampa – ha costruito metà delle ferrovie dell’Iran, così dopo alcuni giorni c’era rimasto ben poco che
non sapessi sui grandi treni che mi trasportavano a Qom
e Ahwaz, sul Tabriz Express e sul treno locale con destinazione il tempio di Mashhad. Quanti carrelli rotanti,
quanti cavalli vapore delle locomotive diesel, la pendenza massima percorribile sotto la torreggiante scarpata di
Zard Kho – la “Montagna Gialla” – sulla strada per Teheran. E i pasti.
Per colazione venivano serviti pollo e patatine, con Pepsi calda e tè. Per pranzo pollo e patatine, con Pepsi calda
e tè. Per cena pollo e patatine, con Pepsi calda e tè. C’erano però delle varianti. Si poteva avere il pollo al sangue,
le patatine bruciacchiate. Ogni mattina entravo nel vagone ristorante, con i suoi soldati sudici e le sue famiglie
infreddolite i cui bambini si rannicchiavano sotto il man-
Q
L
de grossi pezzi di cetrioli, cipolle, pomodori e
cuore di lattuga.
QUI SOTTO Un tavolo di antipasti in un ristorante di Beirut.
Corbis / R. Wood
ri di una straordinaria carriera.
Dopo un po’ cominciai ad apprezzare il mio pollo con le
patatine. Come un prigioniero che attende impaziente
l’ora d’aria, per me il pasto rappresentava una parentesi
di libertà dal mio fetido scompartimento a cuccette – secchi di letame venivano tenuti sotto i finestrini – e in tal
modo l’odore delle patatine fritte che si diffondeva per i
corridoi diventava un simbolo di vita. Una volta a Teheran la mancanza di pollo e patatine era così insopportabile da spingermi a cercare i locali più desolati per sfuggire alle meraviglie del kebab bahrg e delle Persian salad, il primo un miscuglio di agnello, zafferano, pomodori, olive, burro e pepe nero, le seconde grossi pezzi di
cetrioli, cipolle, pomodori e cuore di lattuga. Date le porcherie che ingeriamo noi reporter, a volte penso che meritiamo una vita più breve.
L’unica bevanda iraniana e libanese a cui non potrei mai
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n Medio Oriente mangiare è uno strano passatempo. Ho divorato shawarma di carne comprati nei
chioschi lungo le strade nella città siriana di Hama e cenato con re Hussein di Giordania. Ho sperimentato ogni immaginabile forma di colica al Cairo e ad Assiut e in tutte le città del Sud durante i disordini anti Sadat, e mi sono seduto alla tavola impeccabile di Rafik Hariri quando era primo ministro del Libano. Andreas Whittam Smith, fondatore e poi direttore dell’Independent,
era lì con me nel 1993, a guardare con occhio sospettoso
un enorme ortaggio con grosse foglie puntute che troneggiava sulla tavola del primo ministro. «Si serva!», gli ordinò Hariri. «Beh, a dire il vero – i lettori che conoscono
la modestia dei modi del nostro fondatore capiranno immediatamente che la citazione è fedele – mi fa piuttosto
paura». «Lo dia a me», ordinò Hariri e, facendo roteare il
coltello, ridusse la cosa in pochi, miserabili spicchi.
Re Hussein sedeva al centro della tavola illuminata dalla luce delle candele – c’erano candele anche sulle librerie – stracarica di mezze e fiori. Il mezze era di tipo tradizionale: hummus (ceci cotti, aglio, pasta tahini, succo
di limone e pepe nero), falafel (fagioli bianchi, aglio,
prezzemolo, cipolle, coriandolo e, naturalmente, pepe
nero), burak (feta grattugiata e mozzarella, uova, prezze-
I
Corbis / E. & N. Kowall
Corbis / R. Wood
Afp / Getty Images / J. Eid
rinunciare è il dukh, o quello che i libanesi chiamano laban sharab, letteralmente “yogurt da bere”. Mescolato ad
abbondante sale è – ad eccezione del tè molto dolce – la
bevanda più dissetante di tutto il Medio Oriente. Una sorsata equivale a un tuffo in un bianco paradiso. Purtroppo,
però, durante la guerra Iran-Iraq del 1980-88 uno dei missili di Saddam distrusse la fabbrica iraniana di dukh. E
quello che andò a sostituirlo non era all’altezza. Una sera
un funzionario iraniano di alto grado dei servizi segreti e
alcuni sostenitori di Hezbollah che mi avevano invitato
fuori a cena rimasero allibiti nel sentirmi ordinare del
dukh. «No, non lo tocchi», mi gridò la spia una volta che
il cameriere me lo ebbe portato. «Non è più quello di una
volta». Non c’è problema, risposi, e lo buttai giù d’un fiato. Il sapore era un misto tra un copertone d’auto e una
boule per l’acqua calda. Lo espulsi tossendo. Perciò: mai
disdegnare i consigli culinari di una spia.
Fu terribile quasi quanto la notte che mi fermai nella città di Saropi in Afghanistan durante l’invasione sovietica del 1979-80. Non c’era elettricità. L’invisibile personale dell’albergo mi disse che c’era del pane e burro. Imburrai il pane nel buio più totale. E stetti male. Al mattino, quando mi svegliai, vidi che il burro era verde e doveva trovarsi lì secoli.
A SINISTRA Un monaco maronita sceglie una bottiglia di vino
nella riserva del monastero di Mar Mussa
sulle montagne a nordest di Beirut.
AL CENTRO Tavola imbandita in un ristorante di Beirut.
A DESTRA Il tipico desco di una famiglia iraniana:
un tappeto sul pavimento, padre e madre al centro
e le donne che servono il cibo.
molo, erba cipollina, menta, pasta, burro fuso), taboulè
(bulgur, succo di limone, olio d’oliva, pomodori, prezzemolo, menta e ancora pepe nero) e yogurt col cetriolo.
Tutto questo solo come antipasto. Sul tavolo di fronte al
re c’era un pacchetto di sigarette. Era consapevole della
loro presenza, riconosceva la propria incapacità a rinunciarvi. Il fumo lo uccise.
A onor del vero, va riconosciuto che in Afghanistan, Iran,
Siria o Egitto anche la famiglia più umile insisterà nell’invitare a un banchetto qualunque giornalista in visita
al di là del colore del suo passaporto, della sua condizione di infedele o della sua incapacità a togliersi le scarpe
prima di fare il proprio ingresso in casa. La vita di famiglia ruota attorno ai pasti. In Medio Oriente le conversazioni più serie cominciano dopo aver mangiato la prima
cipolla o bevuto il primo sorso d’acqua. Il mio sospetto è
che l’atto di nutrirsi sia così essenziale nella loro vita che
i padroni di casa tendono a credere che i loro ospiti parleranno solo di cose importanti. Niente convenevoli sul
tempo o sulle condizioni in cui versano le strade. Si va
dritti al punto. «Mr Robert, ci sarà un’altra guerra in Libano quest’anno?» (risposta: quest’anno no, forse il prossimo, perché sia gli israeliani che Hezbollah vogliono la
guerra) oppure: «Ma gli americani non si rendono conto
che non possono vincere in Afghanistan?» (risposta: non
ancora, ma perderanno, e allora smetteranno di dire che
hanno vinto). A quel punto si è arrivati al pesce al forno
con le noci, alle melanzane al forno e all’insalata turca
e… sì, al pollo con le patatine.
Gli uomini arabi sembrano apprezzare la carne in grandi quantità. Ma Osama Bin Laden – ho mangiato con lui
solo una volta – era più ascetico. «Prima si prega, poi si
mangia», annunciò l’ultima volta che lo incontrai, sui
monti dell’Afghanistan. Le preghiere furono abbondanti – non da parte mia – il cibo molto meno. Sedevamo a
terra, Bin Laden accanto a me; c’era una tovaglia stesa sul
terreno davanti a noi e sciami di moscerini che scendevano in picchiata dal cielo rovente. Lui sorseggiò tè cal-
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TABOULÈ per 4 persone di Claudia Roden
FALAFEL per 10 persone di Claudia Roden
Questa è una versione casereccia dell’insalata molto verde e aspra con prezzemolo e menta che viene servita nei
ristoranti libanesi. Nei negozi alimentari indiani e mediorientali si trovano grossi mazzi di prezzemolo a foglia larga del peso di 200/250 grammi.
Queste saporite frittelle di fave, chiamati ta’amia al Cairo, sono un piatto nazionale egiziano.
INGREDIENTI
INGREDIENTI
// Mettete in ammollo il bulgur in abbondante acqua
fredda per dieci minuti // Sciacquatelo in un colino quindi mettetelo in una terrina con i pomodori // Lasciate riposare per 30 minuti finché il bulgur avrà assorbito tutto
il succo dei pomodori // Unite gli altri ingredienti tranne
la lattuga e mescolate con delicatezza // Tradizionalmente, il taboulè si mangia raccogliendolo con foglie di cuori di lattuga o foglie di vite molto giovani.
QUI SOPRA Bancarella della frutta in un mercato a Sgiraz in Iran.
A DESTRA Kabul, un afghano
Corbis / Descordes / Photocuisine
vende della carne ai bordi di una strada.
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do, mangiò formaggio fresco sopra un grosso disco floscio di pane naan tanto popolare in Afghanistan e in Pakistan, addentò una cipolla e bevve yogurt. Dopodiché
ritornò nella sua tenda avvertendomi che avrebbe pregato Dio affinché permettesse a lui, Bin Laden, e ai suoi seguaci di «trasformare l’America nell’ombra di se stessa».
Essendo figlio dell’austerità postbellica, sono cresciuto in
Gran Bretagna con le tessere del razionamento. Niente
arance e banane. La mia dieta era a base di cavolo, carote
e barbabietole, e fece nascere in me un odio atroce per tutti e tre. Purtroppo una delle specialità della città libanese di Sidone è il succo di carota. E una delle bevande più
popolari nelle vie di Teheran è quello di barbabietola. Li
ho assaggiati entrambi. Sono disgustosi come sempre.
Né c’è modo di sfuggire alla proibizione all’alcol del Corano, né reinterpretazione che possa benedire il desco serale con un po’ di vino. Questo anche se alcuni dei più
Epa / Corbis / S. Sabawoon
Getty Images / R. Estakhrian
120 gr. di bulgur fine
500 gr. di pomodori maturi ben sodi, tagliati a cubetti
sale e pepe
1 cucchiaino di cannella macinata
1/2 di cucchiaino di pepe della Giamaica
il succo di un limone o più, secondo il gusto
4 cipolle fresche tagliate sottili
1 grosso mazzo di prezzemolo a foglia larga
finemente tritato a mano
1 mazzo di menta finemente tritata a mano
150 ml di olio extravergine d’oliva
2 cuori di lattuga per decorare
bei versi di poesia iraniana e irachena contemplano il bere del vino (spesso scritti da poeti ubriachi). Ma, com’è
logico, esiste dell’ottimo vino rosso libanese (Kifraya,
Musar), del vino di buona qualità in Egitto (il migliore,
devo confessare, quello prodotto con uve importate dalla Francia), e anche del buon vino algerino (grazie agli ex
colonizzatori francesi), nonché l’arak libanese, il “latte
del Libano”, così lo chiamano, probabilmente per conferire una parvenza salutista all’alcolismo. Distillato dal riso o dal latte della noce di cocco, è un parente stretto dell’ouzo e dell’assenzio, impesta l’alito ed è assolutamente
da evitare prima di intervistare un teologo musulmano.
na volta visitai un villaggio cristiano nel Sudest
del Libano di cui almeno venti abitanti si erano
inabissati con il Titanic nel 1912. A colazione insistettero affinché bevessi qualche bicchiere di arak, una
bevanda tracannata non solo da uomini ma anche da donne e bambini. Gli appunti che scrissi con mano malferma
riportano la triste cronaca della morte degli abitanti del
villaggio, ad eccezione di una giovane ragazza che aveva
U
500 gr. di fave secche
messe in ammollo in acqua fredda per 24 ore
sale e pepe
2 cucchiaini di cumino macinato
1 cucchiaino di coriandolo macinato
1 presa di peperoncino (facoltativo)
1 cucchiaino di bicarbonato di sodio
1 grossa cipolla finemente tritata o grattugiata
5 cipolle fresche finemente tritate
6 spicchi d’aglio schiacciati
1 grosso mazzo di prezzemolo a foglia larga,
finemente tritato
1 grosso mazzo di coriandolo, finemente tritato
Olio di semi di girasole o altro olio leggero
per la frittura a immersione
// Un ammollo prolungato delle fave è fondamentale
per la buona riuscita // Scolate bene le fave e lasciatele
asciugare per un po’ sopra uno strofinaccio // Passatele
poi nel tritatutto fino a ottenere un impasto a cui andranno aggiunti sale e pepe, cumino, coriandolo, peperoncino e bicarbonato di sodio // L’impasto deve essere privo
di grumi e morbido, e dovrà stare insieme durante la frittura // Se l’impasto non resta insieme significa che non
è stato macinato a sufficienza // A questo si può rimediare incorporando 2-3 cucchiai da tavola di farina // Lasciare riposare per almeno 30 minuti // Aggiungere il resto
degli ingredienti tranne l’olio // Se tritate o grattugiate
le cipolle nel tritatutto, poi strizzatele per fare uscire l’acqua di vegetazione // Lavorate bene l’impasto con le mani // Prendetene una piccola quantità per volta e fatene
dei dischi piuttosto spessi del diametro di 5 cm // Lasciateli riposare per 15 minuti, poi friggeteli a immersione nell’olio finché saranno scuri e croccanti, rigirandoli di tanto in tanto // Toglieteli dall’olio con un mestolo forato e
lasciateli asciugare su carta da cucina // Servire ben caldi, accompagnati da hummus, pomodoro, cetriolo e pita.
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eirut è un luogo felice in cui vivere – guerre permettendo – e vi viene probabilmente servito il cibo più pulito e speziato di tutto il Medio Oriente. Il caffè bevuto sulla riva del mare al Manara Restaurant, a poche centinaia di metri dal mio appartamento
sulla Corniche, con le onde che si frangono a due passi di
distanza – i giornalisti hanno l’abitudine di parlare di
“caffè caldo appiccicoso” e “tè ustionante e dolce”, come
se gli arabi lo servissero freddo o (a meno che non venga
richiesto altrimenti) amaro – è uno splendido modo per
cominciare la giornata. I pescatori stanno appollaiati sulle rocce non lontano dal tavolo, circondati dalla spuma
del mare. Mi piace pranzare al ristorante Abdul-Wahab-
B
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tricità era scarsa quanto la pace, mi fu servita una bistecca che mi causò un grave avvelenamento da cibo durato
due giorni, durante i quali giacqui a letto invocando la
pena di morte per tutti camerieri. Ma ora il pesce è impeccabile, i piatti italiani hanno un prezzo ragionevole, i
camerieri (me lo immagino ogni volta) devono avere centocinquanta anni e sanno come si prepara un gin tonic.
redo che questo riassuma la città in cui vivo. Arrivi da Londra o Parigi e senti l’odore del cardamomo nel caffè e ti rendi conto di essere in Medio Oriente. Arrivi da Teheran o da Bagdad e ordini un gin
tonic (e compri The Independent) e sei arrivato in Occidente. Tel Aviv, con il suo mix unico di cibo arabo e dell’Europa orientale, è seconda solo a Beirut. Dopotutto ha
più ristoranti marocchini (ebraici) e iraniani (ebraici) di
gran parte delle città mediorientali. Molto tempo fa sono
giunto alla conclusione che gli israeliani mangiano bene.
Lo stesso dicasi per i palestinesi, per quanto questi ultimi
vi diranno – a ragion veduta – che gran parte delle arance
che si mangiano a Tel Aviv provengono da frutteti di legittima proprietà di arabi a cui furono sottratti nel 1948.
Io e Abed, il mio autista di Beirut, ci compriamo spesso a
turno manouches di formaggio, grandi e spessi dischi di
pane arrotolato attorno a un’anima di formaggio giallo
caldissimo, benché probabilmente il mio padrone di casa Mustafa sappia preparare i migliori in assoluto (quelli
che vengono subito dopo sono venduti in un chiosco di
strada nella cittadina collinare di Sofar). Non ho mai capito perché il manouche – ne esiste una varietà zaatar,
per coloro ai quali non dà fastidio il timo infilato tra i denti – non sia emigrato in Siria o in Giordania o in “Palestina”. Immagino che alcuni cibi non valichino mai le frontiere. I cioccolatini di Beirut sì, naturalmente, assieme ai
migliori pistacchi della Rifai Roastery – attenzione alla
varietà siriana: sono sottili e hanno una secca fragranza
baathista – e le spremute di arance enormi che si comprano in strada. In Hamra Street c’è un café che si chiama
Malek-al-Asir, il Re delle Spremute. Mi piacciono i superlativi perché mi fanno sempre venire in mente il negozio di fiori a Yalding, nel Kent, dove ai clienti si assicurava che “le begonie di Bang fioriscono meglio di tutte”.
Per ovvie ragioni, in Medio Oriente i giornalisti passano
parecchio tempo ai banchetti funebri sbocconcellando
debitamente il cibo offerto per rendere onore alla memoria di furfanti, dittatori, vagabondi, assassini, “martiri”,
C
Getty Images / R. Estakhrian
abbandonato marito e figlio per attraversare l’Atlantico
in cerca di fortuna; quando il Titanic naufragò la giovane
fu recuperata nell’Atlantico, fece effettivamente fortuna
nel campo del legname in Canada, quindi tornò al suo villaggio in Libano, ma solo per scoprire che gli amici la accusavano di avere rubato i soldi dell’assicurazione delle
vittime del naufragio. Di lei, ahimè, non rimane tomba.
In quel villaggio cristiano la tradizione vuole che le bare
rimangano per dieci anni in una cappella, dopo di che le
ossa vengono gettate in un pozzo locale. Perlomeno è così che, dopo svariati arak, narra la storia.
A volte è la più semplice delle bevande o dei cibi a dare
soddisfazione. Ricordo una torrida giornata estiva a
Qom, mentre aspettavo di parlare con Khomeini, quando uno studente inglese di sciismo mi offrì una ciotola
di bronzo con dell’acqua quasi ghiacciata. Un altro sprazzo di paradiso. Da allora mai acqua mi è parsa tanto buona. O il viaggio fatto in mezzo alla polvere verso la Valle
del Panjshir in Afghanistan quando, mezzo morto di fame e avendo trovato una chaikana, una casa da tè, scoprii che stavano friggendo delle uova, che servivano sopra il pane naan; fu così che passai mezz’ora in religioso silenzio a ingurgitare uova fritte sul pane appena tolte dalla pentola. Una volta, accaldato e impaurito durante un raid dell’esercito israeliano contro un villaggio nel
Sud del Libano dove mi trovavo, un uomo che lavorava
in un frutteto – e che forse aiutava la resistenza – all’alba mi offrì un mandarino che le ore notturne avevano rinfrescato, e me lo aprì con un coltello a lama ricurva. Il sapore era dolce quanto quello che poteva avere la vita in
quel pericoloso mattino. Ricordo d’aver pensato: i condannati si godono il loro ultimo pasto?
al-Inglisi, per quanto ne so l’unico locale ad avere preso
il proprio nome da un uomo impiccato. Per la precisione
prende il nome dalla via intitolata a uno dei martiri libanesi che furono impiccati dai turchi nel 1915 (in Martyrs’
Square, in centro a Beirut, di qui il nome), ma è all’altezza del sogno di indipendenza di Abdul Wahab: i più deliziosi mezze, la più rorida frutta e verdura, il miglior
arak, i più lindi narghilè.
C’è poi una vecchia spaghetteria mal illuminata, un po’
arretrata rispetto al mare, a Beirut Ovest, l’unico ristorante rimasto aperto durante i quindici anni di guerra civile
del Libano. Nel 1975 subì la perdita di uno specchio a
opera di una granata e trent’anni dopo quella di una finestra a opera di una bomba che uccise il suddetto Hariri.
Il pesce è fresco; io adoro il sultan ibrahim (dentice), per
quanto non manchi mai di controllare che l’occhio sia
limpido. Molti anni fa, durante la guerra, quando l’elet-
criminali di guerra e pii prelati. Il banchetto più triste a
cui ho partecipato si è tenuto in un villaggio inospitale
chiamato Turungzai, fuori Peshawar, in Pakistan, nella
provincia di frontiera a Nordest. Era un luogo di fogne a
cielo aperto e di bambini piangenti, nonché dimora di
Saifullah, una delle prime vittime dell’attacco americano all’Afghanistan del 2001. Saifullah era uno studente
che aveva portato dei soldi a Kabul per gli afghani “sofferenti” – il fratello aveva poi ammesso che forse era stato un combattente – ed era saltato in aria assieme ad altri
trentacinque uomini nel corso di uno dei primi attacchi
americani su Kabul con missili Cruise. Avevano appena
dato sepoltura a Saifullah – il nome significa “Spada di
Dio” – come martire nel piccolo, tetro cimitero del villaggio e il padre, Hedayatullah, mi aveva invitato a mangiare con la famiglia. C’era pollo arrosto e dolci mitha e bricchi di latte e tè. Usando le dita, Hedayatullah strappò pezzi di pollo dal braciere, li appallottolò nelle mani nude e
quindi me li porse affinché le mangiassi. Io lanciai un’occhiata al mio interprete di pashtu, che mi rinviò un solenne cenno di assenso col capo. Li mangiai tutti. Davvero gustosi, a onor del vero. Sopravvivemmo. Oggi il mio
interprete è diventato un pezzo grosso del governo afghano. Io continuo a fare il corrispondente dal Medio Oriente, presumibilmente immune a qualunque malattia.
C’è però un’esperienza culinaria che non manca mai di
sconcertarmi. Mi capita dopo avere tenuto lezioni in università molto lontane dal Libano. La settimana precedente mangio bene e consumo i miei pasti nei ristoranti libanesi, dove bevo il solito “caffè caldo appiccicoso” di cui
scriviamo sempre. Dopo un volo di 18 ore arrivo a Vancouver, o dopo uno di 36 a Sidney, tengo una lezione di grande successo e poi, mentre barcollo per la stanchezza, ricevo un invito dall’organizzatore in termini che sono sempre gli stessi: “Robert, per te c’è una bella sorpresa stasera: ti portiamo al ristorante libanese!”. Oh Dio mio, un’idea
davvero brillante. Infatti non c’è niente che mi dia più piacere che percorrere migliaia di chilometri dal Libano e,
sbandando per la stanchezza, andare a mangiare dell’altro cibo libanese. Il cuoco, come sempre, è un druso, che
vuole raccontarmi “come sono andate veramente le cose”
nella guerra sulle montagne del 1984 (durante la quale io
ero là). A volte anche i ceci riescono a essere noiosi.
Ma fermi un attimo. Questa è una cosa seria. Promemoria
per Abed, il mio autista: tocca a te comprare i manouche.
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© The Independent, sabato 22 maggio 2010
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